Io non mi ritengo filosofo e per questo non mi cimento in confronti o dibattiti con persone che invece filosofi (anche se pop) dicono di esserlo. Credo però che la filosofia non sia appannaggio dei soli filosofi e che tutti possano praticare la filosofia (filosofeggiare ve vi piace dirla così).
Per me praticare la filosofia, per dirla con Spinoza, è innanzitutto “non irridere, non piangere, non disprezzare e non adirarsi” e soprattutto, per dirla con Socrate, dialogare, investigare, interrogarsi e interrogare. L’obiettivo è di dare un senso alle cose e a sé stessi, ricercare il significato delle cose e della propria esperienza, mantenere vitale lo slancio vitale, trovare quanto serve per fare delle scelte, anche etiche, in modo da dare un senso e un significato alle proprie azioni. Sempre nella convinzione che natura e cultura siano inscindibili, che la mente umana è relazionale (non solo razionale) e incarnata, che la psiche umana non possa essere ridotta al cervello, che le motivazioni che muovono l’umano sono per lo più inconsce e che nessun essere umano, salvo forse qualche guru IA e filosofo pop, possa limitarsi a funzionare (Benasayag).
Ora cosa succede se io, che filosofo non sono, incappo casualmente, grazie a un post di Francesco Varanini, in un’affermazione di questo tipo: “[i filosofi] servono a fronteggiare la complessità delle trasformazioni caotiche in atto producendo mappe di senso per territori inesplorati e culturalmente perturbanti.”[1]?
Ora diciamo che, come minino, io mi “perturbo”.
La complessità, secondo il mio modesto parere, non si fronteggia, nella complessità ci si sta dentro.
Più che caotiche le trasformazioni sono silenziose, non si discernono (chi ha mai visto crescere un albero?). Noi siamo dentro le trasformazioni, in metamorfosi continua. Ma se le trasformazioni sono silenziose com’è possibile avere la pretesa di fornire delle mappe su territori inesplorati, dei/nei quali i “mappatori” (osservatori) sono parte in causa? Com’è possibile avere la presunzione di fornire modelli o configurazioni di qualcosa in continua transizione, che “si guarda ma non si percepisce, si ascolta e non si intende”?
Ciò che non si percepisce e non si comprende è secondo me la mutazione in atto dell’umano. È una mutazione che vive lo scarto crescente tra uomo e macchina, che vede il proliferare di modi di pensare e di agire che si ramificano a macchia d’olio in obbedienza a fedi, ideologie, tendenze che si affermano senza creare alcun allarme, mentre l’allarme è reale e dovrebbe interessare tutti, soprattutto coloro che si dicono filosofi.
E i filosofi invece di fornire mappe, modellare la realtà, predire il futuro, accettare entusiasticamente mappe e modelli elargiti da presunte “intelligenze” artificiali, potrebbero continuare a esercitare l’arte di vivere le domande, non teoriche ma esistenziali, incarnate, evitando di trovare risposte semplificate, appiattite, conformistiche, funzionali, soluzionistiche ma risposte utili a vivere, nella consapevolezza che, neppure attrezzati da potenti mezzi tecnologici, sempre dovremo fare i conti con la nostra fragilità, vulnerabilità, umanità. Per fare questo però bisogna “esserci”, non “farci”, bisogna interrogarsi sul senso del vivere, dell’esistenza, del nostro essere nel mondo. Tutte cose che le macchine non sanno e non sapranno mai fare!
“Persino nell’ipotesi che tutte le possibili domande scientifiche abbiano avuto risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora neppure sfiorati” Ludwig Wittgenstein
[1] La citazione è tratta da una intervista rilasciata da Cosimo Accoto all’editorialista del Corriere della Sera Massimo Sideri del 9/12/2024 (https://shorturl.at/tsZOa). Su questa intervista Francesco Varanini ha pubblicato su Linkedin questa riflessione: (https://shorturl.at/oYQZJ) che è servita come spunto al mio articolo.