Go down

Il testo di quest’articolo riprende alcune parti del mio volume “Neoumanesimo e transumanesimo nell’era dell’I.A.” (Fotograf edizioni, Palermo, ISBN 978-88-97988-75-5) di recente pubblicazione.


Dall’alba dell’umanità un interrogativo che non scompare mai dalla mente umana è cosa ci sia dopo la morte. Superstizioni e religioni hanno provato nei secoli a colmare questo bisogno di trascendenza, ma rimane comunque un po’ in tutte le culture, magari nell’intimo delle varie individualità, un qualche anelito verso l’infinito, se non verso una qualche rinascita, verso l’immortalità o quanto meno verso un più modesto, seppur possibile, allungamento della vita biologica che la natura ci impone. È un’aspirazione verso un concetto metafisico di “sempre” che riesce difficile cancellare o mettere definitivamente da parte, ma che in genere nella nostra vita quotidiana abbiamo un po’ tutti solo l’abitudine di accantonare seppellendola sotto centinaia di attività e distrazioni che tuttavia non ci impediscono del tutto, ogni tanto, di tornare a pensarci. La domanda resta sempre in agguato, pronta ad affiorare nella nostra mente magari quando siamo più vulnerabili in relazione a un momento di crisi, a un lutto, all’insorgere di una malattia…

è stata anche la tecnologia contemporanea a dissociare questa realtà ineludibile dal suo originario ciclo vitale e quindi allontanarne il pensiero della morte

Ma non se ne va mai definitivamente e, ovviamente, si ripresenta sempre all’appuntamento ultimo della nostra vita, quello del trapasso (che per pudore ci riesce difficile chiamare col suo vero nome, “morte”), allorquando ci rendiamo conto che non sapremo mai la risposta o forse l’avremo ben presto, ma non potremo probabilmente comunicarla e condividerla con i nostri cari, cioè con coloro che stiamo per lasciare e che rimangono in vita. Semmai si può affermare che è stata anche la tecnologia contemporanea a dissociare questa realtà ineludibile dal suo originario ciclo vitale e quindi allontanarne il pensiero, facendo dimenticare quanto in essa vi sia proprio di naturale e quindi anche di umano, come accade per un fiore, un albero, un animale, ecc.

L’avanzare delle tecnologie e delle scoperte scientifiche, oltre che l’innalzarsi dell’età media degli individui e la continua guerra per sconfiggere malattie un tempo incurabili, se da un lato hanno permesso di allontanare il tempo della vita in cui considerarsi anziani e iniziare quindi a pensare anche all’imminenza della morte, dall’altro ci hanno regalato come contraltare una incertezza metafisica che, se non poteva sconfiggere la morte (anche se qualche miliardario già adesso ci sta provando mediante la criogenesi, facendosi ibernare prima della fine sperando di risvegliarsi in un mondo futuro nel quale sopravvivere in qualche modo a sé stesso), quanto meno tentava di nasconderla il più possibile, cancellandola dai nostri orizzonti esistenziali e perfino semantici.

non siamo stati capaci di prevedere l'arrivo dell'IA attuale e così non abbiamo avuto il tempo di imparare a capirla e a gestirla

Di mezzo ci sono sviluppi che erano impensabili solo fino a poche decine di anni fa e una concezione del tempo che continua a mutare in modo troppo accelerato perché spesso le persone possano metabolizzare i cambiamenti. Se ci vollero varie generazioni per metabolizzare la rivoluzione industriale, sono stati sufficienti un paio di decenni soltanto per internet; quanto all’I.A., invece, non solo non ci siamo nemmeno accorti che stava arrivando e così non abbiamo avuto il tempo di imparare a capirla e a gestirla, ma è spesso mancata un’elaborazione “collettiva” del suo scopo e delle sue potenzialità (oltre che dei suoi limiti); né si può negare che sempre più le nuove tecnologie diventano risorse per pochi ed elementi del tutto ignoti o inaccessibili per molti, segnando un ulteriore handicap fra ricchi e poveri e fra popoli dominanti e popoli sfruttati e ai margini della geopolitica e dell’economia mondiali.

