“Il tatto è il solo senso che sia indispensabile all’esistenza del vivente in quanto tale. Gli altri sensi non sono destinati ad assicurare l’essere dell’animale o del vivente, ma soltanto il suo ben-essere. Ma senza il tatto, l’animale non potrebbe esistere […]. Nessun vivente al mondo può sopravvivere un solo istante senza il tatto, cioè senza essere toccato. Non necessariamente da un altro vivente […]. Si può vivere senza vedere, udire, gustare, sen- tire (almeno nel senso olfattivo), ma non si sopravviverà un solo istante senza essere a contatto, in contatto. […] È per questo che, al di qua o al di là di qualsiasi concetto della sensibilità, il tatto significa ‘essere al mondo’ per un vivente finito” - J. Derrida, Toccare. Jean-Luc Nancy, Marietti, Bologna 2019, Pag. 149
“Soli, isolati e diffidenti. […] la pandemia non ha fatto che spingere all’estremo una tendenza che era già in atto nella società postmoderna. […] fattori che la favoriscono: il diminuire del lavoro manuale svolto in gran parte da macchine; il toccare preferenzialmente tasti o lo sfiorare appena le superfici lucide e algide degli schermi dei dispositivi elettronici; il valore dato alla privacy personale; l’avanzare dei processi di individualizzazione e singolarizzazione con il loro desiderio di porre distanza tra sé e gli altri e l’affermarsi degli io singoli e singolari.” – Francesca Rigotti, L’era del singolo, Einaudi, Torino 2021, pag.99
“Quando incontri qualcuno, ricorda che è un incontro sacro. Come lo vedi, ti vedi, come lo tratti, ti tratti come lo pensi, ti pensi. Attraverso di lui o ti perderai o ti ritroverai.” - Franco Battiato.
La vita online ci ha da tempo abituati a fare a meno del contatto fisico, ormai sublimato da gesti impropriamente aptici che, attraverso lo schermo di un display, mettono in contatto tra loro profili digitali, avatar e simulacri vari, con cui abitiamo le realtà online, le uniche che per molti ormai contino davvero. Tante immagini riflettenti dentro multipli schermi che comunicano tra di loro attraverso gesti, senza toccarsi, senza strette di mano che rivelino emozioni, come se il nostro corpo non esistesse, come se potessimo farne a meno, come se l’immagine di una faccia potesse sostituire il volto e un suo battito di ciglia, o la vista lo sguardo.
La consapevolezza dell’assenza di contatto e della sua necessità è scarsa, condizionata da comportamenti dettati da menti cognitivamente ibridate con la tecnologia, dalla vetrinizzazione digitale, dall’informazione scambiata per conoscenza e dall’eccesso di psicologizzazione del soggetto.
La consapevolezza dell’assenza di contatto e della sua necessità è scarsa
La distanza, il non poter toccare le superfici del corpo degli altri e il resto del mondo, il corpo estraneo e straniero del migrante, il non potersi toccare, impediscono il coinvolgimento dei nostri sensi e della nostra mente, il rimanere colpiti, emozionati o affascinati, lo sfiorarsi, il tastare. In breve, ci negano la possibilità di trovarsi di fronte alla ricchezza che il senso del tatto sempre regala.
Tutti sono alla ricerca di espedienti per entrare in contatto con l’Altro, per toccarlo in modo da suscitare simpatia ed empatia ma l’individualismo e il narcisismo oggi dominanti hanno creato barriere insormontabili al contatto, impediscono di riconoscere quanto si sia dipendenti dagli altri, dai loro gesti e corpi. L’Altro è affogato dentro “acquari-mondo, tubi e voliere digitali”[1] nei quali tutti i pesci sono uguali, nuotano all’apparenza felici e riconoscenti (“[…] e grazie per tutto il cibo”), perché tutti intrappolati ma adeguatamente alimentati.
Le barriere nascono dall’apatia narcisistica (definizione di Elena Pulcini[2]) di moltitudini di individui senza passioni (pathos) che molto racconta dell’individualismo corrente e della perdita di legami sociali. Interessa tante persone che hanno eletto l’online come strumento per soddisfare i loro bisogni. È espressione di un Io desiderante ipertrofico e vuoto, svuotato di ogni desiderio di vita comunitaria e sociale in contatto con l’Altro, di volontà partecipazionista, finalizzata a ripensare l’essere-in-comune rinunciando al paradigma utilitaristico. Un io sempre alla ricerca di un appagamento, narcisistico e commerciale, incapace di soddisfare il desiderio mai spento di appartenenza e voglia di comunità. La disaffezione e la vita anaffettiva online spengono il pathos e le passioni alternative, disattivano la passione di riscoprire un contatto fisico, rovesciando un rapporto puramente utilitaristico in uno fatto di generosità e doni, di desiderio erotico con l’Altro, in modo da poter esplorare le qualità di ciò che si tocca:”caldo, freddo, ruvido, liscio, malleabile, resistente, sabbioso, granuloso, robusto, cedevole, inerte, vibrante, attraente, repellente[3]”.
