L’essere umano è caratterizzato dalla sua essenziale e inevitabile corporeità, dall’essere situato in un contesto specifico e dall’essere vulnerabile. Accettare queste nostre caratteristiche, accettare noi stessi, significa farsi carico anche dell’apertura che comporta l’essere relazionali, vulnerabili al mondo e al fluire del tempo.
Tutti sembrano concordare sul fatto che viviamo tempi interessanti, complessi e ricchi di cambiamenti. Molti associano il cambiamento alla tecnologia. Pochi riflettono su quanto in profondità la tecnologia stia trasformando il mondo, la realtà oggettiva e fattuale delle persone, nelle loro vesti di consumatori, cittadini ed elettori. Sulla velocità di fuga e volontà di potenza della tecnologia e sulla sua continua evoluzione, negli ultimi anni sono stati scritti numerosi libri che propongono nuovi strumenti concettuali e cognitivi per conoscere meglio la tecnologia e/o suggeriscono una riflessione critica utile per un utilizzo diverso e più consapevole della tecnologia e per comprenderne meglio i suoi effetti sull'evoluzione futura del genere umano. In questo articolo proponiamo l’intervista che Carlo Mazzucchelli ha condotto con Valeria Bizzari Postdoctoral Researcher presso Husserl Archives Leuven, Katholieke University
Buongiorno, può raccontarci qualcosa di lei, della sua attività attuale, del suo interesse per le nuove tecnologie e per una riflessione sull'era tecnologica e dell'informazione che viviamo?
Sono una filosofa, di vocazione e di mestiere!
Credo che chi studia filosofia capisca cosa intendo: intraprendere un percorso di questo tipo è qualcosa che modella anche la tua identità. Quello che sto cercando di fare con la mia ricerca è costruire ponti tra la filosofia e altre discipline: in particolare, mi occupo di psicopatologia fenomenologica.
Ho lavorato per tre anni presso il Dipartimento di Psichiatria dell’Università di Heidelberg, un’esperienza dalla quale ho imparato moltissimo. Il centro di ricerca di Heidelberg si trova proprio all’interno di una clinica psichiatrica, e il contatto con i pazienti, vedere come la filosofia (nel mio caso, la fenomenologia) possa offrire strumenti utili a comprendere l’altro anche e soprattutto nella sua vulnerabilità, è qualcosa di davvero impagabile. Mi sono specializzata nello studio dell’autismo (ai congressi mi chiamavano “Lady Autism” a un certo punto!) e ho elaborato un’intervista qualitativa che in Germania stanno usando da qualche mese. Adesso lavoro agli Archivi Husserl di Lovanio, un ambiente diverso ma altrettanto stimolante: qui ho anche la possibilità di insegnare ed è davvero rincuorante, in tempi difficili come quelli che stiamo vivendo, vedere che i giovani hanno ancora voglia di pensare!
Una delle mie aree di interesse riguarda il concetto di Leib, ovvero “corpo vivo”, corpo intrecciato alla psiche. Ecco: per questo direi che il mio rapporto con la tecnologia non è dei migliori. Sono (ancora) un pò diffidente, e mi fanno paura le teorie “post” o “trans” umaniste che vedono nell’avanzamento tecnologico il prossimo step ontologico dell’umano. Credo che sia necessario, ovviamente, adeguarsi ai cambiamenti e sfruttare al meglio le potenzialità che la tecnologica ci offre, senza dimenticarci però di difendere e valorizzare ciò che ci rende umani, ovvero la nostra finitudine, il nostro essere emotivi, il nostro essere corpi desideranti.
Secondo il filosofo pop del momento, Slavoj Žižek, viviamo tempi alla fine dei tempi. Quella del filosofo sloveno è una riflessione sulla società e sull'economia del terzo millennio ma può essere estesa anche alla tecnologia e alla sua volontà di potenza (il technium di Kevin Kelly nel suo libro Cosa vuole la tecnologia) che stanno trasformando il mondo, l'uomo, la percezione della realtà e l'evoluzione futura del genere umano. La trasformazione in atto obbliga tutti a riflettere sul fenomeno della pervasività e dell'uso diffuso di strumenti tecnologici ma anche sugli effetti della tecnologia. Qual è la sua visione attuale dell'era tecnologica che viviamo e che tipo di riflessione dovrebbe essere fatta, da parte dei filosofi e degli scienziati ma anche delle singole persone?
