Mi sono stancato dell’obbligo di lucidare ogni parola, ogni gesto, ogni dettaglio — come se valesse più l’aspetto che il contenuto. È faticoso dover sembrare sempre all’altezza, per non essere scartati come quella mela un po’ opaca che nessuno sceglie al supermercato. Il fatto è che molti, quella mela, non saprebbero nemmeno riconoscerla per ciò che è. Non sono mai stati sotto un melo, un pero, un ciliegio. Non conoscono l’odore della terra vera, né la differenza tra ciò che cresce e ciò che semplicemente luccica, ma è marcio dentro.
Scrivo perché preferisco la sostanza al decoro, l’osservazione al compiacimento. Ho lavorato nei sistemi, con i sistemi, a volte contro. Ufficiale dell’Aeronautica in gioventù, poi project manager, poi consulente indipendente: ho imparato a navigare la complessità senza doverla vendere.
Su Stultifera Navis cerco uno spazio dove il pensiero possa mostrarsi nudo, senza scenografie. Non ho verità da difendere, né modelli da proporre. Solo l’urgenza di mettere in fila ciò che, per me, merita ancora di essere detto.
Resilienza senza alibi: dal caos ritualizzato alla competenza collettiva
Resilienza nei team di progetto non è resistere agli urti, ma trasformare l’incertezza in conoscenza operativa. Provo a spiegare il mio punto di vista su come linguaggi, pratiche riflessive, regia temporale, leadership diffusa e sostenibilità organizzativa rendano un gruppo capace di apprendere mentre agisce. Dal caso software alla pubblica amministrazione, emerge un metodo per metabolizzare errori e vincoli, evitando la retorica “agile” senza sostanza. La resilienza diventa igiene del discorso, governo dei ritmi, cura dell’energia collettiva. Una critica al tecnicismo vuoto e alla resilienza di facciata chiude il quadro, con il suggerimento all'uso di metriche che misurino apprendimento, cooperazione e debito di resilienza permanente accumulato, per migliorare veramente.
Regia algoritmica e potere nell’era della decisione automatica
In questi giorni, tra i molti segnali che la rete amplifica e disperde, ho notato un ritorno insistente: la copertina gialla di Humanless. L’algoritmo egoista di Massimo Chiriatti. Alla terza comparsa, ho deciso di acquistarlo. Non perché convinto da chi lo promuoveva, quanto per capire cosa avesse davvero da raccontare l’autore, se così tante persone lo stavano rilanciando. E non voglio pensare che fosse solo per ingraziarsi in qualche modo la sua attenzione — come spesso accade su LinkedIn — ma un po’ di dubbio, lo confesso, mi è venuto. A quel punto ho recuperato dalla mia modesta biblioteca domestica anche Superintelligenza di Nick Bostrom, che avevo già letto anni fa. Due visioni, due timbri, ma un interrogativo comune: che forma prende il potere, quando smette di presentarsi come tale? A completare il quadro — o forse a disturbare l’armonia — è arrivata un’altra lettura: Gli ingegneri del caos di Giuliano da Empoli. L’ho iniziato in anteprima Kindle ma, a dire il vero, non l’ho finito. Non perché privo di contenuti, ma perché l’ho trovato poco stimolante, almeno per me.
Epistemologie dell’integrazione profonda. Conoscenza, potere e responsabilità nell’epoca biodigitale
Nel corso della mia attività con la pubblica amministrazione, ho contribuito alla progettazione di sistemi documentali aperti, tra cui la piattaforma PAFlow. Non si trattava semplicemente di digitalizzare il cartaceo, ma di ripensare le condizioni stesse della trasparenza e della responsabilità pubblica. Ogni decisione doveva essere tracciabile, ogni passaggio verificabile, ogni codice leggibile. La scelta dell’open source non fu un vezzo tecnico, ma una scelta politica: l’idea che la conoscenza amministrativa sia un bene comune, e che il codice che la struttura debba restare accessibile, modificabile, condiviso. L’altro giorno mi è capitato di sorridere leggendo l’ennesimo articolo trionfalistico sull’intelligenza artificiale nella pubblica amministrazione. L’entusiasmo era palpabile, ma il contenuto inesistente: si parlava vagamente della possibilità di usare l’IA per valutare i curriculum dei dipendenti pubblici, per identificare i più “adatti” a svolgere non si sa bene cosa. Nessuna riflessione sul fatto che un CV scritto male possa portare un algoritmo a scartare una persona competente. Nessuna considerazione sulla dimensione motivazionale, relazionale, umana che è indispensabile nei contesti pubblici. Solo la solita narrazione ansiogena dell’efficienza algoritmica, accompagnata dal coro dei “fuffa-guru” di LinkedIn, gli stessi che fino a ieri vendevano aria di Napoli in bottiglia e oggi propongono corsi su IA con lo stesso fervore da televendita di fanghi alle alghe. Viviamo in un’epoca in cui la produzione di conoscenza è diventata un campo di battaglia invisibile. Parlare di epistemologia — ovvero di come costruiamo e legittimiamo il sapere — è oggi un atto politico. L’articolo che segue nasce da questa consapevolezza. Perché integrare davvero significa anche destabilizzare: affrontare i conflitti tra saperi, riconoscere le esclusioni, decidere da che parte stare.
