Prologo: Una sordità epocale
Nietzsche annunciò che Dio era morto. Ma forse la diagnosi era imprecisa, o almeno incompleta. Il Divino non è morto: siamo noi che abbiamo perduto l'organo per percepirlo. Come un'umanità divenuta sorda che conclude, dal proprio silenzio, che la musica non esiste più.
Questa sordità non è un accidente della storia, ma l'esito di un percorso, di una scelta, potremmo dire, se non fosse che le scelte epocali si compiono quasi sempre nell'inconsapevolezza di chi le attua. L'Occidente moderno ha edificato la propria potenza su una progressiva esclusione: esclusione del sacro dall'ambito del conoscibile, del mito dall'ambito del vero, dell'anima dall'ambito del reale. Ciò che resta è un mondo «disincantato», per usare il termine di Weber, un mondo efficiente, calcolabile, manipolabile, ma anche un mondo che non significa più nulla.
E un mondo che non significa più nulla non produce solo disagio esistenziale: produce ignoranza. Un'ignoranza strutturale, necessaria, che non riguarda questo o quel dato fattuale, ma l'incapacità di pensare le categorie fondamentali dell'esistenza politica e spirituale. Così si spiegano fenomeni che altrimenti resterebbero opachi: una classe dirigente che non conosce la geografia, che ignora le date cardine della storia, che non sa più cosa siano un confine, una patria, un'alleanza. Non si tratta di lacune individuali, ma del sintomo di una catastrofe culturale che ha radici profonde.
Il momento cartesiano e la frattura originaria
C'è un momento preciso in cui questa esclusione diviene programma, metodo, fondamento. È il momento cartesiano.
Quando Cartesio pone il cogito come unico fondamento indubitabile, compie un gesto di portata immensa: separa definitivamente il soggetto pensante dal mondo pensato, l'interiorità dall'esteriorità, la mente dalla materia. Il mondo diviene res extensa, pura estensione misurabile, meccanismo senz'anima. E il soggetto diviene un punto geometrico, un'astrazione priva di corpo, di storia, di appartenenza.
Da quel momento, conoscere significa dominare. La natura non è più physis, il sorgere spontaneo delle cose nel loro manifestarsi, ma oggetto da sezionare, analizzare, sottomettere. Il mito, che della physis era il linguaggio originario, viene relegato nel regno della favola, del primitivo, del superato.
Ma ciò che viene rimosso non scompare: ritorna. E ritorna, come sapevano i Greci, sotto forme distorte, patologiche, distruttive.
Che cos'è un mito? Il problema della parola
Per comprendere l'urgenza di un ritorno al mito, dobbiamo innanzitutto liberarci dell'accezione degradata che la parola ha assunto nel linguaggio corrente. «Mito» oggi significa falsità, illusione, inganno: «è solo un mito», diciamo, per liquidare qualcosa come non vero.
Ma già qui si annida un equivoco fondamentale. Come ha mostrato Maurizio Bettini, il termine moderno «mito» deriva sì dal greco mythos (μῦθος), ma ne tradisce radicalmente il significato originario. In Omero ed Esiodo, mythos indica semplicemente un discorso autorevole, una parola da eseguire, un racconto, e non in opposizione a logos, bensì in complementarità con esso. È solo con Erodoto, Tucidide e soprattutto Platone che mythos comincia a designare il discorso favoloso, distinto dal discorso razionale.
Nella cultura greca arcaica, il mythos è anzitutto autorevole: è il discorso che chiede di essere eseguito, come quando Posidone respinge l'ordine di Zeus di abbandonare la lotta definendo la risposta «dura e potente» (mythos). È il discorso pronunciato con veemenza dai guerrieri sul campo di battaglia. È l'orazione che possiede il prestigio necessario per essere ascoltata. Il mythos dell'epica è un discorso assertivo, che chiede di essere eseguito. Solo nel seguito della cultura greca, con Erodoto, Tucidide, Platone, questo termine comincerà a designare il discorso favoloso, destinato comunque a suscitare il problema della credibilità.
