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La vicenda della maturità “muta” rappresenta molto più di una bravata mediatica: è il campanello d’allarme di una generazione che chiede una scuola migliore. Una scuola che formi senza far soffrire inutilmente, che educhi senza mortificare. Gli studenti hanno lanciato un messaggio coraggioso, pagando di persona (rischiando la bocciatura) per dare voce al disagio loro e di molti compagni. Spetta ora alle istituzioni dimostrarsi all’altezza, abbandonando rigidità autoritarie e aprendo le porte a un dialogo costruttivo.


La protesta: "Troppa competizione, manca empatia"

Negli ultimi giorni di giugno, durante gli esami di maturità, alcuni studenti hanno messo in atto una forma inedita di protesta: presentarsi al colloquio orale senza rispondere alle domande. Questo gesto, apparentemente estremo, è nato dal desiderio di denunciare un malessere diffuso verso l’attuale sistema scolastico. «È una protesta contro i meccanismi di valutazione scolastici, l’eccessiva competitività, la mancanza di empatia del corpo docente» ha spiegato Maddalena Bianchi, 19 anni, che come un suo collega veneto si è rifiutata di sostenere l’orale (ansa.it). In altre parole, questi maturandi hanno voluto dire basta a una scuola percepita come una gara continua a chi ottiene il voto più alto, dove l’ansia da prestazione offusca la voglia di imparare e dove spesso si sente la mancanza di un rapporto umano comprensivo.

Dal mondo degli studenti la solidarietà è stata immediata: in molti hanno riconosciuto la validità di questa forma di dissenso civile. «È una protesta giusta, l’esame va ripensato», ha dichiarato Bianca Piergentili, coordinatrice di un movimento studentesco nazionale. D’altra parte, anche alcune figure istituzionali della scuola hanno invitato a riflettere sul messaggio lanciato dai ragazzi. Il vicepresidente di un’associazione di presidi (DirigentiScuola) ha osservato che il gesto «evidenzia un disagio vissuto quotidianamente da molti studenti pressati da eccessive aspettative» e che sarebbe superficiale ridurlo a una semplice mancanza di rispetto, perché in realtà «è una richiesta di attenzione». In un sistema scolastico dove troppi ragazzi tornano a casa in lacrime per un brutto voto o la pressione delle aspettative, questa protesta è il sintomo di un problema più profondo.

sulla scuola sperimentiamo da tempo una spaccatura generazionale e culturale 

Al tempo stesso non sono mancate voci critiche verso gli studenti “silenziosi”: c’è chi, come il presidente di un’associazione nazionale presidi, ha bollato l’atto come “folkloristico” e dettato più dal desiderio di visibilità che da reale sofferenza. Queste reazioni contrastanti dimostrano la spaccatura generazionale e culturale intorno alla scuola: da un lato chi la vive ogni giorno e chiede cambiamenti, dall’altro chi teme che mettere in discussione certe regole significhi minare l’autorità e la serietà dell’istituzione. Ma quali sono, nel concreto, i motivi del malessere espresso dai ragazzi? E perché tirano in ballo metodi educativi alternativi come quello Montessori? Per capirlo occorre confrontare l’impostazione attuale della scuola con un modello pedagogico diverso, più centrato sullo studente.

Scuola tradizionale vs. metodo Montessori: due visioni a confronto

La scuola italiana tradizionale è ancora oggi impostata in modo prevalentemente frontale e standardizzato. Il docente è al centro della scena: spiega la lezione, assegna compiti e valuta tramite verifiche e voti, uguali per tutti. L’allievo, in questo modello, ha un ruolo per lo più passivo e ricettivo.

il rapporto docente-discente rischia di ridursi a trasmissione di nozioni e verifica dei risultati, senza spazio per la comprensione delle emozioni o delle difficoltà individuali