l'importanza di una carezza
Basterebbe una carezza, una stretta di mano per ritrovare l’umanità perduta e scoprire che, prima del naufragio, a cui siamo tutti destinati e il cui avvicinarsi è fuori da ogni nostra percezione e consapevolezza, il toccare, come ha scritto Marc Augé nel suo bel libro Saper toccare (2017), può diventare un segno tangibile di una possibile rinascita perché “senza tatto non potremmo stare al mondo; non sentiremmo cioè la terra sotto i piedi, né l’aria nel nostro corpo, non ci percepiremmo come esseri viventi. Il tatto è il senso della nostra esistenza.[4]”. Lo sanno molto bene gli attivisti delle ONG impegnate a salvare dalle acque del Mediterraneo migliaia di persone, che hanno la sola colpa di cercare una vita migliore. Lo ha scritto molto bene anche Federico Capitoni secondo il quale “Finché la persona in difficoltà è confinata nella cornice di una fotografia, nei bordi di una pagina di giornale o nello schermo di un televisore, noi la vedremo soltanto, la toccheremo mai. E la nostra pur sentita commozione sarà virtuale e non concretizzata in un empatico aiuto[5]”.
In una società digitale che ha da tempo rimosso il corpo sostituendolo con i suoi sosia disincarnati digitali, a fare (ri)emergere il bisogno urgente di contatto fisico è stata paradossalmente la pandemia da Coronavirus che, con il suo imposto distanziamento fisico (i mass media hanno usato erroneamente la parola “sociale”), ha suggerito di interrompere e scansare ogni contatto e congiunzione. La pandemia ha impedito al corpo di svolgere la sua funzione mediale fondamentale, generando nuove patologie iatrogene che vanno oltre il contagio (parola con la stessa radice di contatto) preparandoci a nuove infiammazioni e pandemie. Ha limitato l’esercizio del sesto senso, il movimento, espressione non del sé pensante che cammina ma di quello fisico, dentro spazi (de)limitati nei quali cambiare posizione nel relazionarsi all’ambiente e agli altri che lo occupano. Con effetti deleteri anche sullo spirito che, come scriveva Montaigne, non si muove se non lo fanno anche “le mie gambe”.
Il corpo come media è ciò che fa diventare sensibili, visibili, udibili, tastabili, le cose del mondo, gli altri con cui ci relazioniamo, e tutto ciò che trasforma le cose in fenomeni. Lo sapeva molto bene Aristotele secondo cui il tatto è il più importante (filosofico) dei sensi: sempre prioritario rispetto alle cose e agli oggetti, nel fornire alla psiche la possibilità di identificarne il loro universale, “i tangibili della realtà li percepiamo con il mezzo che usiamo”, un organo tattile esteso quanto tutta la nostra epidermide che ci permette di toccare ogni cosa con ogni parte sensibile del corpo. Senza l’esperienza del contatto viene meno la capacità di orientarsi, di riconoscere gli oggetti e di apprendere come si sta al mondo.
il corpo è il luogo dell’esistenza
Per il filosofo francese Jean-Luc Nancy, che alla riflessione sul corpo ha dedicato la sua intera vita, il corpo è il luogo dell’esistenza («noi ci tocchiamo in quanto esistiamo. Il nostro toccare è ciò che ci rende noi[6]»), è in primo luogo esposizione corporea, al centro di eventi umani quali il “godere, soffrire, pensare, nascere, morire, fare l’amore, ridere, starnutire, tremare, piangere, dimenticare[7]”. Tanti eventi umani oggi sublimati nelle vite disincarnate online, che al corpo umano hanno sostituito il profilo digitale, in attesa del corpo bionico dalla pelle artificiale prossimo venturo o la sua sostituzione attraverso i robot umanoidi di Elon Musk.
Prima del pensiero e del linguaggio esperiamo il guardare, il gustare, il tastare, tutti verbi transitivi che descrivono il tatto, anche introspettivo, il più acuto dei sensi dell’uomo, che grazie a questa acutezza, risulta essere il più intelligente degli animali. Con il corpo vivo che è sempre con noi, annusiamo il mondo fuori di noi, impariamo ad a(u)scoltare la nostra voce e quella degli altri, alleniamo i nostri occhi alle palette di colori con cui la realtà ci si presenta, assaporiamo i mille sapori dei cibi di cui ci nutriamo, facciamo esperienza degli altri come entità sensibili e corporee, diamo forma e costruiamo le innumerevoli realtà nelle quali esistiamo, stiamo nel mondo insieme agli altri.
