Nel mito, Prometeo è un titano, figlio di Giapeto e fratello di Epimeteo, una sorta di suo doppio, il suo lato ombra: tanto Prometeo è furbo e previdente (il suo nome significa “colui che ha l’intelligenza del prima”, quanto Epimeteo è sprovveduto e malaccorto (colui che ha l’intelligenza del dopo). Nella guerra tremenda tra Zeus e i titani, finita con la vittoria di Zeus e con la cacciata dei titani negli inferi, Prometeo, avendo previsto l’esito del conflitto, non vi prese parte e si salvò. Prometeo, quindi, non prende posizione contro Zeus, anzi lo consiglia; ha con lui, che conosce le leggi della natura e ha il compito di farle rispettare, fin dal principio, un rapporto ambiguo. Questo è l’antefatto del mito.
Se prendiamo ora in esame le versioni del mito di Prometeo che ci sono state tramandate dalla Grecia antica, i racconti di Esiodo, di Eschilo, di Sofocle e di Platone, ci rendiamo conto che i Greci, attraverso le loro narrazioni, hanno operato una profonda meditazione sull’umano e sul divino e hanno saputo immaginare e rappresentare gli scenari possibili aperti dallo sviluppo tecnologico. Hanno saputo intuirne gli effetti, pur non avendone diretta esperienza.
Narra Esiodo, nella Teogonia, che gli uomini, all’inizio, vivevano insieme agli dei e potevano godere di tutti i frutti della terra senza alcuna fatica. Un giorno gli dei si riunirono, presenti gli uomini e Prometeo, per decidere la sorte del genere umano e, nell’occasione, come si usava, venne sacrificato un bue. Prometeo, quando fu il momento di stabilire quale parte dell’animale assegnare agli uomini e quale agli dei, decise di dare la parte migliore ai primi e solo un mucchio di ossa a Zeus. Preso dall’ira, il signore della folgore tolse agli uomini il fuoco, rendendo tremenda la loro vita. Tuttavia Prometeo, per la seconda volta, tentò di ingannare Zeus sottraendogli il fuoco attraverso la parte cava di una pianta. Una terribile punizione scese allora sul titano: finì incatenato a un palo, totalmente in balia di un’aquila che, durante il giorno, gli divorava il fegato (che di notte si riformava). Una tremenda punizione colpì anche il genere umano, fino ad allora totalmente maschile: Zeus ordinò a Efesto di plasmare con acqua e terra una figura dalle sembianze femminili, chiese agli dei di dotarla di ogni attrattiva e la inviò sulla terra. Pandora (dotata di tutti i doni) - così si chiamava la fanciulla - venne accolta con gioia dal fratello di Prometeo, lo sprovveduto Epimeteo, che si innamorò di lei e la sposò; ma Pandora aveva portato con sé un dono, un vaso che Zeus le aveva proibito di aprire; spinta dalla curiosità, disobbedì e dal vaso fuoriuscirono tutti i mali che da allora tormentano gli umani: malattie, vecchiaia, sofferenze, fatiche. Sul fondo del vaso rimase solo la speranza.
L’inganno e la disubbidienza conducono a esiti infausti.
Esiodo (VIII – VII secolo a. C.) vede in Prometeo soprattutto l’empio, colui che cerca di ingannare il padre degli dei. La sua tracotanza (hybris) non può che essere punita e ritorcersi contro di lui e contro gli uomini. Esiodo, però, appartiene a una generazione antica, a una società patriarcale, legata alla terra, che non può comprendere il senso del progresso umano. Per lui, prima del furto di Prometeo, il mondo era senza fatica e senza male. Dopo il furto, gli uomini dovranno lavorare duramente e lo stesso fuoco non è più il fuoco naturale, che ora solo gli dei possiedono, ma è una specie di fuoco artificiale. Prometeo, quindi, non viene assolutamente considerato, in questa interpretazione, soltanto un benefattore dell’umanità; è, anzi, soprattutto la causa della sua imperfezione e della sua sofferenza. Prometeo ed Epimeteo appaiono come due aspetti di un unico personaggio, astuto e insieme non accorto: l’astuzia non controllata finisce per ritorcersi contro di lui. La stessa speranza portata da Pandora è ciò che consente agli uomini di vivere, ma si trova nel vaso con tutti i mali: non libera dal male, consente solo di sopportarli. Esiodo considera Pandora grande rovina per i mortali perché il genere umano era, inizialmente (in una ipotetica età dell’oro), solo maschile e la nascita avveniva per volontà degli dei. Le donne non esistevano. La vera e propria mortalità degli umani, con il corollario di malattie e di vecchiaia, sarebbe apparsa soltanto dopo il furto del fuoco da parte di Prometeo, simbolo della hybris, e nelle vesti di Pandora, la splendida fanciulla portatrice di sventura. Per Esiodo, è l’unione sessuale tra l'uomo e la donna che rende i mortali veramente tali e fa sì che la vita diventi faticosa (sarà necessario lavorare per i figli e la donna), sofferta e difficile. Come se i malanni patiti dagli uomini fossero legati all’apparizione della donna e a quel vaso, da lei aperto, nel quale Zeus aveva riposto tutte le sventure possibili per l’umanità.