Ma la trasformazione decisiva avviene molto dopo, tra Settecento e Ottocento. È qui che il mito perde la sua natura di modalità del discorso e diventa una cosa, un'essenza, una categoria assoluta. Il Medioevo e il Rinascimento non avevano mai parlato di mythos — usavano fabula. Furono Gianbattista Vico e soprattutto Christian Gottlob Heyne, nella seconda metà del Settecento, a riportare in luce il termine dimenticato. E con questa riscoperta, il mito assunse un «andamento turbinoso»: non più semplice racconto, ma manifestazione di una civiltà pre-filosofica, modo di pensare, realtà trascendente di cui si può fare, anzi, si deve fare, la scienza.
La tentazione romantica e il suo fallimento
Questa trasformazione raggiunge l'apice con il Romanticismo. Nel 1825, Carl Ottfried Müller, uno dei fondatori della mitologia scientifica, scriveva: «il mito lo si sente, è un'esperienza emozionale» che «richiede un momento di entusiasmo, di eccezionale tensione e di straordinaria cooperazione fra tutte le forze spirituali».
Qui si annida il paradosso. Se il mito è esperienza emotiva pura, se lo si «sente» invece di comprenderlo, come possiamo parlarne rigorosamente? Come evitare che ogni interprete vi proietti semplicemente le proprie emozioni, le proprie categorie moderne, i propri bisogni psicologici? La soluzione romantica, fare del mito un oggetto di intuizione estatica, conduce dritto all'arbitrio interpretativo e, alla fine, alla perdita dell'oggetto stesso.
Aristotele, nel primo libro della Metafisica, aveva già indicato la via: riconosce nel philomythos una forma del philosophos, perché chi ama i miti è in qualche modo filosofo, il mito è composto di meraviglia (θαῦμα), e dalla meraviglia nasce la filosofia. Il mito non è la filosofia, ma ne è la matrice, il terreno fecondo. Non sta prima della ragione come un'infanzia da superare, ma ne è la condizione di possibilità.
Una definizione operativa: tradizione e significatività
Possiamo allora provare una definizione più sobria, più aderente alla realtà storica. Walter Burkert, grande studioso a cui questa rubrica deve molto, ha proposto di definire il mito come «racconto tradizionale fornito di speciale significatività» (Bedeutsamkeit). Due poli in tensione: da un lato la tradizionalità, il mito viene trasmesso, non inventato; dall'altro la significatività, il mito dice qualcosa che conta, che orienta l'esistenza.
I miti greci costituiscono qualcosa di unico nella storia dell'umanità: non un sistema dogmatico, non una teologia rivelata, ma un immenso repertorio di figure, storie, varianti, un laboratorio aperto in cui l'anima greca ha esplorato tutte le possibilità dell'esistenza umana. Gli Dèi greci non sono legislatori morali né giudici ultraterreni: sono potenze, forze, modalità dell'essere. Zeus è il potere che ordina, Apollo la chiarezza che distingue, Dioniso l'ebbrezza che dissolve, Atena l'intelligenza che trama, Afrodite il desiderio che lega. Non si «crede» in loro come si crede in un articolo di fede: li si riconosce come sempre operanti, in noi e fuori di noi.
Perdere l'accesso a questo mondo non significa solo perdere un pezzo di archeologia culturale. Significa perdere le parole per nominare dimensioni dell'esperienza che continuano ad agire in noi, anche se non sappiamo più riconoscerle. E quando non sai più nominare, non sai più pensare. E quando non sai più pensare le categorie fondamentali, il sacro, l'eroico, il sacrificio, la fedeltà, la vergogna, l'onore, ti ritrovi smarrito davanti al reale.
L'urgenza filologica: ritornare all'essenza
Come accedere a questo mondo? Come superare i sedimenti di secoli, le interpretazioni allegoriche, le moralizzazioni cristiane, le banalizzazioni pop, per ritrovare il volto originario del mito greco?
La via è una sola, ed è la via filologica.
Philologia significa amore per il logos, per la parola. E la parola greca non è un'etichetta arbitraria appiccicata alle cose: è rivelazione dell'essenza. I Greci lo sapevano, e Aristotele ne fa metodo: comprendere il ti esti, l'essenza di qualcosa, richiede innanzitutto comprendere il nome con cui quella cosa si dice. L'etimologia non è un gioco erudito, ma un cammino verso la verità.