Su tutto sperimentiamo il (con)tatto inteso come senso tra tutti i sensi, nella sua specificità sociale e promiscua di organo della sensibilità, capace di dare forma a relazioni provviste di senso. Il Nostroverso, il mondo reale che abitiamo e l’universo pluriversale di cui parlo in questo libro, è fatto di senso che nasce dal contatto fisico e dalla contiguità dei corpi. È uno spazio occupato da luoghi nei quali i corpi si sfiorano, si sfiorano accarezzandosi e si toccano, producendo esperienze ben diverse da quelle digitali private del senso che solo il corpo sensibile può dare. Esperienze diverse da quelle sperimentabili dentro piattaforme informatiche e dentro metaversi nei quali prevale il guardare sul toccare, nei quali colui che scrive e interagisce, privato della sua corporeità, non giunge mai a lambire e a toccare chi legge e reagisce.
Il toccare generato dal (con)tatto è essenziale nel nostro abitare il mondo, è il filo che ci unisce alla realtà esterna, ci spiega il come delle cose, è essenziale per la conoscenza che segue il sentirsi a casa, che sempre nasce dall’incontro e da esperienze incarnate, dentro spazi percepiti come ospitali e che raccontano il nostrovissuto. Lo pensava anche il Socrate raccontato da Platone nei suoi dialoghi come il Teagete (Θεάγης), il Simposio e il Fedro. Nel Teagete il giovane Aristide si rivolge a Socrate, al maestro, dicendogli che la sua sapienza progredisce standogli accanto, nello stesso spazio ma soprattutto quando gli siede accanto e potendolo toccare:
«Ti dirò, Socrate» rispose «una cosa incredibile, per gli Dei, ma vera! Io, infatti... progredivo quando ero insieme a te, anche se solo ero nella stessa casa, ma non nella stessa stanza; di più, però, quando ero nella stessa stanza, e molto di più, mi sembrava, quando, stando nella stessa stanza, guardavo verso di te mentre parlavi, più di quanto guardavo da un'altra parte; ma soprattutto e in sommo grado progredivo quando sedevo proprio vicino a te, standoti accanto e toccandoti» (kaì haptómenos, Teagete 1997).[8]
Il toccare è indispensabile per ogni relazione affettiva e conoscitiva, lo è ancora di più in una realtà nella quale il toccare è stare fisicamente accanto nella stessa stanza (il riferimento è all’Aristide del Teeteto di Platone, un filosofo che pure riteneva il corpo un peso per l’anima) mentre l’essere distanti (in un’altra stanza) fa dileguare il desiderio (l’appetito, per sottolinearne l’aspetto fisico del tatto), l’erotismo e la sessualità, in particolare tra i più giovani.
nell'era digitale il corpo è diventato evanescente, sostituito da un media più potente ma incorporeo come lo schermo
Il corpo, aperto in modo relazionale alle contaminazioni esterne e motore di ibridazione, è diventato evanescente, sostituito da un media più potente, lo schermo con le sue immagini bidimensionali e incorporee. Come lo specchio, lo schermo produce un’identificazione, ma anche un’alienazione del nostro essere, ci illude come il quadro di Magritte (Il falso specchio) di poter cambiare il mondo con il nostro sguardo, confondendo i desideri con la realtà. Grazie alla tecnica che lo caratterizza lo schermo ha trasformato il mondo in immagini che hanno preso il sopravvento fino a diventare sinonimo di realtà.
il corpo fisico offre opportunità e ospitalità
L’atto di conoscenza e di esperienza della realtà, che prima era legato a un corpo fisico vivente, immerso in relazioni incarnate di contatto e contiguità, oggi è stato delegato allo schermo che garantisce a tutti coloro che lo abitano relazioni social(i) e la loro continuità nel tempo, ma senza corpo, aprendo la strada a una vita tecno-guidata e tecno-mediata, diversa da quella che siamo in grado di esperire attraverso la materialità e fisicità del corpo durante un incontro. Un corpo fisico che offre opportunità e ospitalità, che può accarezzare con le mani e con gli occhi, come quello usato in presenza da molti dopo la pandemia visitando i parenti reclusi nelle RSA. Un corpo che può colpire come quello dei soldati impegnati nella guerra che sta devastando l’Ucraina, la geopolitica, creando le basi per nuove crisi e nuove guerre in Europa e nel mondo. Un corpo guerriero e mortale ma virtualizzato perché solo raccontato, filmato, mostrato e condiviso nella sua assenza e incapacità di occupare uno spazio: ma questa semplice immagine svanirebbe se si fosse presenti sul campo di battaglia e si fosse testimoni della morte del corpo di migliaia di soldati russi e ucraini. Le immagini esibite per descriverne la sorte agiscono da esorcismo verso la morte, ma la spettacolarizzazione che ne deriva non garantisce la sopravvivenza dei soldati coinvolti e neppure il prolungamento della loro esistenza fisica dopo la morte e una loro rinascita a nuova vita.