Ma anche fra quelli che hanno iniziato a conoscerla e possono fruirne, l’intelligenza artificiale pone una seria questione che riguarda le strategie di adozione; parliamo di un “processo deliberativo” che oggi rimane assai più lento di quel processo tecnologico che pure dovrebbe governare. I nostri meccanismi decisionali collettivi sono calibrati per problemi che evolvono su scale temporali diverse. Il vero problema dell’I.A. (e di quella generativa più precisamente) non è la sua velocità, ma la nostra mancanza di criteri comuni per decidere cosa difendere e cosa lasciar andare. Senza un quadro di valori condivisi, ogni discussione sarà frammentata e ogni decisione arriverà troppo tardi.

Avere ormai intrapreso strade del tutto innovative (e da cui non si può tornare indietro) che ci hanno già messo a disposizione modelli di realtà virtuale, di intelligenza artificiale, di robot tuttofare in grado di sostituire l’uomo in molte attività, o essere in grado di sostituire il controllo umano delle tecnologie più sofisticate (sia civili che, non dimentichiamocelo, anche militari) con sistemi tecnologici autosufficienti ci induce a pensare in termini assolutamente diversi e costringe anche il mondo della filosofia e perfino quello della teologia a fare altrettanto se non vogliono entrambi questi due mondi a loro volta estinguersi o rimanere isolati nel loro tramonto crepuscolare solo al chiuso delle discussioni accademiche.

Gianfranco Ravasi, sicuramente una delle menti più lucide della Chiesa, ha provato a chiarire il pensiero di una teologia che non vuole rimanere estranea a questo nuovo mondo tutto in fieri:

«Ci ritroviamo spesso appiattiti, schiacciati su un’unica dimensione. Un certo uso della scienza e della tecnologia hanno prodotto in noi un cambiamento che non è solo di superficie. Se imparo a creare robot con qualità umane molto marcate, se sviluppo un’intelligenza artificiale, se intervengo in maniera sostanziale sul sistema nervoso, non sto solo facendo un grande passo avanti tecnologico, in molti casi prezioso a livello terapeutico medico. Sto compiendo anche un vero e proprio salto antropologico, che tocca questioni come libertà, responsabilità, colpa, coscienza e se vogliamo anima»[1]. Inoltre, in un suo recente volume, il grande teologo cattolico chiarisce anche qual è il ruolo che ancora può essere attribuito nel mondo moderno all’anima dell’uomo: «Siamo in un mondo che ha smarrito l’anima e non se ne duole, né tanto meno si preoccupa di riconquistarla. Casomai, è il corpo a dettare legge […]. Interessarsi dell’anima o di Dio è una forma di provocazione per il nostro tempo, nel quale non c’è una negazione radicale, strutturale, cosciente e coerente di Dio […]: domina invece l’apatia, che trascolora in quello che definisco apateismo»[2].

Tuttavia, cosa accadrà all’umanità quando per esempio la biotecnologia consentirà non solo di progettare figli perfetti, senza tare genetiche ereditarie, dando un nuovo significato al concetto di vita e di creazione, ma anche di riprogrammare coscienze o di vivere in simbiosi con intelligenze artificiali mediante l’uso di microchip neuronali che permettano il collegamento continuo fra il nostro “hardware corporale” e il software dell’I.A., magari all’interno di realtà virtuali alternative e infiniti altri metaversi? E cosa accadrà se un giorno, concretizzando nella realtà i soggetti di vari libri e le sceneggiature di altrettanti film e serie televisive, si riuscirà a sopravvivere al proprio corpo devolvendo a una scheda di memoria le proprie esperienze di una vita per farle trasmigrare in un altro essere (umano, bionico o totalmente artificiale)?

