Il lavoro delle macchine, il destino dell’uomo -- Automazione, potere e disuguaglianza: perché serve una nuova regia del valore

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Nel discorso dominante sull’innovazione, si fa spesso appello a una promessa implicita: che le tecnologie avanzate, e in particolare l’intelligenza artificiale, possano liberare l’umanità dalla fatica, dall’errore, dalla scarsità. Si racconta un futuro dove le macchine lavoreranno al posto nostro, permettendoci di esplorare vocazioni più alte: creatività, relazione, benessere. È un immaginario seducente. Ma dietro questa visione idilliaca si nasconde un paradosso sistemico: una società senza lavoro rischia di diventare una società senza reddito, e quindi senza consumo, senza coesione, senza futuro.


La questione non è tecnica, è politica

L’automazione non è un destino, è una decisione. E come ogni decisione economica, comporta effetti redistributivi. In un contesto in cui il rendimento del capitale cresce sistematicamente più dei salari (Piketty), la sostituzione del lavoro umano con sistemi automatizzati non genera solo efficienza: concentra ricchezza, riduce il potere d’acquisto, erode il tessuto sociale. Le imprese producono di più, ma vendono meno. I mercati si svuotano non per eccesso di offerta, ma per difetto strutturale di domanda solvibile. Il problema non è la tecnologia in sé, ma la configurazione del potere che ne orienta gli usi e ne incamera i benefici. In assenza di correttivi, l’automazione rischia di diventare un acceleratore di diseguaglianze, non uno strumento di liberazione.

L’avvertimento di Éric Sadin: la tecnologia non è neutra

Nel saggio Critica della ragione artificiale (Luiss, 2019), il filosofo Éric Sadin denuncia l’inganno di fondo della retorica tecno-liberista: l’idea che la tecnologia sia neutra, al servizio della collettività. In realtà, afferma Sadin, l’intelligenza artificiale non è solo uno strumento operativo, ma un dispositivo di potere. Abbiamo progressivamente delegato alle macchine non solo compiti esecutivi, ma funzioni cognitive, affidando loro la capacità di decidere, valutare, classificare. Questo spostamento segna una svolta antropologica. L’essere umano, da soggetto agente, diventa terminale passivo di un processo calcolato altrove. L’efficienza si impone come principio assoluto. La soggettività si ritrae. Le decisioni sono prese “per nostro conto”, ma senza il nostro giudizio.

“Non si tratta più di migliorare la vita, ma di piegarla a uno standard algoritmico di performance.”

Il paradosso della sovrapproduzione intelligente

Nel breve periodo, l’automazione genera vantaggi. Ma nel medio periodo, produce squilibrio. Se la ricchezza viene concentrata e il lavoro espulso, chi potrà acquistare ciò che le macchine producono? La società tende a polarizzarsi: da un lato una minoranza che controlla dati, piattaforme, asset immateriali; dall’altro una maggioranza che galleggia tra precarietà, sotto-occupazione e redditi marginali. Il risultato non è solo ingiusto, ma economicamente insostenibile. Una società diseguale è anche una società meno dinamica, meno innovativa, meno capace di adattarsi.

Oltre la retorica della “libertà dal lavoro”

C’è chi immagina un futuro in cui il tempo liberato dal lavoro verrà speso in creatività, cura, auto-espressione. È un’ipotesi interessante, ma viziata da un’illusione: che la libertà sia una condizione spontanea, garantita dalla tecnologia. La verità è opposta. Senza un’infrastruttura materiale di sicurezza economica e diritti condivisi, la libertà diventa un lusso per pochi, non una condizione comune. Lo ha chiarito Amartya Sen: la libertà autentica non è assenza di vincoli, ma capacità concreta di agire, scegliere, contribuire. E tale capacità nasce da condizioni sociali stabili, eque, universalmente accessibili. Non da slide motivazionali o app di self-empowerment.

Una proposta strategica: rimettere l’umano al centro della catena del valore

Non si tratta di opporsi alla tecnologia, ma di governarne gli impatti con lucidità sistemica. Occorre una nuova architettura sociale dell’innovazione. Alcune direttrici operative possibili:

  1. Redistribuzione sistemica: strumenti di reddito minimo garantito, meccanismi di compartecipazione ai profitti algoritmici, politiche fiscali orientate alla giustizia distributiva.

  2. Governance inclusiva della tecnologia: comitati etici con potere reale, che includano filosofi, sociologi, sindacati, utenti. La neutralità tecnica è una finzione. Servono contropoteri.

  3. Riconoscimento del lavoro invisibile: cura, manutenzione, educazione, relazione: attività oggi sottovalutate perché difficili da monetizzare, ma decisive per la resilienza collettiva.

  4. Umanesimo operativo: all’interno di aziende, pubbliche amministrazioni, startup e filiere produttive, serve una nuova grammatica organizzativa che non riduca la persona a funzione, ma ne valorizzi la capacità di giudizio, adattamento, immaginazione.

La sfida che ci attende non è tecnica, ma culturale

Costruire un futuro desiderabile significa ripensare la nozione stessa di valore. Non solo il valore economico, ma il valore umano, sociale, esistenziale. L’intelligenza artificiale può essere uno strumento potente. Ma va indirizzata, normata, accompagnata da un’etica della responsabilità e da politiche redistributive robuste.

Per riuscirci, non basta innovare. Serve pensare. Filosoficamente. Politicamente. Strategicamente.

Nel dibattito contemporaneo su lavoro, libertà e giustizia sociale, il pensiero di Amartya Sen rappresenta un punto di riferimento imprescindibile. Economista e filosofo, premio Nobel per l’economia nel 1998, Sen ha ridefinito radicalmente il concetto di sviluppo, spostando l’attenzione dalla mera crescita del PIL alla capacità effettiva delle persone di vivere vite che hanno ragione di ritenere desiderabili. Il cuore della sua teoria — nota come capability approach — è semplice quanto rivoluzionario: la libertà non si misura in astratto, ma nella concreta possibilità di agire, scegliere, contribuire alla società. In questa prospettiva, il lavoro non è solo fonte di reddito, ma anche ambito di espressione, appartenenza, dignità. E la tecnologia, per essere davvero emancipativa, deve potenziare queste capacità, non svuotarle.

Richiamare Sen oggi significa ricordare che ogni innovazione tecnica deve essere valutata non solo in base a ciò che rende possibile fare, ma anche in base a ciò che rischia di escludere. Senza condizioni materiali condivise, la libertà resta un privilegio. E nessuna società può dirsi giusta se non offre a tutti gli strumenti per decidere il proprio destino.

In Lo sviluppo è libertà, Sen sostiene che lo sviluppo non può essere ridotto alla crescita economica: esso deve essere valutato in termini di espansione delle libertà reali di cui godono le persone. Libertà intesa come capability, cioè capacità concreta di scegliere e vivere la vita che si ha ragione di valorizzare.

Questo approccio va oltre l’output economico e abbraccia temi come l’educazione, la salute, la giustizia, il lavoro dignitoso e l’accesso ai beni comuni.


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Pubblicato il 19 luglio 2025

Calogero (Kàlos) Bonasia

Calogero (Kàlos) Bonasia / omnia mea mecum porto