Prendiamo aletheia (ἀλήθεια), la parola greca per «verità». Essa significa letteralmente «non-nascondimento», da a- privativo e lanthano, nascondere. La verità, per i Greci, non è corrispondenza tra mente e cosa (questa è la definizione scolastica, poi cartesiana), ma il togliersi di un velo, il venire alla luce di ciò che era celato. Conoscere è dis-velare, non costruire rappresentazioni.
Ogni nome divino, ogni epiteto eroico, ogni aggettivo omerico porta con sé questa densità semantica. Ritornare al greco, non al greco dei manuali scolastici, ma al greco vivente dei testi, significa ritrovare un intero modo di abitare il mondo, di pensare l'essere, di rapportarsi al divino.
La filologia non è un vezzo erudito: è l'unico antidoto contro la proiezione moderna. Quando leggiamo Omero in greco, quando scomponiamo etimologicamente un nome divino, quando distinguiamo le varianti di un racconto, stiamo resistendo alla tentazione di fare del mito una «categoria assoluta», e stiamo invece ascoltando voci concrete, storicamente situate. Non cerchiamo un'«essenza» metafisica del mito (quella sarebbe proprio l'illusione romantica), ma cerchiamo di ascoltare come i Greci parlavano, quali erano le loro modalità discorsive, come il mythos funzionava nella loro cultura.
La società della dimenticanza
E qui sta l'urgenza. Perché la nostra società non ha semplicemente «superato» il mito: lo ha rimosso. E ciò che è rimosso, come insegna ogni buona psicologia del profondo, non cessa di agire, agisce anzi più potentemente, perché inconsciamente.
Guardiamo l'Occidente contemporaneo. Un'abbondanza materiale senza precedenti si accompagna a un'epidemia di depressione, ansia, vuoto esistenziale. L'efficienza tecnica ha raggiunto vertici inimmaginabili, ma nessuno sa più rispondere alle domande semplici: perché viviamo? verso cosa tendiamo? che senso ha la sofferenza, la morte, l'amore?
Abbiamo messo tra parentesi queste domande perché ci sembravano pre-scientifiche, residui di un'epoca superata. Ma erano le domande che tenevano insieme la vita, che la orientavano verso un significato. Senza di esse, restiamo con un'esistenza che funziona perfettamente ma non significa nulla, come un meccanismo di precisione che gira a vuoto.
E questo vuoto produce effetti concreti, misurabili, devastanti. Una classe dirigente che non sa più leggere una carta geografica, che ignora i confini della Polonia, che non conosce la data della Rivoluzione francese. Non si tratta di lacune individuali, di episodi aneddotici. È la conseguenza necessaria di un sistema educativo collassato, che non trasmette più le categorie fondamentali del pensiero. E non può trasmetterle, perché le ha perdute.
Il divino non è morto: si è ritirato. O meglio, noi ci siamo ritirati da esso. Abbiamo costruito un mondo artificiale così denso, così rumoroso, così saturo di stimoli, che le voci sottili degli Dèi non ci raggiungono più. Non è che Apollo abbia smesso di parlare: è che abbiamo ricoperto Delfi di centri commerciali.
Un ritorno, non una regressione
Proporre un ritorno al mito greco non significa vagheggiare un impossibile recupero del passato, né propugnare un irrazionalismo che rifiuti le conquiste del pensiero critico. Significa qualcosa di più sottile e più arduo: significa riconoscere che il «momento cartesiano» non è l'unica possibilità della ragione, che esistono altri modi di pensare rigorosi ma non riduzionisti, razionali ma non calcolanti.
I Greci e gli ellenisti — gli Stoici, gli Epicurei, i Neoplatonici, avevano sviluppato forme di razionalità che includevano l'esperienza del sacro invece di escluderla. Il logos greco non era contrapposto al mythos: ne era l'articolazione, lo sviluppo, la riflessione interna. I filosofi antichi non «credevano» nei miti come un bambino crede alle favole: li abitavano come orizzonti di senso, li interpretavano come cifre dell'anima, li praticavano come vie di trasformazione interiore.
