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Oggi la fame non è solo di pane o di lavoro, ma di sguardi. Ovunque — negli uffici, sui treni, nei supermercati — le persone cercano di non sparire.


Una volta la gente lottava per avere di più. Non per orgoglio, ma per vivere con dignità. Si andava nelle piazze, si firmavano petizioni, si facevano scioperi.

C’era un’idea chiara di ciò che mancava: un salario giusto, un tetto, la scuola per i figli, una vita che non fosse solo lavoro e fatica. Si parlava poco, allora, e si ascoltava di più.

La gente aveva mani rovinate, visi segnati, ma negli occhi si vedeva una direzione comune. Poi, col tempo, le parole sono cambiate. Non si è capito bene quando. Forse quando le fabbriche hanno chiuso e le piazze si sono svuotate. O quando i figli sono partiti per studiare lontano, e hanno cominciato a scrivere la loro vita su uno schermo. Da allora la lotta si è spostata: non più per avere, ma per essere visti.

Oggi la fame non è solo di pane o di lavoro, ma di sguardi.

Ovunque — negli uffici, sui treni, nei supermercati — le persone cercano di non sparire. Si pubblicano foto, si scrivono pensieri, si contano i segni di approvazione come se fossero briciole di riconoscimento. Anche chi sembra forte, anche chi ha un buon posto o una bella casa, vuole che qualcuno lo veda davvero. Non di sfuggita, ma con attenzione, come si guardano le cose che contano. Il sociologo Axel Honneth ha scritto che siamo passati dalla lotta per la redistribuzione alla lotta per il riconoscimento.

La prima era una lotta collettiva, la seconda è diventata più intima, più fragile. Una volta ci si riconosceva nella stessa fatica, oggi ci si distingue nella propria differenza. È un cambiamento grande, ma anche pieno di solitudine. Nelle aziende, nei gruppi, persino nelle famiglie, il bisogno di riconoscimento è diventato una specie di lingua comune. Si parla di rispetto, di inclusione, di visibilità.

Eppure, spesso, dietro queste parole, c’è un desiderio più semplice e più antico: essere considerati, sentire che la propria voce non si perde nel rumore. Un tempo le persone si sentivano parte di qualcosa, oggi temono di essere sostituibili.

E così, per non scomparire, si cerca ogni modo per lasciare un segno, anche piccolo, anche momentaneo. Ma il riconoscimento da solo non basta. Non sfama, non scalda, non protegge.

Una persona ha bisogno di sentirsi vista, sì, ma anche di poter vivere senza paura. Ha bisogno di un reddito, di una casa, di un tempo per respirare, di qualcuno che la chiami per nome. La dignità non si regge solo sul rispetto, ma anche sulle cose concrete — un contratto stabile, una cura garantita, una scuola che funziona. Se manca la materia delle cose, anche il riconoscimento si svuota.

Diventa come una luce che si accende per un istante e poi si spegne. La visibilità è un conforto breve; la giustizia, invece, è un lavoro lungo, fatto di mani, di corpi, di gesti quotidiani. Forse dovremmo tornare a pensare alla giustizia come a qualcosa che si tocca. Non un’idea, ma un oggetto reale. Una tovaglia pulita, un piatto sul tavolo, un tempo per ascoltare chi è stanco.

Riconoscere qualcuno non vuol dire soltanto dire “ti rispetto”, ma occuparsi che abbia ciò che serve per stare al mondo. Un giorno, forse, impareremo a unire di nuovo le due fatiche: quella di condividere il pane e quella di condividere lo sguardo. Perché la giustizia vera non sceglie tra il corpo e l’anima. Li tiene insieme, come si tengono insieme le cose che non devono andare perdute.


 

Pubblicato il 21 ottobre 2025

Frida Riolo

Frida Riolo / Strategic Innovator | Design Thinking |

frida.riolo@prmdesign.com