Non vi è risposta certa a quesiti o a problemi del genere né nella Bibbia, né nel Corano, né nel Talmud, né in qualsiasi altro libro sacro al mondo o in qualsiasi teologia anche non codificata da un libro sacro. Ma non vi è risposta certa nemmeno nei testi scritti dagli scienziati oggi più all’avanguardia né nelle azioni dei guru di queste nuove tecnologie, spesso protetti a livello personale da una privacy insondabile; e ciò tenendo anche conto che comunque i benefici e i rischi di una tecnologia sempre più autonoma anche rispetto ai processi decisionali dell’uomo rimangono inequivocabilmente non distribuiti equamente fra i gruppi socio-demografici del pianeta, il che potrebbe continuare a danneggiare ulteriormente (soprattutto per quanto attiene ai benefici) alcuni rispetto ad altri, aumentando in ogni caso le diseguaglianze già esistenti anziché diminuirle.

Fra alcuni di questi personaggi così potenti c’è anche chi pensa alla progettazione da zero di un nuovo umanesimo talmente radicale da sovvertire ogni certezza sulla stessa umanità come l’abbiamo fin qui conosciuta. Parliamo addirittura di un “trans-umanesimo” che possa andare davvero oltre le leggi naturali della biologia e della fisica, oltre che dell’etica e della legge (sociale o morale che sia). Perfino nel corso della parata militare svoltasi a Pechino nel mese di settembre del 2025 per la celebrazione dell’ottantesimo anniversario della fine della seconda guerra mondiale, il presidente russo Vladimir Putin e quello cinese Xi Jinping hanno parlato fra loro, pensando di non essere ascoltati, di ipotesi di “immortalità” (quanto meno per loro). Sembra che il sunto del discorso fatto da Putin all’omologo cinese sia stato questo: «La biotecnologia si sta sviluppando, gli organi umani possono essere trapiantati incessantemente. Più a lungo si vive, più si diventa giovani, e si può persino raggiungere l'immortalità». A questo punto i microfoni hanno captato la risposta del leader cinese: «Alcuni prevedono che in questo secolo gli esseri umani potranno vivere fino a centocinquanta anni. In passato le persone raramente arrivavano a settanta anni, ma oggi a settanta sei ancora un bambino».

Potremmo liquidare questa breve conversazione come l’ennesima prova di titanismo dei due leader se non fosse che dappertutto, nel mondo occidentale come in Russia o in Cina, l’uomo non è mai stato capace di accettare la morte, di comprenderla e di comportarsi di conseguenza, e questa voglia di superare le barriere della vita “normale” agita inconsciamente soprattutto i potenti ben più di quanto non accada sicuramente alle persone comuni: i potenti della Terra sembrano non accettare di essere mortali perché non vogliono rinunziare al potere che esercitano, ipotizzando di non perderlo mai grazie a qualche forma di immortalità. Né, ritornando al dialogo summenzionato sfuggito ai microfoni, si può pensare al delirio di due folli, dato che alcuni tentativi di allungamento della vita con metodi anche poco ortodossi dal punto di vista etico ci sono già stati nella realtà e non solo nella letteratura di fantascienza; ne è un esempio il tentativo di Sergey Brin e Larry Page, fondatori di Google, di studiare possibili cure genetiche per aumentare la vecchiaia con successo grazie ai finanziamenti erogati alla California Life Company, nata proprio per studiare cure volte alla massima  longevità biologica raggiungibile dai corpi umani, da mettere a disposizione (va comunque precisato) comunque solo di coloro che potrebbero alla fine permettersi il costo altrettanto folle dei rimedi e delle cure così eventualmente elaborate.

