Ho passato trent'anni a progettare sistemi, gestire processi, portare ordine nella complessità. Ufficiale dell'Aeronautica in gioventù, poi project manager, consulente, formatore. Ho attraversato organizzazioni pubbliche e private, visto funzionare o implodere decine di strutture, imparato che il metodo serve solo se sa adattarsi al disordine reale.

Scrivo su Stultifera Navis perché credo che il pensiero organizzativo non possa essere separato dal pensiero critico. Troppo spesso il management si riduce a ripetizione di formule vuote, e la riflessione filosofica resta sospesa in aria senza toccare il mondo concreto. Io cerco di tenere insieme rigore operativo e profondità di analisi: capire come funzionano le organizzazioni, perché falliscono, cosa significa davvero "governare" processi fatti di persone, non solo di procedure.

Non ho modelli da vendere né verità da difendere. Mi interessa osservare, smontare, ricostruire. Vedere cosa resta in piedi quando togli le retoriche.

Qui scrivo di metodo e caos, di governance e resistenza, di come si naviga la complessità senza fingere che sia semplice. Se cerchi ricette preconfezionate, non è il posto giusto. Se ti interessa capire come stanno davvero le cose, forse sì.


Oltre lo strumento: come costruire una cultura della qualità che sopravvive ai tool

La domanda che ogni organizzazione si pone dopo aver esaminato gli strumenti disponibili è apparentemente pragmatica: quale bug tracking system dovremmo adottare? La risposta vera, quella che raramente viene pronunciata esplicitamente, è che la domanda stessa è formulata male. Non esiste uno strumento universalmente superiore, così come non esistono processi universalmente applicabili. Esistono contesti organizzativi specifici, ciascuno caratterizzato da vincoli, obiettivi e livelli di maturità differenti, e strumenti che si adattano meglio o peggio a questi contesti particolari. La selezione appropriata richiede un esercizio di auto-diagnosi organizzativa che precede qualunque valutazione tecnologica. Prima di confrontare feature list, prima di calcolare costi di licensing, prima ancora di installare versioni di prova, l'organizzazione deve comprendere sé stessa attraverso sei dimensioni critiche che determinano quale compromesso tecnologico risulterà sostenibile nel tempo.

JIRA contro il mondo: anatomia di una scelta che condiziona l'intera organizzazione per anni

La decisione di adottare un bug tracking system trascende la mera selezione tecnologica. Questa scelta vincola l'organizzazione per anni, condizionando i processi operativi quotidiani, determinando quali metriche saranno tracciabili e quali rimarranno invisibili, influenzando la curva di apprendimento dei nuovi assunti e il carico amministrativo sui team esistenti. JIRA si è affermato come standard de facto nelle organizzazioni enterprise, ma le alternative presentano compromessi specifici che possono risultare preferibili in contesti determinati. Comprendere questi compromessi richiede un'analisi che vada oltre le feature list commerciali per esaminare l'adeguatezza metodologica rispetto ai sette requisiti identificati nel precedente articolo.

I sette requisiti metodologici che distinguono un bug tracking system efficace da un semplice repository di segnalazioni

La scelta di un bug tracking system viene frequentemente affrontata attraverso confronti superficiali: qual è l'interfaccia più moderna, quale costa meno, quale richiede meno tempo di setup. Questo approccio trascura la questione fondamentale. Uno strumento di gestione dei difetti non costituisce semplicemente un database dove registrare segnalazioni, bensì l'infrastruttura tecnologica che deve supportare processi di quality assurance strutturati secondo modelli consolidati nella letteratura scientifica. La differenza tra un sistema efficace e un mero repository risiede nella capacità di implementare requisiti metodologici specifici che trasformano la registrazione passiva in governance attiva della qualità.

Quando i bug costano milioni: l'impatto economico dei difetti software sulla governance aziendale

Nel 2017, il valore azionario di Provident Financial subì un crollo devastante: da £17.42 a £4.50 in poche ore. La causa scatenante fu un difetto nel sistema informatico che aveva provocato la perdita di oltre il cinquanta percento dei debiti di prestito. Nello stesso anno, American Airlines si ritrovò con quindicimila voli completamente prenotati ma privi di piloti, conseguenza diretta di un malfunzionamento nel sistema di scheduling. Il Consortium for IT Software Quality ha quantificato nel 2020 il costo complessivo della scarsa qualità del codice software in 2.08 trilioni di dollari, includendo perdite di produttività, ricavi, profitti, fiducia dei clienti e reputazione del brand. Questi episodi non costituiscono anomalie statistiche: rappresentano manifestazioni di un fenomeno sistemico che attraversa ogni settore industriale. La gestione dei difetti software incide direttamente sui risultati economici delle organizzazioni e rientra a pieno titolo nelle competenze della governance aziendale, ben oltre i confini tradizionali del reparto IT.

