Credo che in un sito web che si chiama “Stultifera Navis” non potesse mancare una sezione dedicata alla Poesia.
AGOSTO
Di giorno, volto il mio sguardo a terra
a cercare il prezioso micelio,
i miei occhi diventano radarici
e l’anima annulla il tempo maligno.
Di sera, levato lo sguardo al cielo,
le mie luci si distendono, si aprono
e l’anima accoglie il mistero cosmico
del concavo infinito stellato.
Tratto da: Vinicio Bernardi, Cammin facendo. Poesie, Pietro Macchione Editore, Varese 2022, p. 78
I poeti sono per Martin Heidegger “i più arrischianti”, coloro che indagano e spesso oltrepassano quella sottile linea di confine tra sanità e pazzia, tra ratio e inconscio, tra mondo reale e mondi immaginari. Secondo Umberto Galimberti i poeti sono dentro la propria follia, la abitano e ci fanno i conti, la esprimono senza timore, a differenza dell’uomo comune che è abitato dalla propria follia senza conoscerla e anzi ignorandola o rimuovendola. Per questo per Galimberti i poeti vanno ascoltati e per questo un segno di rinascita e di svolta nella nostra società “malata” può venire da loro.
Questa mia poesia si intitola “Agosto” perché quello è il mese in cui iniziano le mie scorribande nei boschi a caccia di funghi, mentre di sera il cielo stellato offre uno spettacolo superbo, soprattutto durante le notti di San Lorenzo. Ma la poesia avrebbe potuto anche intitolarsi “E terra e cielo…” perché il vero tema della poesia è il mondo come lo abita – o lo dovrebbe abitare – l’essere umano, che si distende, che si apre appunto tra terra e cielo alla sua comprensione e alla sua interpretazione.
Vi è una perfetta simmetria tra la prima e la seconda strofa, tra terra e cielo, sia in termini metrici (due quartine di endecasillabi), sia dell’approccio umano: gli elementi che ritornano sono gli stessi e nello stesso ordine: lo sguardo, gli occhi, l’anima (o mente). Di giorno l’uomo è chiamato alla sua dimensione operativa, pratica (nella poesia quella del raccoglitore-cercatore, che in realtà sta svolgendo più un’attività ludica che lavorativa, che ci rimanda agli uomini primitivi raccoglitori), di sera l’uomo invece sospende ogni azione pratica e leva il suo sguardo ammirato e contemplante al cielo (anche qui con un rinvio a quella meraviglia che colpiva gli uomini delle antiche civiltà). Quel “cielo” è ovviamente carico di valenze simboliche: l’apparizione del divino, l’annuncio di un paradiso, lo stupore e la meraviglia verso i “signa” da interpretare come messaggi destinati all’uomo, la ricerca del senso del proprio essere collocato proprio lì, al centro di questa “grande casa”, come la vedevano le civiltà dei Caldei e degli antichi Egizi.
Nella prima strofa la ricerca del fungo preferito (il porcino) è talmente concentrata, talmente mirata (occhi che diventano radar) da far perdere al cercatore-raccoglitore la dimensione del tempo (l’anima annulla il tempo maligno), come il gioco dei bambini, ma anche come il lavoro che piace e si fa per passione. Ma quanti oggi, nella nostra società, lavorano per passione e con passione, quanti amano così tanto il proprio lavoro da perdervi la nozione del tempo?
Nella seconda strofa vi è il richiamo ad un’altra dimensione essenziale dell’essere umano: quella contemplativa, slegata da ogni utilità pratica e da interessi materiali, volta unicamente ad ammirare in modo estatico il cielo stellato e ad interrogarlo e a interrogarsi. La sottolineatura è posta sul senso della vista: gli occhi levati al cielo “si distendono, si aprono”: è in questa apertura che si esprime la natura umana e divina dell’uomo, il suo essere nel mondo unico e irripetibile. Dimensione che l’uomo sta perdendo, tutto reclinato su se stesso e sullo schermo del proprio smartphone, sui piccoli affanni quotidiani e sulla conquista di un benessere materiale sempre più sfuggente. Dimensione, quella contemplativa, che cozza sempre di più con l’affermazione della ratio occidentale e della techne, che ne è la diretta conseguenza, e che ci hanno costruito un nuovo mondo da abitare, nel quale come esseri umani ci sentiamo sempre più costretti e ingabbiati e incapaci di pensare un mondo diverso.