Riguardo ai “pericoli” dell’utilizzo della tecnologia ho condotto degli studi specifici. In particolare, durante e dopo la pandemia (che in effetti è ancora in corso, ma ci siamo capiti!) ho intervistato una trentina di psicoterapeuti (di varie scuole) e pazienti che, a causa dei vari lockdown, avevano spostato il setting terapeutico online.
Ebbene, le risposte sono state abbastanza univoche: impossibile fare una diagnosi; difficile concentrarsi; difficoltà, da parte dei pazienti, di giovare dell’ora di psicoterapia come di qualcosa di rituale, distaccato dalla routine che nell’incontro nello studio si interrompe. Soprattutto, la qualità del rapporto terapeutico (componente fondamentale del processo di cura) è risultata compromessa.
La mancanza della risonanza tra corpi ha l’effetto di ostacolare quella una componente fondamentale di qualsiasi tipo di incontro: una fiducia incarnata.
La mia ipotesi a proposito è che la mancanza della risonanza tra corpi abbia l’effetto di ostacolare quella che per me è una componente fondamentale di qualsiasi tipo di incontro: una fiducia incarnata che il mezzo tecnologico, per quanto raffinato esso sia, non potrà mai offrirci.
"Diogene […] obiettò una volta che gli si facevano le lodi di un filosofo: “Che cosa mai ha da mostrare di grande, se da tanto tempo pratica la filosofia e non ha ancora turbato nessuno?” Proprio così bisognerebbe scrivere sulla tomba della filosofia della università: “Non ha mai turbato nessuno” (F. Nietzsche, Considerazioni inattuali III. Schopenhauer come educatore, tr. it. di M. Montinari, in F. Nietzsche, Opere, vol. III, tomo I, Adelphi, pag. 457)."
La digitalizzazione della socialità, per esempio, per mezzo dei social networks (che orgogliosamente io non possiedo, anche se -pure- la mia gatta ha una pagina Instagram!) ha sicuramente agevolato molti scambi, come ad esempio quello che stiamo avendo adesso, e ridotto le distanze. Tuttavia, in quanto “corpi vivi” non dobbiamo dimenticarci la bellezza e l’importanza dell’incontro reale. Come filosofi e come individui, penso sia bene non perdere di vista l’ancoraggio alla realtà che la nostra finitudine ci offre: Thomas Fuchs ha scritto un libro molto bello a proposito, intitolato (traduco) “In Difesa dell’Essere Umano”, laddove l’essere umano è appunto caratterizzato dalla sua essenziale e inevitabile corporeità, dall’essere situato in un contesto specifico e dall’essere vulnerabile.
Accettare queste nostre caratteristiche, accettare noi stessi, significa farsi carico anche dell’apertura che comporta l’essere relazionali, vulnerabili al mondo e al fluire del tempo. Per descrivere questa condizione, Husserl usa una parola che io trovo poetica: Lebensendlichkeit, ovvero “finitezza della vita”, ad indicare appunto la strutturale labilità che ci connota. Da una prospettiva culturale, essere consapevoli della propria finitudine, vulnerabilità e appartenenza a un divenire temporale ci permette di relazionarci ad altri soggetti non-contemporanei, di riconoscerci in essi e nelle opere che ci hanno lasciato, in altre parole di provare empatia anche verso chi non è presente ma è stato comunque sottoposto a un’esistenza simile alla nostra.
Secondo, invece, una prospettiva esistenziale, Husserl riconosce che, nonostante tutto, nonostante e forse in virtù della sua vulnerabilità, il soggetto agisce: “A dispetto di tutto io agisco, non mi lascio paralizzare. Mi lascio alle spalle il caso (Zufall) e il fato (Schicksal), la morte, la malattia e il possibile venir meno delle mie forze: mi decido sulla base del miglior sapere, della coscienza e della possibilità.” . In altre parole, riconoscendo la mia finitudine, riesco a diventare me stesso.