Ma, più che a forme in qualche modo biologiche di allungamento della vita (o di “reincarnazione”), perché non affidarsi alla trasmigrazione delle coscienze sfruttando corpi diversi e sempre giovani e “freschi”? Parliamo qui di una sorta di metempsicosi digitalizzata; ma non si tratta solo di un’idea folle, dato che si trova alla base del progetto “Humanity+”, al quale ha dedicato estrema attenzione il filosofo svedese Nick Bostrom, autore di una serie di studi sia divulgativi che accademici su tematiche riguardanti il trans-umanesimo e alcuni argomenti a esso collegati, quali la clonazione, l’intelligenza artificiale, la super-intelligenza, la possibilità di trasferimento della coscienza umana su supporti tecnologici, le nanotecnologie e la realtà simulata.

Bostrom è noto, in particolare, per essere diventato il grande sostenitore di una tesi secondo la quale le probabilità che la specie umana viva all’interno di una realtà simulata sarebbero rilevanti dal punto di vista probabilistico; questa tesi ha acceso il dibattito sulla possibilità di simulare la coscienza, e quindi di preservarla artificialmente nel tempo e nello spazio. Grazie alle nuove tecnologie, sempre più potenti ed efficienti, e in particolare alle più evolute forme di intelligenza artificiale, la coscienza simulata sarebbe capace, come quella umana, di attivare processi mentali basati sulle informazioni sensoriali o sull’immaginazione, utili per l’adattamento dell’organismo all’ambiente. Questa concezione, capace a suo modo di integrare biologia, scienze cognitive, informatica e tecnologie avanzate, mirerebbe quindi a emulare la coscienza individuale e a “caricarla” su un supporto digitale (definito “mind uploading”). Si arriverebbe perfino a creare così un grande “database” virtuale di menti coscienti, capaci di resistere in tempi indefiniti al di là dei corpi o in attesa di essere eventualmente caricate su un nuovo tipo di corpo, magari frutto di una biologia tecnicizzata.

Se c’è chi pensa che questa sia solo l’idea di un’altra mente folle, sappia che anche un informatico della fama di Raymond Kurzweil ha ipotizzato che riversare la coscienza individuale nel web sia un modo per assicurare sopravvivenza dopo la fine della vita corporea. Noto per essere finito anche sulla copertina del “Time”, Kurzweil ha plasmato il dibattito sulla tecnologia con alcuni libri considerati di importanza fondamentale per delineare il futuro dell’umanità[3], che aiutano a comprendere l’epoca che stiamo vivendo e a delineare il futuro che verrà, un futuro accelerato dallo sviluppo dell’intelligenza artificiale generativa, che sarà sempre più capace di esprimersi come un essere umano e di svolgere autonomamente compiti riservati in precedenza a persone esperte: dalla scrittura di codici alle diagnosi mediche. Anche secondo Kurzweil la possibilità di creare una copia virtuale senza età di sé stessi e di inserirla in una banca-dati di massa darebbe origine a una nuova umanità, di fatto virtuale perché posta al di fuori dei limiti dello spazio e del tempo, quindi a un nuovo mondo di vite simulate resistenti oltre la morte dei rispettivi corpi biologici.

Il futuro della nostra specie si concretizzerà quindi in una fusione fra uomo e macchina? 

Il futuro della nostra specie si concretizzerà quindi in una fusione fra uomo e macchina? Forse è un’utopia (o un incubo, a seconda della prospettiva da cui si guarda questo possibile futuro), ma questa idea di potenziale immortalità è stata perfino tradotta in pratica da un miliardario russo, Dmitry Itskov, che nel suo ambizioso progetto “Iniziativa 2045” aspira a sostituire le persone reali, fragili e mortali, con persone olografiche, potenzialmente immortali. Lanciato nel 2011, questo progetto ha come obiettivo principale quello di sviluppare tecnologie che possano permettere all’umanità di vivere indefinitamente. Il futuro immaginato (e in qualche modo in corso di realizzazione) da parte di Itskov è un mondo in cui le persone potranno trasferire la loro coscienza a piattaforme non biologiche, superando così i limiti fisici del corpo umano.

