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Quando sentiamo parlare di design, pensiamo spesso a qualcosa di visivo, funzionale, magari elegante. Ma dietro ogni progetto ben fatto c’è molto di più: c’è un modo di osservare il mondo, di ascoltare le persone, di capire ciò che serve davvero. In questa conversazione, Frida Riolo ci accompagna dentro il suo lavoro quotidiano, dove la meraviglia, la sostenibilità e persino l’errore diventano strumenti di progetto. Partendo da un’esperienza concreta — la Fiera del Giocattolo di Norimberga — ci invita a guardare al design come a un gesto di attenzione, e forse anche di responsabilità verso il nostro tempo.


Nel mondo della progettazione, si parla spesso di funzionalità, di performance, di innovazione. Più raramente si parla di meraviglia. Eppure, in alcuni contesti, è proprio da lì che comincia il pensiero progettuale più profondo: non da ciò che sappiamo già fare, ma da ciò che ci sorprende, che ci costringe a riformulare le domande.

Frida Riolo lavora nel design strategico, muovendosi tra intelligenza artificiale generativa, sostenibilità e cultura STEAM. Con PRM Design si occupa di sviluppare prodotti e percorsi che coniughino etica e ingegneria, forma e funzione, estetica e impatto. Quando ha raccontato la sua esperienza alla Fiera del Giocattolo di Norimberga, ha usato un’espressione precisa: “ritorno alla meraviglia”. Abbiamo deciso di partire da lì per una conversazione più ampia su come il design possa aiutarci a ripensare i nostri sistemi, non solo a migliorarli.

Frida, nel tuo recente post sulla Fiera del Giocattolo di Norimberga parlavi di “ritorno alla meraviglia”. Non come fuga, ma come atteggiamento progettuale. Che cosa intendi esattamente? E come questa postura può trasformare il modo in cui le aziende innovano?

Meravigliarsi non vuol dire scappare. Non vuol dire nemmeno tornare bambini. È piuttosto un modo diverso di stare nelle cose. Di guardarle, e per un attimo, non riconoscerle. È in quel momento che si può cominciare a capire.

Nel mio lavoro la meraviglia serve a sospendere l’ovvio, a lasciare spazio a ciò che non avevamo previsto. Non è un gesto sentimentale, è una forma di lucidità. Le aziende che riescono a praticarla — anche solo per poco — smettono di correre verso la soluzione, e cominciano a fare domande più vere.

Credo che la meraviglia sia, oggi, una forma di resistenza. Una piccola ribellione silenziosa. Un modo per non cedere all’automatismo. Perché nei processi veloci, nei numeri e negli standard, si rischia di dimenticare che progettare è, prima di tutto, ascoltare.

Nel tuo lavoro intrecci intelligenza artificiale generativa, sostenibilità e cultura STEAM. In che modo queste dimensioni si tengono insieme in un progetto concreto? E quali resistenze culturali incontri più spesso nelle organizzazioni?

Non parto mai da una disciplina. Parto da un legame. L’intelligenza artificiale non mi interessa in quanto tecnologia. Mi interessa come grammatica, come modo di pensare. La sostenibilità, allo stesso modo, non è un’etichetta che si attacca a fine progetto. È un criterio di costruzione.

Nel progetto Create Your Algorithm, ad esempio, abbiamo usato l’AI per scrivere scenari, ma anche per imparare a sbagliare. Il design era modulare, leggero. La narrazione serviva a far spazio alle domande dei bambini. Tutto era connesso, ma niente era centrale.

Le resistenze sono sempre le stesse. La paura di uscire dal perimetro. L’idea che ogni cosa debba avere il suo nome, la sua categoria, il suo confine. E poi c’è questa fiducia cieca nella tecnologia, come se bastasse adottarla per diventare innovativi. Ma la tecnologia non è mai neutra. Ha bisogno di sguardo, di etica, di cura.

Il nostro tempo sembra dominato dal “bias dell’aggiunta”: aggiungere funzioni, elementi, complessità, come se fosse l’unico modo per dimostrare valore. Come si progetta invece per sottrazione? E che ruolo hanno l’ascolto e il fallimento nel tuo metodo?

