Vi siete mai chiesti perché i destini delle aziende sono così fortemente legati all’immagine del loro CEO? Il CEO è il front-man dell’azienda, quello che ci mette la faccia, quello che prende le decisioni, quello che stabilisce le strategie che possono determinare il successo dell’azienda stessa. Il CEO è il padre-padrone dell’azienda, colui che la guida e che detiene il potere assoluto di gestire l’organizzazione, le risorse umane, materiali ed economiche. Se ci pensate bene, una cosa simile succede anche in politica: ogni partito ha il suo leader e il nome del leader è saldamente associato a quello del partito, nel simbolo, nella comunicazione, nella competizione. Il leader politico è l’essenza stessa del partito.
Questo è il risultato di una visione antropocentrica dell’universo che è sempre esistita nella natura umana, ma che negli ultimi cinquanta anni ha assunto una rilevanza decisamente esagerata. Si tende a personalizzare tutto, ad affermare il ruolo primario e indiscusso del leader, del trascinatore di folle, dell’influencer con milioni di follower. E gli si attribuiscono poteri quasi taumaturgici e capacità mirabolanti. I social network, inizialmente nati per condividere opinioni e per favorire il senso di comunità si sono invece trasformati in veicoli dell’individualismo sfrenato in cui ognuno manifesta la propria presunta verità, ricerca consenso, non ascolta i punti di vista altrui, polarizza ed estremizza le posizioni.
Così succede che quando il CEO di un’azienda non ottiene più i risultati attesi dagli azionisti lo si licenzia ma lo si sostituisce con un altro possibilmente più megalomane; quando il partito perde consensi ed elezioni il suo leader viene rimosso e al suo posto ne arriva un altro pronto a risollevare con la sua immagine le sorti politiche della fazione; quando l’influencer di grido cade in disgrazia viene immediatamente scaricato dal popolo della rete che sposta il suo sostegno sull’astro nascente di turno, pronto a guadagnarsi la ribalta mediatica. Così facendo però l’umanità abdica al senso di comunità e si rinchiude in un piccolo mondo perdendo il senso della realtà e la capacità di dialogo, relegando all’oblio la cultura del passato e andando inconsapevolmente verso un futuro di ignoranza, privo di pensiero originale.
Abbandonare la visione antropocentrica a favore di un approccio più ecosistemico non è facile perché significa rinunciare al culto del personalismo sostituendolo con quello dello scopo e del servizio. Il CEO di successo dovrebbe essere quello capace di fare squadra con gli stakeholders e di soddisfarne le aspettative, non solo economiche; il leader politico vincente dovrebbe essere quello capace di immedesimarsi nei veri problemi quotidiani degli elettori e di costruire delle soluzioni adeguate per risolverli; l’influencer più seguito dovrebbe essere quello capace di dialogare con i sui fan e di usare la tecnologia per divulgare scienza e cultura contrastando attivamente l’attuale livello di ignoranza funzionale.
Il servant leader non ha un nome e cognome, vuole essere anonimo perché snobba il protagonismo. Il servant leader lavora sottotraccia per promuovere, facilitare e nobilitare il ruolo del team. Il servant leader è trasparente e rende conto del suo operato con i risultati, non solo economici ma anche umani, raggiunti. Si è mai visto un leader politico redigere un rapporto di fine mandato indirizzato ai suoi elettori? Se lo si pretende da un CEO, dovremmo pretenderlo anche da chi ci amministra. E quando lavoriamo, postiamo sui social o andiamo a votare, dovremmo ricordarci di decidere se vogliamo restare nel nostro piccolo mondo antroprocentrico oppure alzare lo sguardo verso orizzonti più alti.
L’umanità sembra avere abdicato al senso di comunità rinchiudendosi in un piccolo mondo, perdendo il senso della realtà e la capacità di dialogo.