Senza corpo e con tante dita
Una società tecnologica composta da monadi digitali atomizzate e parcellizzate, autocentrate e egocentriche, ci sta privando del (con)tatto, non solo estetico ma sensoriale, della socialità in presenza, non favorisce l’incontro ma la presenza in distanza. Ci fa dimenticare il nostro corpo fatto di carne e di visceri, di sistema nervoso e di sistema linfatico, ci induce a scordarci del corpo che noi effettivamente siamo, il nostro essere corpo pulsante che condividiamo con l’essere corpo di altri corpi, un corpo che occupa spazi fisici abitati da altri corpi con i quali entra in relazione. Un corpo capace di tenersi in piedi per intero, di mettersi in movimento, di tirarsi su e slanciarsi in avanti, capace di esercitare lo sforzo che serve per staccarsi dalla propria passività mettendo i piedi in avanti, uno dopo l’altro ma anche insieme.
Questa società tecnologica ci impedisce di comprendere che la vera singolarità deriva da corpi materiali tra loro tutti diversi e unici, ma disponibili, firmati dalla natura che li fa esistere per quello che sono, mai replicabili dentro simulacri o avatar digitali, votati alla personalizzazione, ma tra loro simili e sempre omologati alle strutture che li contengono, determinandoli. La società digitale ci ha reso difficile comprendere che siamo parte materiale integrante della natura, di cui peraltro dovremmo tutti prenderci maggiore cura. Ha reso indesiderabile incontrarsi, abbracciarsi e farsi le coccole, suggerisce il distanziamento fisico, la diffidenza, il tenersi a distanza, Far from the Madding Crowd, lontani dalla massa di Elias Canetti per paura di essere toccati, di urtare la nostra pelle contro quella di un ignoto Altro.
Le dita sono state atrofizzate dal loro essere sempre su uno schermo
L’umano che si è oggi specializzato nell’uso di dita (pollice e indice in primis) cibernetiche sulla superficie di uno schermo, si ritrova dita e mani atrofizzate, inutili per le manipolazioni che sempre caratterizzano l’agire, comprese quelle che raccontano rapporti incarnati (carnali, embodied), relazioni materiali, erotiche e fisiche. Siamo tutti dotati di cinque sensi (sei se si include il movimento, sette se si comprende anche la capacità introspettiva della mente), tre considerati oggettivi (tatto, vista e udito) e due soggettivi (gusto e olfatto), ma la tecnologia e i media hanno cambiato la nostra percezione della realtà, i nostri sensi. Lo hanno sempre fatto, fin dall’antichità, assegnando ai sensi ruoli e priorità diversi in epoche storiche differenti. Basti pensare al ruolo del gusto, dell’udito e dell’olfatto nel mondo tribale e al loro sviluppo per motivi pratici di sopravvivenza. La vista ha giocato un ruolo determinante in un’epoca artistica come il Rinascimento che ha inventato la prospettiva, e poi nell’età moderna con l’invenzione della stampa e l’introduzione dell’elettricità nella vita di tutti i giorni. I sensi hanno sempre determinato profonde conseguenze nel modo di percepire e di agire.
Vivendo vite virtuali con profili digitali, avatar e corpi cablati che hanno sostituito gli atomi con i bit, oggi è lecito interrogarsi se i sensi umani abbiano ancora un ruolo. Se l’era chiesto anche De Kerckove nel lontano 2010 rispondendosi che la partecipazione al cyberspazio e alle nuove tecnologie stavano creando nuove forme biologiche, caratterizzate da uno scambio permanente tra analogico e digitale, tra atomi e bit, tra fisicità e virtualità. Nella consapevolezza dell’ineludibilità del corpo e della fisicità, molti tecno-scienziati stanno da tempo lavorando alla creazione di interfacce (in attesa della Internet dei sensi) capaci di restituire le sensazioni fisiche generate da oggetti, superfici e situazioni. Non mancano neppure sperimentazioni artistiche come quelle dell’artista australiano Stelarc (progetto terza mano) e della francese Orlan (chirurgia estetica), dei catalani de La Fura dels Baus o degli inglesi del Mutoid Waste Company che mirano alla reinvenzione del corpo mettendolo in relazione con la tecnologia.