Miliardi di persone sono oggi dotate di smartphone usati come protesi tecnologiche, di display magnetici capaci di restringere la visuale dell'occhio umano rendendola falsamente aumentata, di applicazioni in grado di regalare esperienze virtuali e parallele di tipo digitale. In questa realtà ciò che manca è una riflessione su quanto la tecnologia stia cambiando la vita delle persone (High Tech High Touch di Naisbitt) ma soprattutto su quali siano gli effetti e quali possano esserne le conseguenze. Il primo effetto è che stanno cambiando i concetti stessi con cui analizziamo e cerchiamo di comprendere la realtà. La tecnologia non è più neutrale, sta riscrivendo il mondo intero e il cervello stesso delle persone. Lo sta facendo attraverso il potere dei produttori tecnologici e la tacita complicità degli utenti/consumatori. Come stanno cambiando secondo lei i concetti che usiamo per interagire e comprendere la realtà tecnologica? Ritiene anche lei che la tecnologia non sia più neutrale?
Penso sia difficile che una cosa, una volta entrata in contatto con l’uomo, possa rimanere neutrale. E’ vero, pare che la tecnologia stia “modellando” il nostro modo di pensare, aggiungerei anche il nostro modo di desiderare.
Sembra che il desiderio non sia più rivolto ad un oggetto, ma a una merce, e questo processo di mercificazione coinvolge anche il desiderio dell’Altro, che viene obiettificato e snaturato a sua volta.
Come nota Byung-chul Han in Le non cose (2022), “L’indice che impazza sul cellulare rende consumabile ogni cosa. L’indice che ordina merci o cibo trasferisce giocoforza il proprio habitus consumistico in altri ambiti. Tutto ciò che tocca assume la forma di una merce. Nel caso di Tinder, si degrada l’Altro a oggetto sessuale. Depredato della propria alterità, anche l’Altro diventa consumabile.” (Byung-chul Han, Le non cose, Einaudi 2022, 45).
Anche la comunicazione è cambiata. In quello che Han chiama “capitalismo dell’informazione”, le notizie stesse sono diventate fruibili in modo immediato: non esiste quasi più l’oggetto “giornale”, ma possiamo accedere in qualsiasi momento a qualsiasi fonte vogliamo, grazie a e-books, tablet e smartphones:
“Il capitalismo delle informazioni rappresenta una forma acuita di capitalismo. Al contrario del capitalismo industriale, esso trasforma in merce l’immateriale. Anche la vita assume i contorni di una merce. Tutte le relazioni umane vengono commercializzate. I social media sfruttano interamente la comunicazione. Piattaforme come Airbnb commercializzano l’ospitalità. Il capitalismo delle informazioni conquista ogni angolo della nostra vita, della nostra anima. Le inclinazioni umane vengono sostituite da giudizi e like. Sono soprattutto gli amici a essere contati, e la cultura stessa diventa merce dall’inizio alla fine.” ( Byung-chul Han. Le non cose, Einaudi 2022, p. 39).
Non siamo più capaci di discernere cosa ci serve e cosa no.
Viene dunque da chiedersi: nella società di massa, chi consuma sceglie davvero? L’iperstimolazione continua alla quale siamo sottoposti ci mette di fronte un’ offerta molto più grande di quanto noi saremo in grado di usare in una vita intera. E questo ovviamente crea squilibrio: non siamo più capaci di discernere cosa ci serve e cosa no. Il desiderio, che prima aveva una funzione creatrice e aiutava a definire la nostra essenza, ora è diretto verso tutto, e questo non crea, ma confonde.
Possiamo davvero tutto? Possiamo desiderare tutto? La società di oggi sembra dirci di sì: Youtube e Instagram pullulano di video che ci mostrano come diventare “that girl” (ovvero la ragazza perfetta, sportiva, sana, con una routine impeccabile e soprattutto desiderabile), e la filosofia del self-empowerment dilaga. Il paradosso sta però nel fatto che ci viene spiegato cosa fare per essere al meglio di noi stessi, ci viene spiegato cosa desiderare…Al contrario, è necessario ricordare che il desiderio non è solo centrifugo, non viene solo dall’esterno: è qualcosa che nasce dentro di noi.