Questo approccio uniforme spesso alimenta una forte competizione tra gli studenti, spinti a primeggiare sui compagni in termini di rendimento. L’errore viene vissuto come un fallimento da evitare o punire (con un brutto voto), piuttosto che come parte naturale del processo di apprendimento. Il risultato, denunciato dagli studenti in protesta, è un clima di ansia e pressione costante: ogni interrogazione diventa un giudizio sulla persona, ogni voto sembra definire il valore dello studente. In un ambiente così competitivo e giudicante, non stupisce che possa mancare l’empatia: il rapporto docente-discente rischia di ridursi a trasmissione di nozioni e verifica dei risultati, senza spazio per la comprensione delle emozioni o delle difficoltà individuali. Come ha osservato la professoressa Daniela Lucangeli, esperta di psicologia dell’apprendimento, negli ultimi decenni la scuola si è spesso adagiata su un modello “io ti insegno, tu apprendi, io verifico” – un ciclo classico di insegnamento/apprendimento che non corrisponde a come funziona il nostro cervello, anche dal punto di vista emotivo (orizzontescuola.it). In altre parole, un modello educativo basato solo su nozioni trasmesse e memorizzate ignora il fatto che non si apprende senza emozioni: se lo studente studia con ansia o paura di sbagliare, il suo cervello percepisce un segnale di allerta e tenderà a “fuggire” da quello stato, compromettendo l’apprendimento.

Nella scuola montessoriana “il centro è il bambino o la bambina e l’adulto ha il compito di vigilare”, invertendo di fatto i ruoli tradizionali

Di tutt’altra natura è la filosofia didattica del metodo Montessori, sviluppato da Maria Montessori oltre un secolo fa ma ancora estremamente attuale. Nella scuola montessoriana “il centro è il bambino o la bambina e l’adulto ha il compito di vigilare”, invertendo di fatto i ruoli tradizionali. L’insegnante non è più un’autorità che impartisce ordini e conoscenze dall’alto, bensì un guida e un osservatore attento, pronto a intervenire solo quando il bambino ha bisogno di aiuto. La classe Montessori è organizzata come un piccolo laboratorio di vita: l’ambiente è preparato con cura, ricco di materiali didattici adatti e accessibili, e i bambini possono muoversi liberamente scegliendo le attività a cui dedicarsi. È normale vedere alunni impegnati in compiti diversi nello stesso momento, magari aiutandosi tra loro quando necessario, ciascuno concentrato sul proprio progetto (uppa.it). Questa autonomia operativa è una caratteristica cardine: ognuno segue i propri ritmi e interessi, all’interno di confini chiari e condivisi. A differenza della lezione uguale per tutti tipica della scuola tradizionale, nel metodo Montessori “i bambini scelgono in autonomia le proprie occupazioni [...] e non viene imposta loro un’attività precisa”. I tempi di apprendimento non sono dettati dall’esterno: “la velocità [...] non è una qualità da coltivare, lo sono piuttosto la cura e la reale comprensione” di ciò che si sta facendo. Questo significa che non c’è fretta né ansia di prestazione, ma importanza della padronanza reale delle competenze.

Nei contesti montessoriani l’errore non è stigmatizzato: molti materiali sono auto-correttivi, permettendo al bambino di accorgersi da solo dell’errore e di imparare da esso, senza subire umiliazioni.

Un altro elemento chiave del Montessori – assai pertinente alle proteste degli studenti – è l’approccio all’errore e alla valutazione. Nei contesti montessoriani l’errore non è stigmatizzato: molti materiali sono auto-correttivi, permettendo al bambino di accorgersi da solo dell’errore e di imparare da esso, senza subire umiliazioni. L’insegnante adotta uno sguardo incoraggiante: l’errore diventa un alleato dell’apprendimento, un’opportunità per crescere (tecnicadellascuola.it). Non ci sono voti numerici sbandierati o pagelle che etichettano i bambini: la valutazione è sostituita dall’osservazione continua dei progressi individuali e da feedback personalizzati. Così svanisce la competizione distruttiva: ciascuno è stimolato a migliorare rispetto a sé stesso, non a confrontarsi ossessivamente con gli altri. Nelle classi Montessori spesso vige la cooperazione: età diverse convivono (nelle scuole dell’infanzia e primarie) e i più grandi aiutano i più piccoli, instaurando un clima di comunità familiare anziché di rivalità. Si educa all’autonomia responsabile e al rispetto reciproco, piuttosto che all’obbedienza passiva o al timore del giudizio.