Il progetto non scritto: come si perde valore quando si tace
In ambienti dove le priorità si ribaltano a ogni sprint e le risorse cambiano posto prima di sedimentare, la vera differenza non la fa l’ennesimo badge sul curriculum, ma la mano di chi sa fissare i fatti sulla pagina. Scrivere bene significa dare forma alle decisioni, assegnare responsabilità, rendere intelligibile il ragionamento che le sostiene. È ciò che evita di rifare domani ciò che si era già deciso ieri. In un progetto vivo, l’abilità di stendere una nota chiara vale più di una collezione di certificazioni: perché, quando il framework si inceppa, è la parola precisa che mantiene la rotta, non il titolo incorniciato.
Il lavoro delle macchine, il destino dell’uomo -- Automazione, potere e disuguaglianza: perché serve una nuova regia del valore
Nel discorso dominante sull’innovazione, si fa spesso appello a una promessa implicita: che le tecnologie avanzate, e in particolare l’intelligenza artificiale, possano liberare l’umanità dalla fatica, dall’errore, dalla scarsità. Si racconta un futuro dove le macchine lavoreranno al posto nostro, permettendoci di esplorare vocazioni più alte: creatività, relazione, benessere. È un immaginario seducente. Ma dietro questa visione idilliaca si nasconde un paradosso sistemico: una società senza lavoro rischia di diventare una società senza reddito, e quindi senza consumo, senza coesione, senza futuro.
Process Intelligence: dal codice alla forma, dal controllo alla conoscenza
In molte organizzazioni si automatizza prima di comprendere, si ottimizza prima di osservare. Questo articolo propone una riflessione critica maturata sul campo, a partire da decenni di lavoro nei sistemi complessi. Il focus è sulla process intelligence, non come tecnologia di controllo ma come linguaggio operativo. Grazie al process mining — e in particolare all’approccio object-centric — è oggi possibile ricostruire i processi a partire dai dati reali, rendendo visibili forme, deviazioni, relazioni e anomalie. Il risultato non è solo maggiore efficienza: è una nuova capacità di lettura e governo. Un punto di riferimento per chi vuole decidere con cognizione, agire con coerenza e progettare con lucidità.
Pensare è disobbedire. Lezioni dall’Iraq per il futuro dell’intelligenza artificiale
Cosa lega la guerra in Iraq all’odierno dibattito sull’intelligenza artificiale? Più di quanto sembri. Questo articolo esplora le analogie profonde tra il trauma decisionale post-11 settembre e le reazioni emergenziali che potrebbero accompagnare un futuro incidente legato all’AI. Sotto accusa non è solo la tecnologia, ma il nostro modo di reagire: parole vuote, governance impulsiva, efficienza senza pensiero. Attraverso uno sguardo critico e personale, il testo invita a riscoprire il valore del dubbio come forma di disobbedienza attiva. Con un riferimento chiave al libro The Stack di Benjamin Bratton.
Contro il dazio e contro il dato: per un’ecologia europea dell’automazione
In un’epoca segnata dall’irruzione dell’automazione nei gangli più profondi della vita economica e sociale, ciò che muta non è solo la tecnologia, ma la nostra stessa immagine del reale. Lungi dall’essere un fenomeno tecnico, l’automazione rappresenta un principio generativo che ridefinisce lavoro, valore e pensiero. Questo articolo propone una critica radicale sia al protezionismo economico di matrice americana che alla riduzione computazionale dell’esperienza umana, avanzando una visione europea fondata su interdipendenza, senso e responsabilità. L’ecologia dell’automazione, così intesa, non è una teoria delle macchine, ma una politica della forma e una cura del possibile.