Intanto nella realtà di tutti i giorni, pratiche digitali sempre più pervasive stanno illudendo molti che le percezioni aptiche ritornate da una interfaccia tecnologica siano assimilabili a quelle sensoriali legate al tatto, il senso che ritorna attraverso la pelle la percezione esteriore immediata, quindi quella più certa. L’inadeguatezza delle interfacce aptiche a fornire le sensazioni che la pelle umana può regalare spiega gli investimenti crescenti nella ricerca di nuove interfacce tra organismi umani e macchine, che puntano alla creazione di una pelle artificiale neuromorfica flessibile. Tessuta con semiconduttori potrà essere usata per rivestire sia il corpo umano sia i componenti tecnologici con cui interagisce, mimando i feedback sensoriali della pelle biologica generati dal contatto.
L’esperienza dolorosa della distanza fatta durante la pandemia ci ha ricordato che, in attesa degli sviluppi futuri della tecnoscienza, l’assimilazione delle esperienze aptiche tecnologiche con quelle umane non funziona. Il profilo digitale ipertestualizzato non fa esperienza del movimento, non ha pelle, non ha mani che possano toccare, non ha bocca, organo del toccare, non pesa e non occupa spazio, non ha anima, non genera emozioni come quelle che percorrono e attraversano i nostri corpi fisici fatti di carne. Il corpo umano al contrario è un tutt’uno di anima e corpo (“l’anima è legata al corpo”), è “unito al pensiero per mezzo di un legame misterioso e […] partecipa a differenti equilibri”, ha estensione e spazialità, è materia pesante, “che si può illuminare, opaca alla luce, materia viva[9]”, può toccare e toccarsi, è sempre in movimento e relazione, è dotato di corporeità e materialità, ha un ventre, una bocca e una voce, prodotto di apparati fisiologici di cui l’organismo umano è dotato.
la pandemia ci ha insegnato quanto sia necessaria la presenza, l'entrare in risonanza con persone in carne e ossa
Dal marasma (miasma) causato dal Coronavirus ci è arrivato il segnale di quanto sia importante il contatto fisico in presenza, l’emergente necessità di entrare in risonanza con persone in carne e ossa, cogliendone le vibrazioni, anche emotive, che si scatenano ad ogni incontro con l’Altro, in particolare quando l’Altro è un estraneo. Un Altro con cui fare esperienza della nostra singolarità e pluralità, il nostro sempre essere situati dentro una comunità, di esseri viventi pensanti (pesanti) e dotati di corpo. Il distanziamento dovuto alla pandemia ha agito da cartina di tornasole per un bisogno sommerso e negato di contatto fisico, che già molti sentivano, essendosi ormai ritirati da tempo dentro i loro profili digitali con i quali abitano i mondi simulati della Rete. Il bisogno ha ridestato il desiderio di tornare a toccarsi, a guardarsi negli occhi in modo discreto, a sfiorarsi apticamente la pelle, a coccolarsi accarezzandosi. Tutti gesti dal valore anche metaforico, collegabile al nostro pensiero, capace di soppesare e toccare il cuore di pietra delle cose, capace di toccare con mano il proprio limite e la propria finitezza, capace di dialogo interiore che è il processo complesso dal quale emerge la rappresentazione di noi stessi. Il bisogno risorgente ha evidenziato il nostro essere corpo prima ancora di averne uno, ci ha richiamato a una riflessione critica sulla sparizione del corpo, dello sguardo e del volto (viso), a una riflessione critica su una comunicazione priva di corporeità e di tattilità, determinati dalla digitalizzazione, dalla algoritmizzazione e dalla spettacolarizzazione delle nostre facoltà sensibili.
In un mondo dominato dalla comunicazione e dal linguaggio, ritornare a una comunicazione non verbale, prossemica, promiscua, fatta di contatti fisici, mani che si muovono all’italiana maniera, indici puntati, può essere un modo intelligente per riprendere a comunicare, riconoscendo che dal corpo non è possibile sfuggire o separarsi, non è cioè possibile sfuggire a sé stessi. Lo pensava anche il Pasolini che, dopo avere incontrato a Praga due cappelloni, raccontava sul Corriere della Sera perché non avessero alcun bisogno di parlare per comunicare. I due usavano un linguaggio dei segni, “il linguaggio dei loro capelli” per dire al mondo il loro essere cappelloni, e di sinistra: “Quel linguaggio privo di lessico, di grammatica e di sintassi, poteva essere appreso immediatamente, anche perché, semiologicamente parlando, altro non era che una forma di quel «linguaggio della presenza fisica» che da sempre gli uomini sono in grado di usare.”