Non è un caso che proprio i punti critici denunciati dai maturandi in protesta trovino risposta nei principi montessoriani: dove la scuola tradizionale ha “eccessiva competitività”, il Montessori promuove collaborazione e rispetto dei ritmi individuali; dove manca “empatia”, il Montessori pone l’accento sul rispetto per il bambino e sulla cura del suo sviluppo emotivo; dove l’insegnamento è rigido e uguale per tutti, il Montessori offre personalizzazione e ascolto dei bisogni del singolo. Questa differenza di vedute sta entrando gradualmente nel dibattito educativo italiano. Non a caso, nel 2024 il Ministero dell’Istruzione ha autorizzato per la prima volta l’estensione del metodo Montessori anche alle scuole medie: una sperimentazione triennale ha dimostrato “la capacità di realizzare un’offerta formativa capace di rispondere alle esigenze degli studenti” anche nella scuola secondaria. È un riconoscimento istituzionale del fatto che l’approccio montessoriano – centrato sullo studente, attivo e inclusivo – può offrire spunti preziosi per rinnovare quell’“anello debole” del sistema scolastico rappresentato dalle medie inferiori. Tuttavia, portare davvero queste idee nel cuore del sistema richiede un cambiamento culturale profondo, che investe il modo di insegnare di tutti i giorni.

Una scuola che “non riempie ma nutre”: i principi secondo Daniela Lucangeli

A indicare la direzione di questo cambiamento è la voce autorevole della prof.ssa Daniela Lucangeli, psicologa dell’età evolutiva e pedagogista molto amata da insegnanti e genitori. Lucangeli da anni denuncia il “mal di scuola” contemporaneo e propone una vera “rivoluzione gentile” nell’educazione. Secondo la studiosa, infatti, “la scuola non può essere fatta di docenti affaticatissimi e studenti che tornano in lacrime”: se entrambi – insegnanti e alunni – sono esausti e demotivati, significa che il sistema sta fallendo il suo compito principale. L’insegnamento, per Lucangeli, non può ignorare la dimensione umana ed emotiva: “quando apprendo sono le emozioni che sentono [...] quelle emozioni tracciano le memorie e le memorie tracciano il futuro”. In altre parole, non c’è apprendimento efficace senza benessere emotivo. Un ragazzo che si sente umiliato, impaurito o incompetente a scuola costruirà ricordi negativi legati allo studio e perderà la motivazione; al contrario, un ragazzo curioso, sereno e stimolato positivamente sarà aperto a imparare per tutta la vita.

“la scuola non può essere fatta di docenti affaticatissimi e studenti che tornano in lacrime”

