Quando ho letto per la prima volta la definizione di "postdigitale" proposta da Petar Jandrić e colleghi, ho dovuto fermarmi. Rileggere. Poi sorridere per la sua audacia intellettuale. Scrivono: "Il postdigitale è difficile da definire; disordinato; imprevedibile; digitale e analogico; tecnologico e non-tecnologico; biologico e informazionale. Il postdigitale è sia una rottura nelle nostre teorie esistenti sia la loro continuazione" (Jandrić et al., 2018).
Una definizione che abbraccia la propria indeterminatezza. Che celebra il disordine come caratteristica costitutiva. Che rifiuta le dicotomie pulite (digitale/analogico, tecnologico/umano) per affermare la loro compresenza messy, intricata, irriducibile a schema.
Questa non è filosofia accademica distante dalla pratica. È esattamente quello che vedo ogni giorno configurando sistemi organizzativi. I workflow efficaci sono sempre postdigitali in questo senso: mescolano automazione e intervento umano, database e conversazioni informali, algoritmi e intuizioni, procedure standardizzate e improvvisazione situata.
La formulazione di Jandrić cattura qualcosa di essenziale: il postdigitale è insieme rottura e continuazione. Rompe con l'idea che il digitale sia una dimensione separata, un "cyberspazio" distinto dal mondo fisico. Ma continua il progetto critico di comprendere come le tecnologie digitali trasformano pratiche, relazioni, modi di pensare.
Peters e Besley (2019) sviluppano questo framework in "Critical Philosophy of the Postdigital", dove connettono cibernetica, complexity theory, quantum computing, intelligenza artificiale e deep learning per costruire una filosofia critica del postdigitale. Il quantum computing, spiegano, offre un approccio radicalmente diverso dal computing classico basato sulla meccanica classica. La cibernetica e la complexity theory forniscono strumenti per comprendere sistemi troppo complessi per predire il loro futuro.
Qui emerge un punto cruciale: il postdigitale riconosce l'imprevedibilità come caratteristica sistemica, non come bug da eliminare. I sistemi complessi sono per definizione non completamente prevedibili. Il tentativo di eliminare ogni incertezza, ogni variabilità, ogni elemento umano è destinato al fallimento.
Peters cita Heidegger in un passaggio che mi ha folgorato: "L'essenza della tecnologia non è nulla di tecnologico" (Heidegger, 1962). Applicato al nostro contesto: l'essenza del knowledge socialism non è nulla di digitale. I sistemi digitali sono enabler, catalizzatori, piattaforme. Ma l'essenza sta nelle pratiche culturali, nelle relazioni sociali, nelle comunità di indagine che questi sistemi abilitano o ostacolano.
Jacques Ellul (1964) aveva già teorizzato la tecnologia come "assemblaggio" complesso. Un workflow Jira non è solo software: include standard di scrittura, processi di peer review, convenzioni su chi può fare cosa, rituali di standup meeting, materialità degli schermi su cui viene visualizzato, infrastrutture di rete che lo rendono accessibile. Tutto questo insieme forma l'assemblaggio tecnologico.
Le knowledge cultures, come abbiamo visto nella tappa precedente, sono "sempre in qualche modo relazionate alla tecnologia" (Peters et al., 2020). Il postdigitale fornisce il framework per pensare questa relazione senza cadere nel determinismo tecnologico né nell'idealismo che ignora la materialità degli strumenti.
Peters introduce un concetto affascinante: la "biologizzazione della ragione digitale" (Peters & Besley, 2019). Questa fase emergente nasce dall'applicazione della ragione digitale alla biologia e dalla biologizzazione dei processi digitali stessi. I confini tra fisico, digitale e biologico si dissolvono. Le tecnologie convergenti (AI, nanotecnologie, biotecnologie, quantum computing) unificano scienza a livello nano.