Il progetto di cui parliamo non è così tanto fantascientifico come sarebbe lecito pensare, ma articolato in quattro fasi con tempistiche e progettazioni ben precise: nella prima fase, già iniziata, è prevista la creazione di un robot controllato dal cervello umano attraverso un’interfaccia neurale che, anche nell’immediato, permetta alle persone paralizzate di muoversi attraverso robot avatar; la seconda prevede la creazione di un avatar in cui il cervello umano può essere trapiantato alla fine della vita biologica del corpo; la terza fase sarà quella dello sviluppo di un avatar con un cervello artificiale, in cui la personalità di un essere umano potrà essere trasferita al termine della vita biologica anche dello stesso cervello naturale; infine entro il 2045 è prevista la creazione di un corpo olografico con capacità di trasferirvi anche la coscienza umana (questo rappresenterebbe l’ultimo passo verso una forma di esistenza “umana” in forma completamente non biologica).

Questi progetti sono quindi incardinati sulla logica di trasformazione degli individui in avatar digitali, il che risponderebbe all’antica aspirazione di superare i limiti fisici della vita del corpo umano. Ma siamo sicuri che in questa ipotesi di transumanesimo ci sarà bisogno ancora, in sostanza, di un’umanità cosciente che regoli a modo suo il mondo se questo compito può essere demandato a un’intelligenza superiore (non più metafisica e teologica, ma tecnologica e digitale)?

Come abbiamo fin qui detto, per quanto ne sappiamo i computer di oggi non sono (o non sono ancora) più “coscienti” di quelli di dieci o vent’anni fa, ma sono sicuramente più “intelligenti”, più rapidi nell’eseguire le loro istruzioni programmate; ma sono in grado (e lo saranno sempre più in futuro) di autoprogrammarsi e di evolversi da una fase meramente esecutiva (eseguo linee di programma necessarie per ottenere soluzioni funzionali) a una fase evolutiva anche adattativa (creo metodi e modelli alternativi per la soluzione di problemi); ma non siamo affatto sicuri che la crescita di queste intelligenze porti con sé la crescita di una parallela coscienza. Ma tutto lascia pensare che si stia comunque lavorando a delle soluzioni ben più avanzate anche per quanto riguarda proprio la “coscienza” delle future macchine.

E quindi, se per vari millenni l’evoluzione organica è andata di pari passo con un’evoluzione delle coscienze, che ha comunque lasciato a entità sovrannaturali il compito di creare e muovere i fili di ciò che l’uomo non riusciva a spiegarsi o a creare da solo, anche se oggi sembra ancora tutto “sotto controllo”, non sappiamo cosa accadrà fra dieci o cento anni e più, cioè nel momento in cui dei computer inorganici potranno creare ciò che l’uomo non è in grado da solo di fare, potranno spiegare ciò che l’uomo da solo non sa spiegarsi, potranno modificare ciò che l’uomo non è in grado di modificare. Ebbene, secondo gli apocalittici, a quel punto non solo non ci sarà forse più posto per l’umanità come la conosciamo fino a oggi, ma non ci sarà posto a maggior ragione per un’entità superiore che spieghi con la sua presenza ciò che l’uomo non riesce ancora a spiegare.

In ogni caso l’evoluzione di intelligenze esterne all’umanità, cibernetiche o ciber-neuronali, potrebbe aggirare completamente vincoli e remore ancora presenti in quell’etica che le religioni, pur a fatica, provano ancora a mostrare al di là delle loro narrazioni fideistiche nelle teorie creazionistiche, nelle cerimonie religiose e nelle manifestazioni esteriori o interiori di culto per divinità più o meno delineate con la materialità di volti umani o animali o piuttosto con concetti animistici e spirituali rivolti all’assoluto e a realtà immanenti superiori.