La comunicazione interumana autentica si è spettacolarizzata, alienandosi in forme che raccontano quanto essa giri tutta intorno a esseri sociali diventati individualisti e narcisisti, assimilabili ai Dervisci danzanti di Battiato per i quali “gira tutto intorno la stanza mentre si danza”. Per come è oggi usato, il linguaggio è fonte di conflittualità e menzogne, false verità e ambiguità, instabilità e superficialità. Ormai usato prevalentemente online, non favorisce la comprensione reciproca tra i parlanti, approfondisce divergenze già esistenti o creandone di nuove. Avviene sempre più in formati preformattati e definiti, all’interno di sintassi linguistiche che impediscono l’approfondimento così come di comunicare i molteplici significati polisemici delle parole, soprattutto di quelle che veicolano emozioni, sensibilità e sentimenti. A essere impedita è in particolare la comunicazione non verbale del corpo in presenza, dentro luoghi nei quali i corpi entrano in contatto, attraverso esperienze comuni e condivise, con un corpo che si espone in tutte le sue parti, trasformandole in strumenti potenti di comunicazione e capaci di costruire relazioni provviste di senso.
Il bisogno del contatto nasce dalla sua privazione determinata dalle nostre vite onlife. Anche dalla maggiore consapevolezza sviluppatasi durante la pandemia, che ci ha fatto percepire quanto il contatto sia esistenzialmente fondamentale, pandemia che ci ha sterilizzati tutti (quasi) e allontanati gli uni dagli altri. Noi abbiamo bisogno di toccarci in quanto esistiamo, il (con)tatto è ciò che ci rende noi[10], non ci basta sfiorarci con il pensiero così come non ci basta un contatto visuale attraverso Zoom. Ciò che prima della pandemia ci appariva come scontato, improvvisamente si trasforma in una minaccia, suggerendoci la messa in discussione dei nostri comportamenti sulla distanza, determinati dal virus e online (anch’esso una forma di virus). Più che far scivolare le dita su uno schermo, il bisogno di contatto spinge ad aprire porte e finestre, quelle di casa propria e quella del vicino, del bar sotto casa (chi ancora ne abbia uno), del negozio di prossimità (se mai ne esistono ancora) o dell’ufficio (se non si è in smartworking). Si spiega nel suo essere un cardine sul quale appoggia la nostra vita sociale e animale prima che si trasferisse sulle piattaforme social e digitali, dandoci l’illusione di poter digitalizzare tutte le nostre attività così come la nostra vita sensibile e materiale. La paura di perdersi qualcosa e l’ossessione della presenza ha rimosso ogni riserva sulla sparizione della privacy, ci ha resi trasparenti, evanescenti e distanti dal prossimo in carne e ossa, dal mondo reale che lo ospita. Sempre dentro metaversi all’apparenza aperti, ma in realtà chiusi, nei quali ci si sente liberi di muoversi perché senza celle di isolamento come quelle del panottico benthamiano. Il dominio e la sorveglianza si basano ormai sulla nostra convinzione sbagliata di essere liberi, per questo sempre disponibili a mostrarci, a esporci e a mettere in scena sé stessi, a produrre dati e informazioni e così facendo a consolidare sorveglianza e controllo. Un controllo digitale che si riverbera dentro la realtà fattuale.
Il bisogno di contatto non trova soddisfazione attraverso surrogati artificiali e virtuali, impossibilitati a farci sentire collegati e co-presenti con altri. Gli esseri umani sono tali solo essendo gli uni con gli altri, sempre disposti a mettere in gioco la propria singolarità con la pluralità, con la singolarità incarnata degli altri. Neppure pensabile perché le nostre stesse attività mentali ci riportano sempre a ricordare e soppesare (pensare) contatti fisici tra individui diversi, in contatto tra loro. Mente e corpo non possono essere cartesianamente separati, a dimostrarlo ci ha pensato anche la pandemia. L’esperienza estetica è ben diversa dalla sensorialità esperita attraverso un contatto fisico. La vita e l’esperienza umane (animale) non possono fare a meno del contatto fisico, delle risonanze tra vista e udito che attivano e mettono in gioco il regime dei sensi. Non si può sopravvivere un solo istante senza il tatto, senza essere toccati da qualcosa o qualcuno, senza essere in con-tatto. Il corpo si pone al centro dell’essere nel mondo, della co-esistenza, della vita sociale, mentale e psichica, ed è intimamente connesso alla dimensione spirituale di chi lo possiede.
Con il corpo dentro il Nostroverso
Nel Nostroverso fatto di esseri umani in carne e ossa, il contatto fisico, insieme all’incontro in presenza, riveste un ruolo primario: bisogna però esercitarlo, trasformarlo in una pratica, svilupparlo, adoperarlo per sviluppare al tempo stesso mente, cervello e pensiero, per comunicare, filosofare e interagire.