Quali sono dunque i principi a cui dovrebbe ispirarsi l’insegnamento, secondo Lucangeli? Nel suo recente libro “La scuola che vorrei” (Erickson, 2023), la professoressa delinea un modello educativo ideale – chiamato B612 come l’asteroide del Piccolo Principe – fondato sulla connessione profonda tra mente ed emozioni. È una scuola in cui “l’errore è accolto come opportunità, la curiosità come risorsa e la fiducia lo spunto per un apprendimento autentico”, cosicché gli alunni possano apprendere senza essere giudicati e senza che nulla venga imposto in modo coercitivo. Tra le idee-forza proposte da Lucangeli troviamo: insegnare con il cuore, ossia con empatia e passione genuina; coltivare la curiosità epistemica naturale dei bambini, quella voglia innata di sapere che rende l’apprendimento un’avventura entusiasmante; valorizzare l’errore non come colpa ma come occasione per migliorare; promuovere la collaborazione (passare “dall’io al noi”) invece di alimentare la competizione individualistica; e soprattutto praticare l’I Care, il “mi sta a cuore” don Lorenzo Milani aggiornato al presente – ovvero far sentire ogni studente importante, visto, preso in cura nella sua unicità. In definitiva, come scrive Lucangeli, “la scuola che vorrei ha un nome, si chiama B612.infinito”, una scuola che non riempie ma nutre, che non misura ma accompagna, che non pretende ma ascolta. Queste parole delineano un ribaltamento totale della scuola autoritaria: invece di trattare gli studenti come contenitori da riempire di nozioni e da valutare con voti, bisogna nutrire le loro menti e i loro talenti; invece di misurare ogni performance, meglio accompagnare nel percorso di crescita; invece di pretendere obbedienza e risultati a tutti i costi, occorre ascoltare le esigenze, i sogni e anche le fragilità dei ragazzi.

gli studenti che hanno protestato chiedono una scuola più umana, più vicina ai loro bisogni reali.

È commovente notare come gli studenti che hanno protestato chiedono proprio questo: una scuola più umana, più vicina ai loro bisogni reali. Quando denunciano la mancanza di empatia o l’eccesso di competizione, stanno invocando i principi di cui parlano Montessori e Lucangeli – magari senza conoscerli in teoria, ma esprimendoli con la loro esperienza di vita. Vogliono poter imparare senza sentirsi continuamente sotto giudizio, desiderano insegnanti capaci di capire il loro disagio e non solo di correggere i compiti. Chiedono una scuola in cui l’errore non faccia paura, in cui ci si senta supportati e non etichettati. In fondo, come osserva Lucangeli, “dobbiamo chiederci se la scuola è fonte di salute per l’intelligenza e la persona dei nostri ragazzi, o fonte di malessere”. I ragazzi in protesta ci stanno dicendo chiaramente che, così com’è, la scuola per molti di loro è fonte di malessere. Spetta agli adulti raccogliere questo grido e trasformarlo in occasione di cambiamento.

La risposta del Ministro: ha capito le ragioni della protesta?

Di fronte alla clamorosa protesta degli orali boicottati, il Ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara ha reagito con fermezza. In dichiarazioni pubbliche ha definito “inaccettabile” questa forma di sciopero della maturità e ha annunciato una linea dura per il futuro: la riforma dell’esame prevedrà che «chi si rifiuta di sostenere l’orale [...] dovrà ripetere l’anno». In pratica, il ministro intende sanzionare severamente ogni studente che tenterà di replicare proteste simili, introducendo la bocciatura automatica per chi boicotta il colloquio finale. Questa risposta ha sicuramente l’obiettivo di ribadire l’autorità dell’istituzione scolastica e di dissuadere altri dal seguire l’esempio dei ragazzi veneti. Ma viene spontaneo chiedersi: una reazione punitiva del genere affronta davvero i problemi sollevati dagli studenti o rischia piuttosto di confermare quell’approccio autoritario che essi contestano?

le reazioni istituzionali alla protesta dei ragazzi dimostra che le ragioni profonde del disagio studentesco non siano state realmente prese in carico

Osservando le dichiarazioni di Valditara, si ha l’impressione che le ragioni profonde del disagio studentesco non siano state realmente prese in carico. Il ministro ha parlato di “boicottaggio” da reprimere e di rispetto delle regole da ristabilire, ma non ha speso parole sui motivi che hanno spinto dei diciannovenni a un gesto così drastico. Nessun cenno pubblico, ad esempio, sulla “eccessiva competitività” o sulla “mancanza di empatia” denunciate dagli studenti. Il rischio, secondo molti osservatori, è che si intervenga sul sintomo e non sulla malattia: punire chi protesta senza interrogarsi sul perché protesta. Un atteggiamento del genere potrebbe addirittura aggravare la frattura: i ragazzi invocano dialogo, ascolto, una scuola meno distante – vedersi rispondere con ulteriori irrigidimenti e minacce di bocciatura non farà che confermare la sensazione di non essere capiti.