IKIGAI ECONOMICS: La folle economia nascosta della conoscenza nelle organizzazioni
Le aziende contemporanee amano dire di sé stesse che sono "guidate dai dati", "agili" e "innovative". In realtà, spesso sono l’equivalente organizzativo di chi tenta di abbattere un albero con una sega senza lama: girano velocemente su sé stesse, sprecando energia e accumulando inutili gigabyte di informazioni. Ogni giorno le persone nelle organizzazioni sono bombardate da circa 34 gigabyte di contenuti—oltre 100.000 parole—ma producono sempre meno conoscenza reale. Perché?
Figure del progetto #1 – Intelligenza sprecata
Nel lavoro quotidiano — tra riunioni interminabili, gerarchie immobili e parole come “collaborazione” svuotate di senso — l’intelligenza delle persone non manca: viene sprecata. Non per ignoranza, ma per paura. Non per carenza di idee, ma per eccesso di controllo. In questo articolo ho scelto di confrontarmi con Giuseppe Conte, professionista che da trent’anni riflette sulle trasformazioni del lavoro e della tecnologia con un approccio critico e filosofico. Ne è nata una conversazione che tocca temi come la fiducia, la delega, l’ascolto e la fatica del decidere. Il risultato è un’intervista narrativa, composta da quattro domande e da risposte dense, nate dall’esperienza diretta. Una riflessione per chi fatica a farsi ascoltare, per chi ha smesso di proporre, per chi sente che il proprio pensiero — quando non è omologato — viene trattato come un problema. Ma anche per chi ha ancora il coraggio di fidarsi.
Come se nulla fosse
Un’immagine della Porta d’Europa di Lampedusa mi ha riportato alla memoria le missioni di soccorso militare nel Mediterraneo, e con esse una riflessione più ampia sul senso del dono, della memoria e dell’ingratitudine. In tanti anni di lavoro ho offerto aiuto a molte persone, senza pretendere nulla in cambio. Alcune hanno ringraziato, molte hanno dimenticato. Ma non è questo il punto. In Aeronautica ho imparato che si può dare senza attendersi ritorno. In questo articolo torno su quell’etica del servizio: sobria, impersonale, eppure profondamente umana. Una forma di resistenza, oggi più che mai necessaria.
Figure del progetto (alpha release) – Uccidere il mostro, senza uccidere il progetto.
In un panorama editoriale dominato da manuali prevedibili e linguaggi stanchi, Office Monsters: A Survival Guide to Corporate Madness emerge come un’opera necessaria. Martin Eppler e Andri Hinnen compongono un bestiario contemporaneo che mette in scena i mostri interiori, relazionali e sistemici che infestano le organizzazioni. Dalla Yes Yeti al Project Zombie, ogni creatura rappresenta un archetipo comportamentale tanto grottesco quanto riconoscibile. Con uno stile ibrido – tra saggio illustrato, manuale narrativo e mappa mentale – il libro offre uno strumento per nominare l’assurdo senza accusare, per diagnosticare il disfunzionale senza moralismi. L’ironia diventa dispositivo critico, il linguaggio un antidoto alla stupidità sistemica. In questo articolo ne esploriamo struttura e potenza, immaginando un PMO non come bunker operativo, ma come tenda da campo per domatori di mostri. Perché nelle organizzazioni moderne, il vero coraggio non è uccidere il mostro, ma imparare a conviverci senza farsi divorare.
La forma che muta. Identità fluide e resistenza agli stereotipi occidentali
Questo testo non nasce da simpatie geopolitiche né da automatismi ideologici. Non è un’adesione al modello russo, né un attacco indiscriminato a singole culture nazionali. Ma è necessario dirlo con chiarezza: gran parte dell’immaginario contemporaneo sull’identità, sulla coerenza personale, sulla “realizzazione di sé”, è stato modellato da una triade di potenze — Stati Uniti, Regno Unito, Israele — che hanno trasformato le proprie vicende storiche in categorie universali, esportandole come modelli globali.
