Oggi due opposti si toccano, acquario e naufragio. Se il naufragio rappresentava un tempo il trauma dell’imprevisto, dello smarrimento e del confronto con l’ignoto, il naufragio moderno avviene, invece e paradossalmente, nell’acquario digitale dei social: uno spazio chiuso, rassicurante, ma invisibilmente oppressivo. Oggi si naufraga senza rendersene conto, in una realtà controllata da algoritmi e priva di sorpresa. Una possibilità per reagire è riscoprire e riconoscere la meraviglia, che ci accompagna fuori,oltre il vetro dell’acquario.
Oggi si naufraga senza rendersene conto, in una realtà controllata da algoritmi e priva di sorpresa.
Per millenni il naufragio ha rappresentato la perdita totale di orientamento, il crollo improvviso di ogni certezza, l’essere travolti da forze più grandi dell’uomo. Naufragare voleva dire abbandonare la rotta, smarrire ogni punto di riferimento. Oggi invece il pericolo è diverso, ma non meno radicale: non è l'oceano senza confini a minacciare l'uomo, ma l’acquario, spazio chiuso, trasparente, rassicurante e, proprio per questo, invisibilmente letale.
Nel grande acquario digitale della rete e dei social network miliardi di esseri umani nuotano inconsapevoli, come pesci distratti, convinti di esercitare libertà ma in realtà nutriti da contenuti preconfezionati, guidati da algoritmi invisibili. Il vetro è così limpido che si tende a scordarne l’esistenza. Il cibo è abbondante, il fondo pulito, la temperatura gradevole. Eppure la libertà è perduta.
Moltitudini di persone stanno naufragando senza accorgersene
Qui si naufraga senza accorgersene: non nel terrore di un abisso improvviso, ma nella certezza di un'acqua ferma. È il naufragio perfetto: quello che nessuno riconosce più come tale. Il mare, un tempo, era l’opposto dell’acquario. Era l’immensità spaventosa e affascinante dove tutto era possibile: scoperta, gloria, ricchezza, ma anche sconfitta, abisso, morte. Chi naufragava sapeva di affrontare l’ignoto. Ulisse lo fa due volte nell’Odissea, travolto dalle tempeste che Poseidone scatena contro di lui; ma il fato gli concede la salvezza: prima l’accoglienza di Nausicaa, poi l’amore della ninfa Calipso. Il mare era volubile, spietato ma anche generoso.
Gli antichi immaginavano che il mare avesse un dio, o più di uno: Poseidone per i Greci, Varuna per gli Indù, le tre divinità marine dei Vichinghi — Njörðr, Ægir e la terribile Rán, dea che catturava marinai con le reti per trascinarli nel suo banchetto di tesori affondati. Ogni naufragio era colpa, punizione o semplice capriccio degli dèi.
Anche i fiumi, come il Reno della leggenda tedesca di Lorelei, celavano pericoli: la ninfa fatale annegava gli ignari marinai con il suo canto. Questo sentimento di natura viva e minacciosa sopravvive nella malinconia profonda del Romanticismo tedesco. Ma il naufragio era anche metafora della condizione umana. Platone, sopravvissuto ad un naufragio, vede nella navigazione la figura della ricerca della verità, possibile solo grazie alla filosofia.
Sant’ Agostino, da platonico, descrive la vita come un mare tempestoso dove l’anima può smarrirsi nel peccato: “Ero precipitato nel mare delle passioni, e mi ero perso” (Confessioni, II). Solo la Chiesa può ricondurre il naufrago alla salvezza. Petrarca immagina un dialogo con Agostino per superare le tempeste del desiderio e della vanagloria.
Naufragio è anche memoria storica. Il Mediterraneo è stato tomba di mercanti, pellegrini, guerrieri; lo è ancora oggi per migliaia di profughi e migranti in fuga verso una speranza di vita. E il mito moderno del Triangolo delle Bermuda ricorda quanto l’uomo tema ancora il mare come spazio di sparizione e mistero.
Eppure oggi non naufraghiamo più così. Oggi il naufragio della mente avviene nell'acquario, al rallentatore: non si va più alla deriva ma si gira in tondo rischiando di dimenticare che esista un "fuori".
il naufragio della mente avviene nell'acquario, al rallentatore: non si va più alla deriva ma si gira in tondo rischiando di dimenticare che esista un "fuori".
Come possiamo allora difenderci e reagire? Ci possono venire in aiuto la poesia di Leopardi e il concetto di meraviglia. Il poeta ne L’Infinito scrive:«…e mi sovvien l’eterno, e le morte stagioni, e la presente e viva, e il suon di lei. Così tra questa immensità s’annega il pensier mio: e il naufragar m’è dolce in questo mare.»
Per Leopardi il naufragio è dolce quando ci permette di intuire l’immensità, di smarrirci per ritrovare qualcosa di più grande. E per riconoscere quando il naufragare è davvero dolce — e quindi fecondo, liberante, umano — abbiamo una spia: la meraviglia. Quando ci stupiamo, quando qualcosa ci colpisce perché rompe lo schema, ci disorienta e ci costringe a pensare, allora siamo vivi. Nell’acquario nulla ci meraviglia più: tutto è liscio, prevedibile, addomesticato.
Per questo la meraviglia è la nostra cartina di tornasole. Se riusciamo ancora a provarla, significa che non siamo prigionieri. Se qualcosa riesce ancora a sorprenderci, a farci sentire piccoli e grandi insieme, allora stiamo vedendo oltre il vetro.
E quel naufragio — simile a quello leopardiano — potrà essere dolce. Potrà indicarci la via della libertà.