Ma se queste realtà superiori si concretizzeranno prima o poi in una forma tanto evoluta di intelligenza artificiale che, seppur creata dall’uomo, ne dovesse arrivare a dominare alla fine le azioni e ne dovesse ridurre a nuda vacuità i sentimenti, non avremo più un’evoluzione meramente antropologica del mondo, ma una sostituzione di questa umanità come l’abbiamo fin qui conosciuta nella sua evoluzione dall’homo sapiens in poi con una tecnologia che supererà i confini di quella scienza dell’uomo che non è solo legata all’antropologia, ma ai sentimenti, agli affetti, all’etica, al senso del dovere, al senso del limite, e a maggior ragione al senso o all’idea di un qualcosa di sovrannaturale, con tutte le sue tradizioni e i suoi vincoli ideologici, dogmatici e cerimoniali che, forse in misura sempre minore, riusciranno a resistere e rimanere per qualcuno ancora validi e utili, anche se non si per quanto.

La “vita oltre la vita”, ammesso che la si possa davvero realizzare in futuro, da chi sarebbe governata se non da altri agenti intelligenti con poteri sulla riproduzione e conservazione della mente cosciente, cioè l’essenza stessa dell’esistenza? Lo stesso Bostrom di recente ha messo in guardia contro i rischi che super-intelligenze sempre più dotate rispetto all’intelligenza umana possano indurre una dipendenza dell’umanità da tali macchine e creare potenziali catastrofi esistenziali: si tratterebbe in un certo senso di quegli stessi rischi derivanti da un “totalitarismo cibernetico” che gli umani avvertono d’istinto immaginando umanoidi dall’intelligenza superiore, proprio come affermato da tanta produzione letteraria e cinematografica sui robot “troppo umani”. Ma, in pratica, può l’umanità avvalersi del supporto delle menti intelligenti che essa stessa crea, usandole per fini positivi all’interno della vita, piuttosto che al di là di essa? E per supportare gli umani nella loro esistenza mortale, piuttosto che appagare, forse illusoriamente, un desiderio di immortalità che non trova realizzazioni in altro modo? Questa è certamente una delle sfide che la realtà virtuale e la simulazione della mente dovranno affrontare nel prossimo futuro.

Ed è anche quello che ha provato a ipotizzare Donna Haraway, oggi ottantenne, che ha fondato i suoi studi sulle implicazioni della tecnologia e della scienza sulla vita degli esseri umani moderni[4]. Secondo la studiosa statunitense, che per certi versi ha anticipato di mezzo secolo con le sue idee ciò che già sta realmente iniziando ad accadere sotto i nostri occhi con le forme sempre più evolute di I.A., la cultura occidentale è sempre stata caratterizzata da una struttura binaria (uomo/donna, naturale/artificiale, corpo/mente). Questo dualismo concettuale, secondo la Haraway, non è simmetrico ma basato sul predominio di un elemento sull’altro. Nella tradizione occidentale sono esistiti persistenti dualismi e sono stati tutti funzionali alle logiche e alle pratiche del dominio sulle donne, sulla gente di colore, sulla natura, sui lavoratori, sugli animali: dal dominio cioè di chiunque fosse costruito come altro col compito di rispecchiare il sé.

A questo riguardo, e con l’obiettivo di un superamento di questo dualismo storico e metafisico, la Haraway ha quindi introdotto la figura del “cyborg”, che da invenzione fantascientifica diventa metafora della condizione umana: il cyborg è al contempo uomo e macchina, individuo non sessuato o situato oltre le categorie di genere, e insieme organismo cibernetico, creatura sospesa tra finzione e realtà, comunque un ibrido che appartiene tanto alla realtà sociale quanto alla finzione. Questa figura, situata oltre i confini delle categorie che siamo normalmente abituati a utilizzare per interpretare il mondo, è probabilmente ciò verso cui l’umanità corre, nel presupposto di un’evoluzione della vita degli uomini come la intendiamo finora; una figura superiore come quella che millenni fa fu incarnata dall’homo sapiens, divenuto il dominatore dell’universo con l’estinzione dei dinosauri o semplicemente con il dominio su tutti gli altri esseri della terra, dell’acqua e del cielo, compresi i neanderthaliani che pure per alcuni secoli convissero e in alcuni casi si mescolarono con i sapiens; e tuttavia un essere che finora ha avuto anche confini limitanti del proprio sé affidati alla presenza di entità superiori che hanno spiegato ciò che l’uomo da solo non era in grado di spiegare o realizzare.