Questo processo crea "un orizzonte insuperabile in cui gli esseri umani imparano a diventare veramente digitali" (Peters et al., 2020). La scomparsa del soggetto conoscente individuale non deriva solo da strutture o dallo strutturalismo. Emerge dalla congiunzione di due forze tecnologiche primarie: informazionalismo e nuova biologia genetica, quello che Peters chiama "bio-informazionalismo".
Quando queste forze convergono con AI, deep learning e quantum computing da un lato, e nanotecnologie dall'altro, "il soggetto umano conoscente individuale viene superato interamente o la sua centralità è completamente spostata" (Peters et al., 2020).
Cosa significa tutto questo per chi progetta sistemi organizzativi? Il postdigitale mi ha insegnato tre lezioni fondamentali.
Prima lezione: abbracciare il disordine. I sistemi organizzativi efficaci sono sempre messy. Mescolano formale e informale, procedurale e improvvisato, automatizzato e artigianale. Cercare di eliminare questa complessità produce rigidità e fragilità.
Seconda lezione: progettare assemblaggi, non strumenti. Un workflow non è mai solo configurazione software. È un assemblaggio socio-tecnico che include pratiche, linguaggi, relazioni di potere, aspettative culturali. La progettazione deve considerare tutti questi livelli simultaneamente.
Terza lezione: favorire l'emergenza. I sistemi complessi producono comportamenti emergenti imprevedibili. Invece di cercare il controllo totale, conviene progettare le condizioni di possibilità per che emergano pratiche produttive. Creare spazi per la community of inquiry, come direbbero Dewey e Peirce. Abilitare knowledge cultures, come suggeriscono Peters e Besley.
Il framework del postdigitale mi ha aiutato a raffinare la mia metafora dei "radiotelescopi organizzativi". I workflow efficaci funzionano come radiotelescopi: captano segnali deboli nel rumore di fondo organizzativo, li amplificano, li rendono leggibili per la comunità. Ma sono radiotelescopi postdigitali: assemblaggi complessi di hardware, software, pratiche umane, convenzioni culturali, strutture di potere.
Il loro funzionamento dipende dall'intera ecologia socio-tecnica, non solo dalla precisione degli strumenti. E producono conoscenza attraverso l'interpretazione collettiva dei segnali captati, attraverso comunità di indagine che danno senso ai dati.
Nella prossima tappa dell'itinerario affronteremo la dimensione più inquietante del knowledge socialism: il capitalismo cognitivo e il deep learning come "fase finale dell'automazione". Perché anche le possibilità radicali devono confrontarsi con i loro limiti e le loro ombre.
Bibliografia
Ellul, J. (1964). The Technological Society. New York: Random House.
Heidegger, M. (1962). Being and Time. Germany: SCM Press.
Jandrić, P., Knox, J., Besley, T., Ryberg, T., Suoranta, J., & Hayes, S. (2018). Postdigital Science and Education. Educational Philosophy and Theory, 50(10), 893-899. https://doi.org/10.1080/00131857.2018.1454000
Peters, M. A., & Besley, T. (2019). Critical Philosophy of the Postdigital. Postdigital Science and Education, 1(1), 29-42. https://link.springer.com/article/10.1007/s42438-018-0004-9
Peters, M. A., Besley, T., & Jandrić, P. (2018). Postdigital Knowledge Cultures and their Politics. ECNU Review of Education, 1(2), 23-43. https://doi.org/10.30926/ecnuruoe2018010202
Peters, M. A., Besley, T., Jandrić, P., & Zhu, X. (Eds.). (2020). Knowledge Socialism: The Rise of Peer Production: Collegiality, Collaboration, and Collective Intelligence. Singapore: Springer. https://doi.org/10.1007/978-981-13-8126-3
Peters, M. A., & Jandrić, P. (2015). Philosophy of Education in the Age of Digital Reason. Review of Contemporary Philosophy, 14, 162-181.
Peters, M. A., & Jandrić, P. (2018). The Digital University: A Dialogue and Manifesto. New York: Peter Lang.
Whitehead, A. N. (1929). Process and Reality: An Essay in Cosmology. New York: Macmillan.