Il capitalismo si nutre dunque di quella forma di desiderio che Lacan aveva chiamato “desiderio d’altro”, un’espressione nichilista del desiderio costantemente rivolta verso il nuovo e che ci rende perennemente insoddisfatti, alla ricerca dell’oggetto migliore, del modello all’avanguardia, che verrà inesorabilmente sostituito da un altro oggetto, da un altro modello.
Secondo il filosofo francese Alain Badiou ciò che interessa il filosofo non è tanto quel che è (chi siamo!) ma quel che viene. Con lo sguardo rivolto alla tecnologia e alla sua evoluzione, quali sono secondo lei i possibili scenari futuri che stanno emergendo e quale immagine del mondo futuro che verrà ci stanno anticipando?
La mia preoccupazione principale è che affidarsi così tanto alla tecnologica porti a una depersonalizzazione.
Da un punto di vista scientifico, questo è già successo, in parte, durante i lockdown: uno studio condotto dal team del neuroscienziato Vittorio Gallese ha appunto messo in luce quanto la comunicazione digitale (come ipotizzo anche nel mio lavoro sulla psicoterapia online) abbia indotto in molte persone un’esperienza di irrealtà e distacco dalla propria identità, e di conseguenza dalle proprie emozioni e dal proprio corpo.
L’angoscia relativa a una deriva di questo tipo si amplifica se pensiamo alle nuove generazioni, il cui modo di interagire e comunicare è per la maggior parte mediato dal device tecnologico. Non a caso ci sono crescenti casi di “hikikomori”, ragazzi che non escono dalla propria stanza e le cui interazioni avvengono per mezzo di piattaforme e giochi online.
Usando un lessico fenomenologico (mi si perdoni la deformazione professionale!) affidarsi a questo tipo di comunicazione può soltanto, nella migliore delle ipotesi, sollecitare emozioni e atti intenzionali di tipo “group-based”, che di solito fanno capo a regole specifiche e a una visione distributiva del soggetto “noi”. Questo va benissimo per i giochi di ruolo, anche per portare a termine alcuni compiti lavorativi, ma dove va a finire l’emozione? Dove va a finire la risonanza, l’intenzionalità collettiva, il sentirsi parte di un “noi” in modo immediato e intuitivo, senza aver bisogno di regole o fini comuni?
Secondo alcuni, tecnofobi, tecno-pessimisti e tecno-luddisti, il futuro della tecnologia sarà distopico, dominato dalle macchine, dalla singolarità di Kurzweil (la via di fuga della tecnologia) e da un Matrix nel quale saranno introvabili persino le pillole rosse che hanno permesso a Neo di prendere coscienza della realtà artificiale nella quale era imprigionato. Per altri, tecnofili, tecno-entusiasti e tecno-maniaci, il futuro sarà ricco di opportunità e nuove utopie/etopie. A quali di queste categorie pensa di appartenere e qual è la sua visione del futuro tecnologico che ci aspetta? E se la posizione da assumere fosse semplicemente quelle tecno-critica o tecno-cinica? E se a contare davvero fosse solo una maggiore consapevolezza diffusa nell'utilizzo della tecnologia?
Sicuramente non sono ottimista, però mi pongo nella categoria di mezzo.
La consapevolezza e una buona dote di ragion critica salveranno il mondo dalla depersonalizzazione delle macchine!
Mentre l'attenzione dei media e dei consumatori è tutta mirata alle meraviglie tecnologiche di prodotti tecnologici diventati protesi operative e cognitive per la nostra interazione con molteplici realtà parallele nelle quali viviamo, sfugge ai più la pervasività della tecnologia, nelle sue componenti nascoste e invisibili. Poca attenzione è dedicata all'uso di soluzioni di Cloud Computing e ancora meno di Big Data nei quali vengono archiviati miliardi di dati personali. In particolare sfugge quasi a tutti che il software sta dominando il mondo e determinando una rivoluzione paragonabile a quella dell'alfabeto, della scrittura, della stampa e di Internet. Questa rivoluzione è sotterranea, continua, invisibile, intelligente, Fatta di componenti software miniaturizzati, agili e leggeri capaci di apprendere, di interagire, di integrarsi e di adattarsi come se fossero neuroni in cerca di nuove sinapsi. Questa rivoluzione sta cambiando le vite di tutti ma anche la loro percezione della realtà, la loro mente e il loro inconscio. Modificati come siamo dalla tecnologia, non ci rendiamo conto di avere indossato delle lenti con cui interpretiamo il mondo e interagiamo con esso. Lei cosa ne pensa?
