Chi ha trascorso anni dentro i sistemi organizzativi — nei reparti IT, nelle operation, nei programmi di trasformazione digitale — conosce bene la frizione costante tra ciò che viene disegnato e ciò che realmente accade. I processi aziendali non sono sequenze ordinate di azioni, ma strutture adattive, soggette a scarti, reinserzioni, cicli non previsti. La mappa, come sempre, non è il territorio.
Per lungo tempo abbiamo cercato di colmare questa distanza con la modellazione prescrittiva: disegni, diagrammi, manuali operativi, cruscotti KPI. Ma il tempo reale, la varietà dei contesti, la densità delle interazioni ci hanno spinto oltre. Oggi, con il process mining — e in particolare con l’approccio object-centric — possiamo finalmente osservare il processo nel suo evolvere, non nel racconto a posteriori.
Siamo stati abituati per decenni a pensare al software come codice, ai processi come formule da ottimizzare, alle azioni come comandi. Ma la mente umana — per struttura evolutiva — non si orienta nel codice, bensì nella rappresentazione.
La mente umana disegna, riconosce, traccia, astrae.
Non a caso, i primi strumenti di calcolo sono stati tavole, regoli, disegni su pietra. L’informazione si incideva. In fondo ogni cruscotto, ogni modello, ogni logica di processo altro non è che un tentativo di restituire forma a ciò che accade.
La process intelligence nasce così: non come metodologia di controllo, ma come grammatica visuale della realtà operativa. Consente di attraversare l’organizzazione con lo sguardo di chi vuole comprendere prima di automatizzare, distinguere prima di ottimizzare.
"Process Mining: Data Science in Action" di Wil van der Aalst, è considerato a livello internazionale il testo fondativo della disciplina. L’autore, pioniere riconosciuto del settore, costruisce un impianto rigoroso che unisce teoria dei processi, analisi dati e casi applicativi reali, offrendo una cassetta degli attrezzi completa — per chi vuole non solo usare gli strumenti, ma comprendere il senso profondo delle trasformazioni che essi abilitano.
Quindi dati non per misurare, ma per vedere (per rappresentare).
Nel mio lavoro ho assistito a innumerevoli tentativi di automazione prematura: si implementano workflow rigidi su processi che non si sono mai compresi davvero. Si misurano tempi di ciclo ignorando le deviazioni sistemiche. Si disegna l’eccezione come “errore”, invece di riconoscerla come indizio strutturale. Il process mining inverte la direzione dell’analisi: parte dagli eventi registrati, dai tracciati lasciati dai sistemi, e ne ricostruisce — in modo visuale — la logica emergente. Non si cerca più il rispetto di un modello, ma la forma reale che un processo ha assunto. Non si tratta di una verifica, ma di un’indagine.
Automatizzare un processo significa, in ultima analisi, fissarne la struttura in una macchina. Per questo serve cautela. La vera domanda non è come lo automatizzo, ma è opportuno automatizzarlo così com’è?
Una dashboard ben costruita può aiutare a decidere quanto velocemente fare qualcosa.
Ma solo una rappresentazione dinamica del processo ti mostra che cosa si sta davvero facendo, con chi, quando, e con quali conseguenze. La process intelligence è come un atlante: non indica solo la direzione, ma mostra il rilievo del terreno, le biforcazioni, le anomalie. Non impone, ma rende evidente.
La vera sfida oggi non è automatizzare ogni cosa. È sapere cosa stiamo facendo davvero, mentre lo facciamo. E questo sapere non nasce dal codice né dalla governance formale: scaturisce dalla possibilità di vedere le forme dell’azione nel tempo, di confrontare l’intenzione con la manifestazione, la regola con il comportamento.