Strumenti e metodo: perché dedicare quattro saggi al bug tracking

Esiste una categoria di problemi organizzativi che rimane ostinatamente invisibile fino al momento in cui produce conseguenze irreversibili. Non parlo di errori strategici eclatanti o di decisioni palesemente sbagliate che chiunque potrebbe identificare a posteriori. Mi riferisco a quella classe di disfunzioni sistemiche che si annidano nei processi operativi quotidiani, che si manifestano attraverso segnali deboli facilmente ignorabili, che crescono in silenzio fino a quando la loro risoluzione richiede interventi radicali e costosi.

Intelligenza sferica: appunti sparsi su come essere geniali e insopportabili

Stavo riordinando alcuni appunti scritti a mano — quelli che tutti accumuliamo tra letture, conversazioni, intuizioni mattutine e ossessioni notturne — quando mi sono reso conto che diversi frammenti apparentemente scollegati parlavano, in fondo, della stessa cosa. Intelligenza. Non quella misurata dai test, non quella certificata dalle università, non quella celebrata dalle conferenze TED. Un'altra intelligenza: quella scomoda, quella che vede pattern dove gli altri vedono caos, quella che ha ragione troppo presto, quella che ti fa odiare dalle persone giuste. Ho deciso di tentare un esperimento: intrecciare questi appunti in un unico flusso, senza la pretesa di costruire un saggio organico ma con la curiosità di vedere se le connessioni emergessero da sole. Come quando lasci cadere limatura di ferro su un foglio e sotto ci passi una calamita: le forme appaiono, rivelando campi invisibili. Esperimento riuscito? Chi lo sa. Ma forse proprio questa incertezza fa parte del punto.

Defezione digitale e controllo algoritmico: filosofia della resistenza ai social network

Dopo ventidue anni e sei blocchi algoritmici in dodici mesi, ho chiuso il mio account su un importante social network professionale. Non si è trattato di un gesto impulsivo ma dell'esito necessario di un processo di erosione della possibilità stessa di dialogo autentico. Questa riflessione parte da un'esperienza personale per interrogare filosoficamente il controllo algoritmico, l'estrazione di valore dalle piattaforme digitali, e la possibilità di resistenza. Tra Foucault, Hirschman e Deleuze, esploro tre grammatiche della resistenza e propongo la defezione come atto politico consapevole in un'epoca di capitalismo della sorveglianza.

Dai Commonplace Books ai Knowledge Graphs: architetture cognitive per la gestione delle reti relazionali personali

La gestione sistematica delle relazioni personali e professionali costituisce una sfida epistemologica che attraversa i secoli, dalla tradizione dei commonplace books rinascimentali alle contemporanee implementazioni di knowledge graph personali. Questo articolo analizza l'evoluzione storica, teorica e tecnologica degli strumenti dedicati all'esternalizzazione della memoria sociale, identificando in Lotus Notes/Domino un precursore misconosciuto delle architetture moderne di Personal Knowledge Management relazionale. Attraverso una disamina critica che integra sociologia delle reti, teoria della conoscenza e analisi comparativa degli strumenti disponibili, si propone un framework metodologico per la costruzione di ontologie relazionali personali che massimizzino il capitale sociale attraverso la manutenzione consapevole e strutturata delle connessioni interpersonali.

Architetture neuro-simboliche per sistemi multi-agente

Ho passato trent'anni a costruire sistemi che dovevano funzionare. Ho imparato a diffidare di chi vende soluzioni prima di aver capito il problema. Questo articolo nasce da una curiosità: come si costruiscono sistemi multi-agente affidabili quando nessun singolo componente può garantire affidabilità? La risposta tecnica si chiama architettura neuro-simbolica basata su grafi di conoscenza. Non ho cercato di semplificare: la complessità tecnica è la sostanza del problema. Chi arriva in fondo avrà gli strumenti per distinguere promesse di marketing da capacità ingegneristiche reali, e potrà porre domande più consapevoli sui sistemi che governano la vita collettiva.