Vale la pena ricordare che perfino alcuni dirigenti scolastici (non certo indulgenti verso le intemperanze) hanno riconosciuto il fondo di verità nella contestazione. La già citata associazione DirigentiScuola, pur ribadendo l’importanza di comportamenti rispettosi agli esami, ha avvertito che sarebbe sbagliato ridurre questi atti a semplice indisciplina: sono piuttosto spia di un malessere quotidiano e andrebbero accolti come richiesta di attenzione. In altre parole, una istituzione illuminata dovrebbe sì mantenere l’ordine, ma anche saper ascoltare il messaggio di chi protesta per migliorare la scuola. La sensazione invece è che la risposta ministeriale sia stata un’occasione persa in tal senso. Ad esempio, si sarebbe potuto aprire un tavolo di confronto con gli studenti per discutere di come “ripensare l’esame” – proposta avanzata dagli stessi collettivi studenteschi – o per affrontare il tema dello stress scolastico e della pedagogia dell’errore. Invece, la linea annunciata è stata quella della tolleranza zero.

le proteste con gli esami muti dei ragazzi è una spia di un malessere quotidiano, andrebbero accolti come richiesta di attenzione

Chi conosce la storia della pedagogia noterà una triste ironia: Maria Montessori, più di un secolo fa, dovette lottare contro un sistema scolastico ottuso e punitivo, introducendo un metodo basato sul rispetto del bambino e sulla motivazione interiore. Oggi, di fronte a studenti che reclamano esattamente quel rispetto e quella comprensione, l’istituzione risponde con gli stessi riflessi di allora – disciplina e punizione. Eppure, gli esempi positivi non mancano e vengono dallo stesso mondo della scuola: tanti insegnanti applicano già una didattica più dialogica e inclusiva, dirigenti coraggiosi sperimentano percorsi alternativi (Montessori e non solo), studiosi come Lucangeli offrono evidenze scientifiche sull’efficacia di un approccio basato su emozioni positive e relazione. Anche la politica educativa, qua e là, mostra aperture (come l’estensione delle classi Montessori citata prima). Il cambiamento quindi è possibile, ma richiede empatia e visione da parte di chi decide.

In conclusione, questa vicenda della maturità “muta” rappresenta molto più di una bravata mediatica: è il campanello d’allarme di una generazione che chiede una scuola migliore. Una scuola che formi senza far soffrire inutilmente, che educhi senza mortificare. Gli studenti hanno lanciato un messaggio coraggioso, pagando di persona (rischiando la bocciatura) per dare voce al disagio loro e di molti compagni. Spetta ora alle istituzioni dimostrarsi all’altezza, abbandonando rigidità autoritarie e aprendo le porte a un dialogo costruttivo. Come scrive Daniela Lucangeli, “insegnare è prima di tutto un atto di cura – e sarebbe significativo che il Ministero dell’Istruzione accogliesse questa lezione, mostrando di aver cura dei propri studenti ascoltandoli, anziché limitarsi a zittirli. Solo così la protesta potrà trasformarsi in opportunità: l’opportunità di ripensare la scuola lungo linee più umane, dove voti e discipline tornino a essere strumenti e non fini, e dove ogni ragazzo possa sentirsi, finalmente, protagonista sereno del proprio apprendimento.

La protesta offre lo spunto per ripensare la scuola lungo linee più umane, dove voti e discipline tornino a essere strumenti e non fini

Pubblicato il 13 luglio 2025

Carmelo Quartarone

Carmelo Quartarone / Innovation Senior Developer presso Cloudia Research

carmelo.quartarone@gmail.com