Facciamo parte di un ingranaggio enorme. Credo che per affrontare la questione a tale livello, la consapevolezza della quale parlavamo prima debba fare un passaggio: da consapevolezza individuale a consapevolezza collettiva. Essere consapevoli e cercare insieme di tutelare i diritti di tutti è sicuramente una priorità.
Se il software è al comando, chi lo produce e gestisce lo è ancora di più. Questo software, nella forma di applicazioni, è oggi sempre più nelle mani di quelli che Eugeny Morozov chiama i Signori del silicio (la banda dei quattro: Google, Fcebook, Amazon e Apple). E' un controllo che pone il problema della privacy e della riservatezza dei dati ma anche quello della complicità conformistica e acritica degli utenti/consumatori nel soddisfare la bulimia del software e di chi lo gestisce. Grazie ai suoi algoritmi e pervasività, il software, ma anche la tecnologia in generale, pone numerosi problemi, tutti interessanti per una una riflessione filosofica ma anche politica e umanistica, quali la libertà individuale (non solo di scelta), la democrazia, l'identità, ecc. (si potrebbe citare a questo proposito La Boétie e il suo testo Il Discorso sulla servitù volontaria). Lei cosa ne pensa?
La causalità di tipo circolare per mezzo della quale siamo influenzati dal contesto e dall’ambiente in cui viviamo, al punto che la nostra identità viene modellata sia in senso centripeto che centrifugo, è un dato di fatto che forse prescinde dalla tecnologia.
Certo, viviamo nell’epoca della téchne, e il risultato di una comunicazione mediata dallo schermo e dai social networks (dove peraltro l’identità ce la possiamo pure inventare facilmente) e di una predominanza di quelle che appunto Han chiama “non cose”, può avere effetti pericolosi. Siamo paradossalmente molto liberi, ma in un certo senso non lo siamo affatto. Soprattutto, attraverso la tecnologia ci viene più facilmente imposta un’immagine alla quale sentiamo di doverci omologare, perdendo di vista la nostra individualità, con le sue debolezze ma anche le sue peculiarità.
Una cosa che mi ha lasciata perplessa è, ad esempio, la definizione di “benessere” dell’Organizzazione Mondiale della Sanità: “uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, e non la mera assenza di malattia o infermità” . Una simile descrizione favorisce un paradigma positivo di salute volto a oltrepassare quelli che vengono considerati i limiti dell’umana finitudine, ovvero situazioni che implicano la sofferenza, la malattia, e il riconoscimento della nostra mortalità. Di conseguenza, sembra che il benessere non contempli affatto la vulnerabilità, anzi la consideri qualcosa della quale è necessario liberarsi, un ostacolo che ci impedirebbe di vivere a pieno le nostre vite, di sfruttare le nostre capacità. Secondo questa descrizione, “stare bene” non è un modo individuale di rapportarsi a se stessi, agli altri e al mondo, ma uno standard perlopiù definito da norme statistiche. Ma stare bene non può essere sinonimo di una ricerca costante della perfezione.
Riconoscere la liminalità dell’esperienza e la vulnerabilità come strutturali all’ontologia umana ci permette invece di abbracciare il nostro vero essere e vivere con maggiore consapevolezza. Tuttavia, mai quanto oggi risulta quasi impossibile evitare di riconoscere la nostra labilità. Negli ultimi anni, come osservava Elias ne “La solitudine del morente” (1985), le società avanzate, complice l’allungarsi dell’età media e l’avanzamento della medicina e della tecnologia, hanno iniziato a considerare la morte come qualcosa di lontano, il momento conclusivo di un processo molto lungo. La vulnerabilità è diventata quasi un tabù, complice un elevato livello di individualizzazione.