Il (con)tatto, il toccarsi è la via per salva(guard)are i legami, sulla cui dissoluzione in epoca postmoderna non ci si interroga neppure più. La relazione che da fisica si è fatta digitale, vissuta sulla distanza e non in presenza, è diventata una semplice competenza, un’attività opzionale come lo è quella praticata per costruire reti di contatti sulle piattaforme social. Un’attività surrogato che illude sulla propria autonomia chi la pratica mentre, senza legami intensivi e senza affetti, se ne sta sdraiato su un divano davanti a uno schermo, impegnato ad aumentare la sua rete di contatti virtuali che lo obbliga a sviluppare competenze invece di investire su sé stesso, come nodo di legami, corporei, affettivi, amorosi, non programmabili ma desideranti.
Ritornare al corpo che si tocca significa abbandonare i saluti con emoji e icone sorridenti, ripristinare la ritualità dei saluti così come quella delle celebrazioni religiose e comunitarie, far maturare “l’intelligenza corporea”. Il corpo da mettere in gioco è qui inteso nella sua dimensione esistenziale, soggettiva e relazionale, ben diverso dal corpo tanto mitizzato dal marketing e dallo storytelling che celebrano corpi estetizzati, palestrati, chirurgicamente modificati, tatuati, aumentati, ecc. Corpi modificati all’origine dal senso di disagio che attanaglia molti, soprattutto giovani, che dentro la bolla mediatica dei social si sentono soli, inadeguati, sbagliati, bisognosi di riconoscersi per quello che realmente sono, anche attraverso l’incontro e l’accettazione dei propri corpi, compreso quello degli altri nel quale riconoscersi.
Nella bolla digitale però si tocca sempre meno, sia gli oggetti e le cose sia le persone. Si sfiorano schermi e display, forse a breve saremo in grado di parlare ai nostri dispositivi o, dentro il Metaverso, di sperimentare il tatto e altri sensi, attraverso occhiali, cuffie e visori, veri e propri filtri che ci regaleranno percezioni simili a quelle dei nostri sensi ma alterate. Percezioni in grado di passare informazioni ma mai esperienze di (con)tatto che il nostro corpo è capace di regalare, attraverso gli occhi, la corporeità e il reciproco riconoscersi come corpi, sperimentando visceralmente e psichicamente felicità e tristezza. Producendo ossitocina, la gentilezza del tatto (savoir faire) e la fisicità degli abbracci hanno un ruolo significativo nel regolare le relazioni interpersonali e aumentare il piacere dei rapporti sociali. La conoscenza empatica reciproca ci porta a identificarci con l’Altro, a consegnarci a lui, pur mantenendo una giusta distanza prossemica, in modo da evitarne una nostra completa identificazione o confusione.
Nell’incontro con l’altro da noi, il gesto del toccarsi ed essere toccati con le forti stimolazioni a cui dà origine, è alla base di ogni forma di comunicazione. Il tatto opera attraverso la pelle che, con la sua superficie estesa e le sue numerosissime terminazioni nervose, ha un’interazione immediata con il nostro sistema nervoso, giocando un ruolo chiave nel riflettere (comunicare) e determinare il nostro benessere o malessere psicobiologico. Il tatto funge da GPS aptico, da strumento di comunicazione interpersonale e orientamento nel mondo delle relazioni sociali, inesistente online dove molte situazioni sono gestite con poco tatto e nessuna sensibilità.
Il tatto deve essere reso possibile e favorito dall’incontro in presenza, dentro spazi architettonici materiali, territori fisici e volumetrici nei quali sia possibile riconoscersi e familiarizzare, scambiarsi sorrisi, condividere lacrime di gioia o tristezza, meravigliarsi di avere trovato l’anima gemella. Solo l’incontro può dare “il senso della durata, dell’approfondimento delle cose e dei legami[11]”. Può essere faticoso, sicuramente lo è più di un incontro online. Al punto di vista diverso dell’altro non ci si può sottrarre, cambiando pagina web o piattaforma social. Non ci si trova più al centro del mondo, si deve fare i conti con le proprie reazioni non verbali e corporee, bisogna accettare e saper guardare le cose con gli occhi dell’Altro, prepararsi agli effetti anche indesiderati e non previsti che ne derivano, assumersi nuove responsabilità, anche morali.
L’incontro può essere casuale, meglio se provocato da un bisogno, un desiderio o una scelta destinata a cambiare abitudini e a produrre un cambiamento, un movimento. Diverso da quello che ci vede muoverci dalla cucina al tinello sempre con un dispositivo in mano e che consiste nel passare da una piattaforma all’altra. Per provocare un incontro basta uscire di casa, alzare lo sguardo e tornare alla consuetudine dello stare dentro una realtà fisica, che non ha bisogno di essere aumentata, senza visori o occhiali intelligenti che danno forma e ordine al mondo, ma semplicemente ascoltando i propri bisogni e desideri, sviluppando un rapporto poetico con l’esistenza. Si può uscire di casa anche dopo avere fissato un appuntamento attraverso Tinder, che in questo caso funge da finestra e mezzo in grado di favorire l’incontro dal vivo, probabilmente sempre carico di sorprese e potenziali meraviglie, se non si allentano le aspettative.