Aggiungiamo perché temiamo che qualcosa manchi. Aggiungiamo funzioni, livelli, margini di sicurezza. È un gesto difensivo. Più cose mettiamo, più ci sembra di avere fatto bene. Ma il progetto non è una prova di forza. È un lavoro di fiducia.

Sottrarre non significa ridurre. Significa decidere. Riconoscere ciò che è essenziale e lasciare andare il resto. Ma per farlo, bisogna avere pazienza. E silenzio. Bisogna stare dentro le cose, anche quando sembrano ferme, ascoltare quello che non si dice. Le esitazioni, le frasi lasciate a metà, gli oggetti che pesano senza ragione.

L’ascolto, per me, non è una fase del metodo. È la condizione per cui il metodo funziona. Non si può togliere niente se prima non si è capito a fondo perché qualcosa c’è. E spesso non lo si capisce da soli. Lo si capisce stando accanto agli altri. Senza fretta.

Il fallimento, in questo, è un maestro discreto. Non ci corregge. Ci interrompe. Ci fa inciampare per mostrarci che la strada non è dritta come pensavamo. Non è piacevole, ma è onesto. E quella frizione — che chiamiamo errore — è il punto in cui il progetto si fa umano.

Con i bambini, tutto questo è più limpido. Se un algoritmo non funziona, si ride, si cambia, si prova ancora. Non c’è imbarazzo, né paura di perdere tempo. C’è solo il tempo giusto delle cose che si imparano. Negli adulti, invece, si annida la vergogna. Ma io credo che un progetto vero cominci proprio lì: dove qualcosa non va come previsto, e finalmente ci si accorge di esserci dentro.

PRM Design parla apertamente di etica, estetica e funzionalità come valori guida. E tu hai anche frequentato un master alla Scuola Holden, un contesto narrativo e formativo. Cosa succede quando questi due mondi — ingegneria e racconto — si incontrano?

Alla Holden ho imparato a guardare le parole come si guarda un oggetto prima di costruirlo: chiedendosi da dove viene, a chi serve, che peso ha. Ho imparato a togliere l’eccesso, a lasciare il vuoto giusto. A non dire tutto, ma a lasciare spazio perché qualcosa accada. Questo è diventato, col tempo, anche un modo di progettare.

Quando si sfila via dalla realtà la narrazione, rimangono solo i dati. Ma i dati, da soli, non bastano. Dicono cosa succede, ma non dicono perché succede. Né cosa significa. La funzione senza racconto è muta. L’oggetto funziona, ma non parla. Non si fa ricordare.

PRM Design prova a tenere insieme le due cose. La precisione tecnica, ma anche il senso che quella tecnica produce. Il racconto, in questo, non è decorazione. È struttura invisibile. È ciò che tiene insieme l’oggetto e chi lo usa.

Un oggetto ben fatto non è solo efficiente. È capace di restituire qualcosa che avevamo dimenticato. Di raccontare un gesto, una possibilità, una forma di attenzione. Quando progetto, non penso alla comunicazione, ma a cosa potrà restare. A cosa, anche in silenzio, saprà ancora dire.

Nel libro Thoughtless Acts?, Jane Fulton Suri — pioniera del design empatico e tra le menti che hanno dato forma al metodo IDEO — raccoglie piccoli gesti quotidiani che raccontano, senza parole, il modo in cui le persone interagiscono intuitivamente con gli oggetti. Non sono “cose da correggere”: sono tracce, indizi, rivelazioni. Fulton Suri invita il progettista a osservare, prima ancora che intervenire. A cogliere ciò che accade quando nessuno guarda. A leggere il comportamento, non solo a gestirlo.

In fondo, anche le parole di Frida Riolo vanno in questa direzione. L’ascolto, il fallimento, la meraviglia non sono orpelli metodologici, ma strumenti profondi di lettura. Non servono solo a risolvere problemi: servono a capire dove siamo e cosa stiamo davvero facendo. In un tempo in cui il design rischia di diventare un linguaggio decorativo o un acceleratore cieco, questo tipo di sguardo torna ad essere essenziale. Perché, come ci ricordano tanto Fulton Suri quanto Frida Riolo, osservare con attenzione è già cominciare a cambiare.


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Pubblicato il 02 agosto 2025

Calogero (Kàlos) Bonasia

Calogero (Kàlos) Bonasia / omnia mea mecum porto