Adesso, tuttavia, l’avvento di un’era da lei battezzata “chthulucene” potrà rappresentare l’uscita quasi salvifica da un antropocene sempre più evidentemente catastrofico anche per i danni nel frattempo arrecati dall’uomo sull’ecosistema. Questo accadrà non se, ma quando l’I.A. sarà in grado di hackerare anche la coscienza umana sostituendosi a essa nella percezione dell’etica, della metafisica e di quelle teorie teologiche che nel frattempo saranno ancora rimaste in vita, con conseguenze inimmaginabili sul piano evolutivo. Il problema non è, quindi, “se” ciò accadrà, ma probabilmente “quando” ciò inizierà a concretizzarsi e se, giungendo a quel punto a conclusione questa evoluzione epocale, rimarrà ancora posto per l’umanità su questa terra o per un’umanità come l’abbiamo finora conosciuta. Potrebbe anche accadere che l’uomo finirà col delegare il pensiero creativo all’I.A. abituando a vedersi come una pluralità di meccanismi biochimici costantemente monitorata e guidata da una rete di algoritmi e da altri organismi, stavolta cibernetici, che costituiranno la nuova linea evolutiva delle creature del pianeta, magari con una propria idea di sovrannaturale o con il ricordo trascendente di un mondo onirico di “progenitori” che li hanno creato concedendo loro il potere sulle altre “creature” proprio come la Bibbia o il Corano hanno autorizzato fino a questo momento gli uomini a credere storicamente di sé stessi rispetto agli altri esseri viventi del pianeta.

O forse, in maniera meno plateale, come ipotizza anche Harari emergeranno fra le persone nuovi culti, di certo non nelle grotte dell’Afghanistan o nelle madrasse del Medio Oriente dove gli studenti coranici e i fondamentalisti del jihad si rifuggiranno per scampare al “transumanesimo cybernetico”, né nel chiuso dei seminari cristiani o dei templi tibetani dove si cercherà di tenere accesa la secolare fiamma della religione tramandata dai Padri della Chiesa o dagli antichi Lama, ma piuttosto nei laboratori di ricerca: si tratterà forse di nuove “tecno-religioni” che potrebbero conquistare ciò che resta della libertà di coscienza delle persone promettendo loro una nuova salvezza, stavolta grazie ad altri algoritmi ancora più innovativi o a una nuova genetica transumana. Forse in quel momento potrebbe non esserci più alcun dio a cui affidarci per un aiuto, nessun dio in grado di salvarci o comunque di proporci una via (oltremondana o no) di uscita e di salvezza.


Il testo di quest’articolo riprende alcune parti del volume “Neoumanesimo e transumanesimo nell’era dell’I.A.” dello stesso autore (Fotograf edizioni, Palermo, ISBN 978-88-97988-75-5)

Note

[1] “La tecnica corre troppo e ci cambierà l’anima”, intervista rilasciata a Elena Dusi e pubblicata dal quotidiano “Repubblica” il 25 giugno 2017.

[2] “Breve storia dell’anima” – Milano, 2022.

[3] Fra di essi ricordiamo: “The Age of Intelligent Machines” – Boston, 1990; “The Age of Spiritual Machines” – New York, 1999; e due pubblicati anche in Italia: “La singolarità è vicina” – Londra, 2005; trad. it. Milano, 2024; e “La singolarità è più vicina” – Londra, 2024;  trad. it. Milano, 2024.

[4] Cfr. “Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo” – Londra-New York, 1991; trad. it. Milano, 1995.

Pubblicato il 12 novembre 2025

Maurizio Karra

Maurizio Karra / Antropologo culturale - Giornalista

https://mauriziokarra.it