Abbandonati visori e schermi si può più facilmente comprendere la limitatezza del nostro guardare il mondo attraverso uno schermo. L’occhio che ci lega alla superficie lucida e luminosa di uno schermo offre una visione singola, una interpretazione ristretta della realtà osservata, sempre delimitata com’è dentro lo strumento utilizzato. Catturato dai riflessi colorati degli oggetti sullo schermo, l’occhio è impegnato in semplici attività meccaniche ben diverse da quelle che nascono dall’interscambio che sempre si attiva in un confronto faccia a faccia, iride con iride. La diversità sta nella separazione che l’interfaccia meccanica opera tra i sensi umani, nel suo inganno che costringe l’occhio dentro canali e percorsi arcobaleno illuminati, predisposti e prescritti da altri, maestri nell’intrappolare l’occhio per tenerlo occupato, in modo che non possa osservare la qualità e la varietà dei segnali luminosi che scorrono al di fuori e tutt’intorno al perimetro delimitato dello schermo. Lo schermo irradiante, con la pervasività delle sue immagini, che agisce da interfaccia verso il mondo, rende l’occhio meno autonomo e meno libero. Lo deruba della sua ricchezza che si manifesta nel suo essere una finestra affacciata sul mondo, strumento potente della percezione umana e dell’immaginazione. Sempre meno capace di cogliere i colori della realtà fisica l’occhio, coinvolto per ore su schermi illuminati, è come se fosse anestetizzato, impedito nella sua capacità sensoriale come strumento di comprensione corporea, emozionale e cinestetica del mondo.
l'invito è a tornare ad abitare il Nostroverso, fuori e lontano dai molteplici metaversi nei quali ci siamo permanentemente insediati
Il recupero delle capacità sensoriali legate all’esperienza sensibile dei nostri sensi passa allora attraverso la volontà di dedicare più tempo ad abitare il Nostroverso incarnato, con l’obiettivo di riscoprire un’inevitabile simpatia (syn-pathein) con l’Altro da noi e di reimparare a toccare il suo corpo nella consapevolezza che quel tocco definisce la nostra identità individuale in relazione all’alterità. Frequentando il Nostroverso si può rientrare in controllo del nostro corpo, situato in un tempo e spazio non serializzati o delimitati dai non-luoghi virtuali della Rete, superando il disorientamento che coglie molti nel loro relazionarsi agli altri in modalità disincarnata. Abitando il Nostroverso e impegnandosi in pratiche umaniste finalizzate a ridare un senso all’umano incarnato rispetto all’umano macchinico e digitale, si potrebbe allora riscoprire il calore di una carezza o di una stretta di mano, la potenza e la bellezza di uno sguardo, il suono di un respiro o di una musica capace di emozionare, i profumi e gli odori delle stagioni, quanto è gustoso mangiare una cioccolata fondente o fare esperienza delle differenze che separano il dolce dal salato, l’insipido dal piccante, avventurarsi nella grande mappa dei sapori.
Note
[1] Termine coniato da Carlo Mazzucchelli nel suo libro I pesci siamo noi - Prede, pescatori e predatori nell'acquario digitale della tecnologia, pubblicato da Delos Digital
[2] Elena Pulcini, L' individuo senza passioni. Individualismo moderno e perdita del legame sociale, Bollati Boringhieri, Torino 2001
[3] Wilhelm Schmid, L’amicizia per sé stessi – Collana Campo dei fiori – Edizioni Fazi, Roma 2012
[4] Federico Capitoni, Toccare, Jaca Book, Milano 2020, Pag.12
[5] Federico Capitoni, Toccare, Jaca Book, Milano 2020, Pag.24
[6] Jean-Luc Nancy, Essere singolare plurale, Rinaudi, Torino 2021, Pag. 22
[7] Jean-Luc Nancy, Corpus, Cronopio, Napoli 2014, Pag. 14-16
[8] Ho trovato questa citazione in un articolo di Francesca Rigotti pubblicato sulla rivista Doppiozero
[9] Citazioni da S. WEIL, Sulla scienza, Borla, Roma 1998, Pag. 218.
[10] Concetto espresso da J.L. Nancy in Essere singolare plurale, Einaudi, Torino 2001, Pag. 22
[11] Charles Pépin, Filosofia dell’incontro. La risposta di un gesto dimenticato, Garzanti, Milano 2022, pag36