Negli ultimi due anni e mezzo, però, la pandemia ci ha messi di fronte alla nostra stessa fragilità: la morte è diventata qualcosa di pubblico, e la vulnerabilità qualcosa che accomuna tutti e ci rende co-dipendenti. Modificare la definizione di benessere risulta quantomai necessario, non solo per accettare la liminalità come qualcosa che ci costituisce e ci avvicina agli altri, ma anche per oltrepassare lo stigma che troppo spesso accompagna coloro che sono maggiormente vulnerabili di altri. Per questo, la vulnerabilità dovrebbe essere inclusa nella definizione di umanità ed usata nel contesto del benessere, che, come abbiamo visto, esclude ogni riferimento alla fragilità umana.
Enfatizzo sempre il ruolo della vulnerabilità, che a mio avviso è centrale e comprende vari livelli dell’esistenza: ontologico, in quanto essenza del nostro essere; strutturale, poichè influenza costantemente la nostra vita; morale, poichè può guidare un paradigma etico il cui focus sia la cura (di sè e dell’altro) e non il conseguimento della perfezione. Porre al centro della riflessione la vulnerabilità implica considerare anche la malattia come qualcosa che potrebbe accadere a tutti, significa prendere atto della nostra essenziale e strutturale fragilità, immergersi in un’analisi della persona in quanto tale, e dei continui sforzi che essa deve fare nell’interfacciarsi con gli altri e con il mondo. Significa farsi carico di una condizione umana radicale (quella che Husserl descriveva, appunto, come Lebensendlichkeit), di fronte alla quale si dispiega il significato stesso dell’esistenza, foriera di valori, di luci e di ombre, di risonanze e vuoti.
Una delle studiose più attente al fenomeno della tecnologia è Sherry Turkle. Nei suoi libri Insieme ma soli e nell'ultimo La conversazione necessaria, la Turkle ha analizzato il fenomeno dei social network arrivando alla conclusione che, avendo sacrificato la conversazione umana alle tecnologie digitali, il dialogo stia perdendo la sua forza e si stia perdendo la capacità di sopportare solitudine e inquietudini ma anche di concentrarsi, riflettere e operare per il proprio benessere psichico e cognitivo. Lei come guarda al fenomeno dei social network e alle pratiche, anche compulsive, che in essi si manifestano? Cosa stiamo perdendo guadagnando da una interazione umana e con la realtà sempre più mediata da dispositivi tecnologici?
Riprendo quel che immagino sia già trapelato dalle mie risposte: se manca l’incontro trai corpi vivi, se manca la risonanza, si può davvero parlare di incontro? Ci sono delle immagini, troppo spesso eccessivamente patinate a mio avviso, ci sono testi veloci e diretti—che sicuramente sono comodi, lo ammetto—ma manca la paticità, manca l’atmosfericità. Forse manca il sentire.
In un libro di Finn Brunton e Helen Nissenbaum, Offuscamento. Manuale di difesa della privacy e della protesta, si descrivono le tecniche che potrebbero essere usate per ingannare, offuscare e rendere inoffensivi gli algoritmi di cui è disseminata la nostra vita online. Il libro propone alcuni semplici comportamenti che potrebbero permettere di difendere i propri spazi di libertà dall'invadenza della tecnologia. Secondo lei è possibile difendersi e come si potrebbe farlo?
Credo sia possibile difendersi, ma fino a un certo punto. Io cerco di farlo, ad esempio, tramite la libera scelta di non condividere online la mia vita privata. In modo molto romantico, e forse datato, mi sembra che così io le dia più valore, e ne faccia partecipe solo chi ritengo davvero intimo e vicino. Per certe cose, però, non credo si possa sfuggire al “controllo” senza diventare eremiti (il che comporterebbe comunque una depersonalizzazione e un distacco dal consorzio sociale!).
Ammettiamolo: Google maps, Uber..in effetti hanno cambiato la qualità della vita, nel mio caso impedendomi di perdermi continuamente e vagare senza meta in ogni viaggio. Direi che forse la parola giusta sta sempre nel mezzo: consapevolezza. Possiamo difenderci rendendoci fruitori consapevoli dei devices tecnologici, e non consumatori passivi.
Google maps, Uber..in effetti hanno cambiato la qualità della vita, nel mio caso impedendomi di perdermi continuamente e vagare senza meta in ogni viaggio.