Assistiamo ancora, oggi, a manifestazioni di misoginia e alla nostalgia per un passato che non può tornare.
Diversa è la posizione di Eschilo, il grande tragediografo che vive ad Atene nel V secolo, in una società con competenze tecniche molto sviluppate per quei tempi. Il titano è per Eschilo, nel Prometeo incatenato, colui che soccorre l’umanità dolente, che contrasta il progetto di Zeus di eliminare la stirpe umana e di crearne una nuova. Eschilo attribuisce a Prometeo il dono del fuoco, della scrittura, della medicina e dell’arte divinatoria. Anche la scienza del numero è opera del titano, al punto che Prometeo stesso chiama questa invenzione il capolavoro della sua sapienza civilizzatrice. Con questi doni, Prometeo allevia le fatiche degli umani che prima passavano una esistenza confusa, simili a larve, e consente loro di vivere meglio. Certo non li libera, come afferma lo stesso titano, dall’incubo della morte, perché la tecnica è infinitamente più debole del destino, ma gli uomini occupati come sono nelle varie attività, non pensano più al giorno della morte.
L’eroe, incatenato a una rupe per ordine di Zeus, esalta la sua azione che ha portato beneficio agli uomini e ha permesso l’ascesa dalle tenebre alla luce del progresso e della civiltà: “Liberamente io fallai, non lo nego. Per soccorrere altrui, io stesso mi procurai tormento”. Si può liberamente e consapevolmente lottare contro il destino, sapendo però di perdere.
Anche il coro delle Oceanidi esprime una timida ammirazione per la forza creatrice di Prometeo, sebbene non possa approvare la sua azione perché la creazione titanica dell’uomo non potrà mai oltrepassare l’armonia divina e i pensieri dei mortali devono ad essa subordinarsi: “Non mai i folli desideri dei mortali vinceranno il saldo ordinamento di Zeus.” Ciò che il coro dice di sé stesso, lo spettatore sente quale esperienza sua. Zeus ha dato un ordine al cosmo, ha stabilito un equilibrio di poteri tra gli dei in modo che non nascano conflitti e ha garantito il rispetto delle leggi della natura che diventano immutabili. Chi va oltre i limiti della propria natura commette hybris e va incontro a una punizione inevitabile. L’uomo fa parte di questo ordine. Nel santuario di Apollo a Delfi erano incise due massime, fondamentali per i Greci: Conosci te stesso! e Nulla di troppo!
Sofocle, trent’anni circa dopo Eschilo, affronta, nell’Antigone, il tema del conflitto tra due concezioni opposte di legge (nomos): la legge che si basa su una origine divina della legge stessa (Antigone e il valore eterno delle leggi non scritte) e il nomos come risultato del confronto e delle decisioni prese dagli uomini all’interno della polis (Creonte). Nella città di Atene, questo era un tema particolarmente discusso a causa del successo dell’insegnamento dei sofisti, in particolare di Protagora. Famosa è la sua affermazione: “L’uomo è la misura di tutte le cose, di quelle che sono in quanto sono, di quelle che non sono in quanto non sono.” Una presa d’atto che porta alla costruzione di un mondo che ha al centro l’uomo, la sua capacità di redigere leggi giuste, anche se sempre relative. In Protagora c’è una grande fiducia nell’essere umano, nelle sue potenzialità.
