Go down

Un 31 dicembre segnato da guerre, morti e odio diffuso interroga il senso del bilancio di fine anno. Tra memoria e responsabilità, il testo riflette sul valore delle relazioni, sulla tentazione del solipsismo contemporaneo e sulla libertà come compito, a partire da Arendt, Sartre e Han.


Siamo al 31 dicembre e l’idea che un anno finisca oggi continua a esercitare una presa simbolica potente, pur nella sua evidente artificialità.

La fine dell’anno introduce una soglia narrativa che costringe a guardare a ciò che è accaduto come a un insieme dotato di peso. Parlare di fine significa esporsi a un giudizio, e ogni giudizio implica una responsabilità: decidere come stare di fronte a ciò che è successo, senza scorciatoie simboliche.

Il bilancio di fine anno, quando viene preso sul serio, apre una distinzione che merita di essere mantenuta: ricordare e tenere. E appartengono a registri diversi. Ricordare implica assumere l’intero spettro dell’esperienza, comprese le sue forme più opache e disturbanti. Tenere riguarda ciò che si sceglie di portare con sé, come se l’anno potesse essere trasformato in una riserva di senso. In un anno attraversato da guerre, da morti rese statistiche, da un odio sempre più esplicito e socialmente legittimato, l’idea di trattenere qualcosa dell’anno appare fragile. Il rischio è quello di convertire l’esperienza in un oggetto simbolico maneggevole, riducendo la portata di ciò che è accaduto.

Dentro questo paesaggio duro, le relazioni emergono come una dimensione che resiste alla logica del saldo. Gli incontri, gli scambi, i gesti minimi che hanno aperto uno spazio di riconoscimento reciproco non si lasciano tradurre in una contabilità dell’anno. Hannah Arendt ha pensato l’umano a partire dallo spazio che si apre tra gli esseri, là dove parola e azione rendono possibile un mondo comune, sempre fragile e mai garantito (H. Arendt, Vita activa. La condizione umana). Le relazioni, in questa prospettiva, non funzionano come risarcimento, ma come condizione di possibilità del vivere insieme.

La questione decisiva riguarda le condizioni storiche in cui questo spazio relazionale può ancora essere alimentato. Il nostro tempo moltiplica i contatti e insieme consuma la capacità di presenza. Alla connessione permanente si accompagna una progressiva ritrazione soggettiva, che assume la forma di un solipsismo comodo, funzionale, spesso socialmente premiato. Byung-Chul Han ha descritto con precisione questa configurazione, in cui il soggetto, sovraccarico e stanco, tende a ridurre l’altro a superficie di conferma o a interferenza da gestire (B.C. Han, La società della stanchezza; Psicopolitica). In questo quadro la relazione diventa esigente, perché richiede tempo, attenzione, esposizione.

È qui che la formula sartriana acquista spessore reale. L’idea secondo cui ciò che conta è ciò che facciamo di ciò che la società ha fatto di noi va letta come assunzione di responsabilità, non come celebrazione dell’autosufficienza individuale. In Sartre la libertà coincide con una responsabilità senza attenuanti, esercitata dentro situazioni che precedono il soggetto e lo impegnano interamente (J.-P. Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo). Ogni scelta contribuisce a disegnare un mondo condiviso, anche quando questo mondo appare già segnato da disuguaglianze profonde.

Un ulteriore elemento rende questa responsabilità particolarmente scomoda. L’altro, in Sartre, è colui che espone il soggetto, che lo sottrae alla coincidenza con se stesso, che incrina ogni pretesa di autosufficienza (J.-P. Sartre, L’Essere e il Niente). Le relazioni si configurano così come spazi di tensione, attraversati da conflitti, fraintendimenti, fallimenti. Pensarle come ciò che attraversa un anno brutto significa accettare che ciò che attraversa è instabile, incompleto, talvolta doloroso.

Forse il senso di questo 31 dicembre sta proprio qui. Alcuni anni non producono eredità, producono una responsabilità più esigente. Le relazioni non chiudono l’anno, lo mantengono aperto. Attraverso di esse continua l’esposizione reciproca, in un tempo che spinge alla ritrazione e alla semplificazione. Se qualcosa passa da un anno all’altro, non è il bilancio, ma il modo in cui continuiamo a farci carico gli uni degli altri, dentro un mondo che rende questo compito sempre più difficile e, proprio per questo, decisivo.

Pubblicato il 31 dicembre 2025