Credere, delegare, automatizzare
Con lucidità tagliente, Mazzucato e Collington mostrano come molte imprese abbiano sostituito il pensiero interno con l’acquisto sistematico di decisioni. Il modello è chiaro: esternalizzare il dubbio, pagare la rassicurazione, vendere il linguaggio dell’innovazione. È la stessa dinamica che vediamo oggi nell’approccio all’intelligenza artificiale: etica incorporata, fiducia preconfezionata, consulenza presentata come coscienza. The Big Con è un libro che non attacca la tecnica: attacca l’abdicazione. E offre un’occasione rara — quella di tornare a decidere cosa è bene fare, senza aspettare che lo dica un algoritmo o un advisor.
Archivio dei concetti estinti (o morenti) in azienda
Freakonomics capovolge il modo in cui guardiamo la realtà, usando dati e curiosità per svelare motivazioni inattese dietro i comportamenti quotidiani. Levitt e Dubner dimostrano con ironia che gli incentivi — economici e simbolici — definiscono ciò che accade davvero, non ciò che appare. In un mondo aziendale saturo di policy, KPI e report, Freakonomics ci ricorda che il vero motore è spesso nascosto: tra dipendenze, convenienze, paura, ambizione. Se vuoi addestrare lo sguardo a cercare il senso sotto l’apparenza, se vuoi leggere l’implicito nei processi IT, questo libro è una lente rovesciata sul funzionamento segreto del tuo ecosistema.
Manuale operativo per chi ha smarrito il senso del lavoro
In La création de connaissance par les managers, Paul Beaulieu e Michel Kalika demoliscono la visione riduzionista del management come semplice esecuzione di procedure o applicazione di best practice. Il manager, scrivono, è innanzitutto un agente epistemico: crea, seleziona, struttura sapere in contesti operativi instabili. La conoscenza non precede l’azione, ma la attraversa. In ambienti dove il lavoro si frammenta in rituali pseudo-agili e documenti autoreferenziali, questo libro propone una tesi radicale: il manager è responsabile del senso, non solo della delivery. Dove si smette di creare conoscenza, l’organizzazione si spegne. Non crolla: si svuota. E non se ne accorge.
Verbale di un consiglio di sistema operativo
Atto unico in forma documentale, estratto dagli archivi non ufficiali di una rete aziendale. Luogo: Ambiente virtuale distribuito Partecipanti: - Knowledge Base (presidente) - Ticket #44879 (caso in corso) - Documento “Report_finale_DEF_v7_bis.pptx” - Utente (non qualificato) - Process Owner (assente giustificato) - Chat Teams (rumore di fondo) - Intelligenza Artificiale (mute) - Voce di Sistema (onnipresente, ma senza log)
Il potere dell’adattabilità umana: lezioni dai Giochi Paralimpici di Parigi
I Giochi Paralimpici di Parigi ci hanno offerto molto più di imprese atletiche: hanno mostrato come l’eccellenza emerga da culture fondate sulla fiducia, sull’ascolto e sulla collaborazione. Questo articolo riflette su ciò che possiamo imparare da quei giorni, anche alla luce delle idee di Daniel Coyle.
Scarsità e valore nel project management
In un mondo che premia la disponibilità continua e l’iperproduttività, dimentichiamo spesso una verità semplice: ciò che è sempre accessibile perde valore. Questo saggio esplora come il principio di scarsità influisca sulla percezione del valore nel project management. Essere sempre presenti, offrire troppo, rispondere a tutto può ridurre l’efficacia percepita del proprio ruolo. Al contrario, dosare la presenza, scegliere il momento giusto, valorizzare il silenzio può rafforzare la leadership. La scarsità, intesa non come mancanza ma come misura, diventa così una leva strategica per migliorare l’efficienza, l’autonomia del team e la qualità delle decisioni.
Il nome delle cose: Gaza, il linguaggio, il crimine
Mentre Gaza viene spazzata via sotto gli occhi del mondo, il linguaggio si piega, si addomestica, si fa complice. “Danno collaterale” è l’etichetta sterile con cui si occultano massacri, dolori, crimini. Questo articolo non intende spiegare, ma smascherare: parole, retoriche, omissioni. Non parla da esperto, ma da cittadino che rifiuta l’anestesia morale. Con rigore e senza indulgenze, denuncia la disinformazione dilagante, l’ignoranza diffusa e l’ipocrisia istituzionalizzata. E richiama, con voce ferma, l’urgenza di una resistenza culturale, anche – e soprattutto – laddove il silenzio appare più comodo della verità. Perché alcune parole uccidono. Altre possono ancora salvare.