Nella tragedia, il coro, a commento del discorso di Creonte fondato sull’importanza della dimensione politica, esalta l’intraprendenza umana, quell’inquietudine che porta a superare ostacoli, a navigare nel mare in tempesta, a imporre la propria volontà alla natura, ad addomesticare gli animali, a edificare città, a dare in definitiva un ordine al mondo che lo circonda. Il coro, però, non si limita a questo. Aggiunge: l’uomo “ora al bene ora al male s’incammina.” Senza norme superiori e soprattutto senza la consapevolezza della fragilità e della provvisorietà della propria natura mortale, la giustizia umana può diventare arbitrio e dominio.
Con il dono della sapienza tecnica l’uomo, secondo Sofocle, diventa il più terribile degli esseri. La tendenza della tecnica è quella di superare ogni limite, questa tendenza è strutturale e non basta la scienza politica a governarla. Ecco allora la natura tragica della téchne e della stessa condizione dei mortali: senza la tecnica l’uomo non può sopravvivere, con essa diventa terribile.
La versione platonica del mito contenuto nel Protagora è di grande interesse. C’erano una volta gli dei, ma non le specie mortali. Quando venne per loro il tempo di nascere, gli dei ne modellarono le forme e affidarono a Prometeo ed Epimeteo il compito di fornirle di qualità sufficienti per la sopravvivenza. Se ne occupò Epimeteo che le distribuì tra tutti gli animali in modo che ogni specie avesse o la forza o la velocità o un’altra qualità adatta alla salvezza, ma si dimenticò dell’uomo che rimase senza alcuna qualità, debole e inerme. Intervenne Prometeo che decise di rubare ad Efesto e ad Atena l’abilità tecnica e il fuoco e di farne dono agli umani. Le capacità artigianali acquisite consentivano all’uomo di sopravvivere, ma non di vivere insieme e di difendersi dalle bestie feroci. Non appena si radunavano iniziavano a maltrattarsi l’un l’altro e così tornavano a disperdersi e a rischiare di morire E allora Zeus decise di donare agli uomini, attraverso Ermes, la scienza politica cioè senso del rispetto (aidos) e senso della giustizia (dike). Qualità da distribuire non come le capacità tecniche, perché in ogni comunità è necessario un numero limitato di medici, di agricoltori, di mercanti etc., mentre tutti gli uomini devono possedere quelle qualità che creano legami, fratellanza, quindi comunità. “Chi non ha senso del rispetto e della giustizia lo si mandi a morte perché è come una peste per lo Stato”.
Platone sottolinea l’importanza del fuoco che è il simbolo della sapienza tecnica (éntechnos sophia: saper fare, coniugare intelligenza e abilità pratica). Essa rende possibile a esseri prima deboli e inetti procurarsi il cibo, avere una casa, curarsi, ma rende gli uomini anche interdipendenti. Ogni arte, téchne, ne presuppone altre. Ma gli uomini sono ancora carenti e allora Zeus, che non vuole la completa distruzione del genere umano, dona, attraverso Ermes, la scienza politica, che, sola, può garantire l’armonia tra le arti. Infatti, il sistema delle tecniche, animate soprattutto dalla volontà di raggiungere un fine particolare, non può produrre una pacifica convivenza. Solo all’interno della polis gli interessi individuali possono lasciare il posto a regole comuni. Attraverso la scienza politica, la tecnica può essere governata e controllata secondo giustizia e nel rispetto della physis, dei limiti della natura. La scienza politica a cui si riferisce il Protagora di Platone non è il possesso di valori definiti una volta per tutte, come in Esiodo, ma è la predisposizione tipica degli umani (nel mito, concessa da Zeus), alla condivisione e alla collaborazione per sviluppare le proprie potenzialità e realizzare il bene comune.
Oggi, in una fase in cui l’individuo è al centro della scena e i legami sono deboli, assistiamo alla crisi della politica e alla sua dipendenza dall’economia e dalla finanza, un processo che sembra irreversibile. Inoltre pochi uomini, con una ricchezza paragonabile a quella del bilancio di uno Stato, detengono un potere smisurato che consente loro di manipolare le informazioni e di indirizzare lo stesso sviluppo tecnologico in direzioni che non vanno certo verso la realizzazione del bene comune cioè del rispetto e della giustizia.
Occorrono profondità di pensiero, immaginazione e un forte sentire per produrre visioni ‘altre’ e ri-svegliare i dormienti.