Questo è ciò che possiamo, ciò che dobbiamo, riapprendere. Non tornare indietro, ma recuperare una dimensione che abbiamo perduto per andare avanti più ricchi, più interi, più capaci di abitare un mondo che torni a significare qualcosa. Un mondo in cui si sappia di nuovo cosa sia un confine, perché lo si è pensato attraverso le storie di chi attraversò l'Ellesponto o navigò verso Itaca. Un mondo in cui si sappia cosa sia il sacrificio, perché lo si è meditato guardando Ifigenia ad Aulide. Un mondo in cui la parola «alleanza» non sia un termine tecnico di diritto internazionale, ma porti ancora l'eco dei giuramenti pronunciati davanti agli Dèi.
Conclusione: Il progetto di questa rubrica
Il lavoro che qui si presenta nasce da questa urgenza. Non è un'opera di mera erudizione, benché l'erudizione filologica ne sia lo strumento irrinunciabile. È un tentativo di riascoltare le voci del mito greco nella loro risonanza originaria, restituendo a ogni nome la sua densità etimologica, a ogni figura il suo profilo psicologico, a ogni racconto il suo potenziale di illuminazione.
Voce per voce, nome per nome, percorreremo l'immenso repertorio della mitologia greca. Non per catalogare curiosità antiquarie, ma per riscoprire figure dell'anima, quelle forze, quelle dinamiche, quei conflitti che i Greci avevano saputo nominare con precisione e che in noi operano ancora, anche se non sappiamo più riconoscerli né chiamarli per nome.
Sarà un lavoro rigorosamente filologico, attento alle fonti primarie, rispettoso delle varianti, nemico di ogni banalizzazione. Ma sarà anche un lavoro animato dalla convinzione che queste storie, questi mythoi, abbiano ancora qualcosa di essenziale da dirci. Non perché contengano «verità eterne» (altra illusione moderna), ma perché preservano modalità del pensiero e dell'esperienza che abbiamo disimparato e di cui abbiamo disperato bisogno.
Perché forse, se torniamo ad ascoltare, scopriremo che gli Dèi non se ne sono mai andati.
Ringraziamento
Un lavoro filologico rigoroso non sarebbe possibile senza gli strumenti che altri studiosi, con pazienza e dedizione, hanno costruito nel corso di decenni. Questa rubrica deve molto al Dizionario Etimologico della Mitologia Greca (DEMGOL), frutto di oltre vent'anni di lavoro collettivo sotto la direzione di Ezio Pellizer. Senza questo strumento, consultabile gratuitamente online all'indirizzo www.demgol.units.it, l'analisi etimologica dei nomi mitici sarebbe stata enormemente più complessa e dispersiva.
Il DEMGOL, nato nel 1992 da una dissertazione dottorale di Carla Zufferli e sviluppato grazie alla collaborazione di numerosi membri del GRIMM (Gruppo di Ricerca sul Mito e la Mitografia) — tra cui Francesca Marzari, Luisa Benincampi, Stefano di Brazzano, Alberto Cecon, Alberto Pavan, Ilaria Sforza, Ingrid Leschiutta — rappresenta oggi uno strumento imprescindibile per chiunque voglia accedere con rigore scientifico al patrimonio mitologico greco. La sua traduzione in spagnolo (grazie ad Álvaro Ibáñez, José Antonio Clúa Serena e Diana De Paco Serrano), in portoghese brasiliano (grazie a Matheus Trevizam, Tereza Virgínia, Manuela Ribeiro Barbosa e Antonio Orlando Dourado Lopes), in francese (grazie a Françoise Létoublon e al gruppo HOMERICA di Grenoble) e in catalano (grazie a Vicky Alsina, Daniel Ramon, Xavier Riu e Nereida Villagra) ne ha fatto un patrimonio autenticamente internazionale.
A tutti questi studiosi va la nostra gratitudine: il loro lavoro silenzioso e rigoroso rende possibile il nostro.