Il lavoro, la distanza e la dignità

Ho scritto queste righe pensando al silenzio di chi lavora davvero: chi interviene quando tutto si ferma, e chi tiene in moto ciò che non si vede. Viviamo in un tempo che confonde la fatica con la visibilità, la presenza con il controllo, il valore con il denaro. Eppure, il senso del lavoro resta lo stesso: prendersi cura del mondo. A chi lo fa ogni giorno — su un’autostrada, in un ospedale, in una centrale operativa o dietro un monitor acceso in un piccolo paese italiano — va la mia gratitudine.

Milano, non bella ma un tipo.

Milano sembra bella. Ma è un inganno gentile, come certi volti che affascinano non per armonia ma per carattere. È una città piena di difetti: rumorosa, impaziente, spesso arrogante. E non è nemmeno particolarmente simpatica. Eppure ha una qualità rara: non ti permette di addormentarti. Le altre città italiane, con la loro calma e i loro monumenti immobili, finiscono per sembrare musei di sé stesse. Milano no: anche quando ti sfianca, anche quando ti fa rimpiangere un posto dove si respira davvero, ti costringe a restare vivo.

Architetture della paura tra case, corpi e profili digitali.

Ogni città parla con la propria paura. Lo fa in silenzio, nei dettagli che riempiono lo spazio urbano: sbarre alle finestre, cancelli chiusi, telecamere che scrutano, cartelli che ammoniscono. Questi segni, spesso invisibili per abitudine, non proteggono soltanto beni materiali. Difendono identità fragili, confini morali, la sensazione di appartenere a un ordine ancora comprensibile. Sono sintomi di un’epoca in cui la sicurezza è diventata linguaggio, e il linguaggio stesso una forma di sicurezza.

L’eco e la risonanza. Sulla vanità digitale e la miseria del pensiero riflesso.

Tutti parlano, pochi ascoltano e quasi nessuno pensa. Sui social, l’intelligenza non serve: basta l’algoritmo giusto. Ogni citazione diventa trampolino, ogni riflessione pretesto, ogni nome un appiglio per scalare la gerarchia dell’attenzione. Dove un tempo si cercava il dialogo, oggi si collezionano “visualizzazioni” come trofei. E il sapere, ridotto a sfondo decorativo, serve solo a lucidare l’ego. Questo testo non è un lamento: è un piccolo esperimento antropologico sulla vanità digitale, quella che ci rende meschini non perché cattivi, ma perché disperati all’idea di non essere visti.

Le nuove tabulae: quando il documento diventa digitale davvero

Ciò che io scrivo non può essere “inventato” da un’intelligenza artificiale, perché è il prodotto di un percorso tecnico e cognitivo reale, accumulato nel tempo... In Italia si parla molto di intelligenza artificiale nella pubblica amministrazione, ma troppo poco di intelligenza umana. Abbiamo archivi, norme e strumenti maturi da anni, eppure continuiamo a stampare file nati digitali come se la carta fosse garanzia di verità. La vera innovazione è liberare la PA dal culto della procedura. Le nuove tabulae non sono più tavolette di cera ma piattaforme digitali: per trasformarle in strumenti di fiducia serve meno tecnologia e più lucidità, meno automazione e più pensiero critico.

Il culto dell’incompetenza artificiale. Ovvero: perché paghiamo per strumenti che ci fanno lavorare di più.

A volte il pensiero critico non serve a distinguere il vero dal falso, ma il lecito dal dicibile. In certe aziende — come in certi tempi — si misura la fedeltà di un dipendente non dal lavoro che fa, ma da ciò che evita di pensare. Mi è capitato, anni fa, di firmare un contratto che vietava di scrivere articoli sull’open source. Un modo elegante per ricordarmi che la libertà di pensiero è sempre proprietaria. Da allora ho imparato a riconoscere la stessa logica ovunque: nelle piattaforme che ti chiedono di “ottimizzare il tempo”, negli algoritmi che pretendono di “aiutarti a pensare”. Questo saggio nasce da lì — da quella piccola amputazione volontaria — e dall’intuizione che l’intelligenza artificiale, oggi, ripropone su scala planetaria lo stesso meccanismo: ti offre libertà solo se resti dentro la sua gabbia semantica.

Il sesso non è binario. Dati biologici, responsabilità sociali, e parole giuste.

Per secoli abbiamo creduto che bastasse un microscopio per definire una persona. XX voleva dire “femmina”, XY “maschio”: due colonne, due destini. Un paradigma comodo, ma insufficiente. La biologia reale – quella che osserva processi, non etichette – ci restituisce un quadro più articolato. Il sesso è un processo che si costruisce in fasi (cromosomi → gonadi → ormoni → cervello → pubertà), e il genere è una dimensione vissuta che intreccia linguaggi, relazioni e istituzioni.