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Itinerario di scoperta - Seconda tappa


Continuando la lettura di Peters, mi sono imbattuto in un concetto che ha ribaltato il mio modo di pensare ai sistemi organizzativi: le knowledge cultures. Peters e Tina Besley lo sviluppano nel 2006 in opposizione al dualismo sterile tra "knowledge economy" e "knowledge society" (Peters & Besley, 2006). 

Le knowledge cultures non sono un modello economico né una categoria sociologica astratta. Sono "le precondizioni culturali nella nuova produzione di conoscenza e la loro base in pratiche condivise" che si sviluppano generazionalmente (Peters et al., 2020). Questa definizione, apparentemente semplice, contiene un'intuizione profonda: la conoscenza emerge dalle pratiche, dalle abitudini, dai rituali quotidiani di comunità specifiche.

Peters ancora il concetto di knowledge cultures a una tradizione filosofica precisa: la nozione di "community of inquiry" sviluppata da Ludwig Wittgenstein, John Dewey e Charles Sanders Peirce. L'enfasi pragmatista sulla "comunità di indagine" implica un'etica implicita di condivisione e collaborazione (Peters & Besley, 2006).

Qui c'è qualcosa di radicalmente diverso rispetto alle teorie manageriali sulla "gestione della conoscenza" che dominano la letteratura organizzativa. La community of inquiry non gestisce la conoscenza dall'alto: la produce collettivamente attraverso l'indagine condivisa. È un processo orizzontale, dialogico, dove il sapere emerge dalla conversazione e dalla pratica comune.

Leggendo queste pagine, ho pensato immediatamente al mio lavoro sui workflow come "radiotelescopi organizzativi". I sistemi tecnici funzionano quando incorporano e abilitano pratiche condivise, quando diventano strumenti per il sensemaking collettivo. Proprio come le knowledge cultures di Peters, i workflow efficaci non sono mai solo tecnologia: sono insiemi di pratiche, linguaggi, rituali che una comunità sviluppa nel tempo.

Peters e Besley operano uno spostamento cruciale: dalla metafisica della produzione a quella del consumo. Le knowledge cultures segnano "l'emergere di un global knowledge commons" che favorisce open science e open education (Peters & Besley, 2006). Siamo di fronte a una trasformazione nei modi stessi in cui pensiamo la conoscenza.

Il capitalismo industriale enfatizzava la produzione materiale. Il knowledge capitalism enfatizza l'economia della conoscenza con i suoi regimi di proprietà intellettuale. Ma le knowledge cultures aprono uno spazio diverso: quello della circolazione, della condivisione, del commons. La conoscenza vale quando circola, quando viene consumata, riutilizzata, trasformata da altri.

Questo mi ha fatto riflettere su Antonio Negri e l'autonomismo italiano. Il concetto di "lavoro immateriale" sviluppato da Paolo Virno, Christian Marazzi e Andrea Fumagalli descrive esattamente questa trasformazione (Lazzarato, 1996). Il knowledge worker produce valore attraverso la comunicazione, la relazione, la cooperazione. Il suo lavoro è già sempre sociale, collettivo, culturale.

Una delle intuizioni più fertili di Peters riguarda i "repertori differenziati" delle knowledge cultures. Ogni cultura della conoscenza ha "forme diverse di rappresentazione e di conoscenza non-rappresentazionale" (Peters et al., 2020). Le comunità scientifiche hanno i loro linguaggi, simboli, rituali. Le comunità artistiche ne hanno altri. Le comunità organizzative sviluppano i propri.

Questa idea mi ha aiutato a ripensare il lavoro che faccio con i sistemi di workflow. Ogni organizzazione che configuro sviluppa la propria knowledge culture attorno allo strumento. Non basta implementare Jira o Confluence: serve creare le condizioni perché emerga una pratica condivisa, un linguaggio comune, un modo collettivo di dare senso all'informazione che circola nel sistema.

Le knowledge cultures sono sempre locali, situate, incarnate in comunità specifiche. Ma allo stesso tempo possono connettersi, dialogare, formare reti più ampie. Il movimento dell'open source è un esempio perfetto: migliaia di knowledge cultures locali (progetti, community, linguaggi) connesse attraverso pratiche condivise di collaborazione e peer review.

Peters cita Jacques Ellul (1964) per ricordarci che la tecnologia è sempre "assemblaggio": include standard di scrittura e formattazione, processi di peer review, ethos collegiali, materialità del libro. Le knowledge cultures sono "sempre in qualche modo relazionate alla tecnologia" (Peters et al., 2020), ma la loro essenza non è digitale.

Questa distinzione è fondamentale. I sistemi tecnici che progetto incorporano sempre culture, pratiche, valori. Un workflow Jira porta dentro di sé assunzioni su cosa significhi "lavorare", su come debba fluire l'informazione, su chi ha autorità di fare cosa. Se ignoro la dimensione culturale e mi concentro solo sulla configurazione tecnica, il sistema fallisce.

Le knowledge cultures mi hanno insegnato che i sistemi organizzativi funzionano quando diventano spazi per la community of inquiry. Quando abilitano pratiche condivise di sensemaking. Quando favoriscono la circolazione della conoscenza piuttosto che il suo accumulo proprietario. Quando supportano repertori differenziati invece di imporre uniformità.

Questa scoperta delle knowledge cultures apre direttamente alla prossima tappa dell'itinerario. Se la conoscenza emerge dalle pratiche condivise di comunità situate, e se queste pratiche sono sempre "in qualche modo relazionate alla tecnologia" senza esserne determinate, allora serve un framework teorico capace di pensare questa complessità.

Peters e Jandrić lo chiamano "postdigitale". E come scoprirò nella prossima tappa, il postdigitale è molto più radicale di quanto il nome suggerisca.


Bibliografia

Ellul, J. (1964). The Technological Society. New York: Random House.

Lazzarato, M. (1996). Immaterial Labor. In P. Virno & M. Hardt (Eds.), Radical Thought in Italy: A Potential Politics (pp. 142-157). Minneapolis: University of Minnesota Press.

McLuhan, M. (1964). Understanding Media: The Extensions of Man. New York: McGraw-Hill.

Peters, M. A., & Besley, T. (2006). Building Knowledge Cultures: Education and Development in the Age of Knowledge Capitalism. Lanham, MD: Rowman & Littlefield.

Peters, M. A., & Jandrić, P. (2015). Philosophy of Education in the Age of Digital Reason. Review of Contemporary Philosophy, 14, 162-181.

Peters, M. A., Besley, T., & Jandrić, P. (2018). Postdigital Knowledge Cultures and their Politics. ECNU Review of Education, 1(2), 23-43. https://doi.org/10.30926/ecnuruoe2018010202

Peters, M. A., Besley, T., Jandrić, P., & Zhu, X. (Eds.). (2020). Knowledge Socialism: The Rise of Peer Production: Collegiality, Collaboration, and Collective Intelligence. Singapore: Springer. https://doi.org/10.1007/978-981-13-8126-3

Peters, M. A., & Jandrić, P. (2018). The Digital University: A Dialogue and Manifesto. New York: Peter Lang.

Virno, P., & Hardt, M. (Eds.). (1996). Radical Thought in Italy: A Potential Politics. Minneapolis: University of Minnesota Press.

Wittgenstein, L. (1953). Philosophical Investigations. Oxford: Blackwell.

Pubblicato il 28 dicembre 2025

Calogero (Kàlos) Bonasia

Calogero (Kàlos) Bonasia / etiam capillus unus habet umbram suam