Go down

È difficile stabilire il momento in cui gli esseri umani sono stati capaci di inventare uno strumento in grado di sostituire la guerra per risolvere i loro conflitti. Tracce in questa direzione si possono trovare nella storia di molte civiltà fin da tempi remoti. Eppure, l’arte della negoziazione fatica a liberarsi di un male antico che ha le sue radici proprio nella guerra. Per millenni gli esseri umani hanno risolto le loro contese, e continuano a farlo, attraverso la lotta, lo scontro fisico, la guerra, accettando di concedere, ed essere quindi disposti a mediare, solo se sconfitti. E questo spiega quanto sia difficile risolvere i conflitti, e quanto questo dipenda, non tanto dalla situazione, quanto dalla nostra disponibilità e capacità di  pensare e agire in modo diverso.


In una famosa scena del film Il Grande Dittatore di Charlie Chaplin, Adenoid Hynkel e Bonito Napoloni si affrontano facendo sfoggio delle loro reciproche “grandezze”. La sfida a chi vince, spingendosi più in alto, si svolge su due particolari poltrone da barbiere: una perfetta e geniale rappresentazione di una “escalation simmetrica”, nella quale i ruoli “One Up” e "One Down” e le dinamiche all’origine della contesa ci appaiono quanto mai chiare. Il genio di Chaplin anticipa, attraverso questa scena, quello che le teorie di Paul Watzlawick sulla pragmatica della comunicazione ci avrebbero spiegato trent’anni dopo, e lo fa in un modo così semplice da renderlo comprensibile anche agli occhi di un bambino: il vero conflitto è primariamente un conflitto di relazione, le parole svolgono un ruolo di supporto, raramente sono funzionali, e soprattutto risolutive, durante le prime fasi di una disputa. È per questo motivo  che Charlie Chaplin fa recitare ai suoi protagonisti frasi stupidissime, come avviene in molte liti alle quali abbiamo assistito nei talk show televisivi. Quando scatta “l’escalation simmetrica” la qualità dei contenuti inevitabilmente si deteriora, perché è in atto una sfida, molto più antica, tra chi vince e chi perde. 

Sfida resa intensa e drammatica in “Gioventù bruciata”, il film del 1955 che ha consacrato il mito di James Dean, in cui due rivali si sfidano nel pericoloso “gioco del pollo”. Una prova che consiste in una gara tra due auto lanciate a forte velocità, per vedere chi avrà il coraggio di gettarsi fuori dall’abitacolo per ultimo, prima che l’auto precipiti nello strapiombo. Nel film in questione la sfida si conclude tragicamente, perché uno dei due contendenti rimane impigliato nella maniglia dello sportello e precipita in mare. Ma l’esito del gioco, senza questo incidente, avrebbe dovuto essere diverso e stabilire dunque, in modo inequivocabile, chi vince (colui che si lancia dopo) e chi perde “il pollo” (colui che si lancia prima). Il significato del gioco è fin troppo chiaro: alzare il livello della sfida restringe le possibilità del confronto fino a indirizzarle in un vicolo cieco, nel quale alla fine non si potrà che stabilire chi ha vinto e chi ha perso. Paradossalmente, nel pericoloso gioco di sfida rappresentato in questa scena, esiste una possibilità in cui entrambi i contendenti potrebbero risultare “vincenti”: la situazione nella quale nessuno dei due cede ed entrambi muoiono. Nell’universo simbolico delle bande giovanili protagoniste del film questo equivarrebbe ad assurgere alla figura di “eroe”. Soluzione evidentemente folle, ma che a livello metaforico rivela la natura di qualcosa su cui è importante riflettere per comprendere cosa si annida all’origine di molti conflitti: l’”etica della convinzione”, che Max Weber contrapponeva all’“etica della responsabilità”. Un’etica quindi mai disposta a scendere a mediazioni e compromessi pur di mantenere integri e inalterati i suoi principi, anche a fronte di risultati catastrofici. 

È difficile stabilire il momento in cui gli esseri umani hanno deciso di inventare uno strumento capace di sostituire la guerra per risolvere le loro contese, tracce in questa direzione si possono trovare nella storia di molte civiltà fin da tempi remoti, come testimonia una celebre battuta nel Giulio Cesare di Shakespeare: Words before blows”. “Parole prima dei colpi”, la negoziazione nella sua essenza è questo: uno strumento antico quanto la civiltà umana, creato per prevenire, o far cessare, la guerra attraverso le parole. È chiaro che il  più delle volte, per fortuna, la parola “guerra” va intesa in senso lato, come conflitto, disputa, contesa. La negoziazione è anche un’arte molto complessa sulla quale sono stati scritti centinaia di libri, che hanno cercato ispirazione e risposte attraverso discipline molto diverse tra loro: psicologia, antropologia, sociologia, economia, scienze della politica e filosofia. Senza dimenticare che, caso unico nell’ambito delle relazioni umane, gli studi sulla negoziazione hanno potuto beneficiare di una trasposizione formale nel linguaggio matematico della Teoria dei giochi (Von Neumann e Morgenstern 1944). 

Ma l’arte della negoziazione soffre di un male antico che ha le sue radici proprio nella guerra: per millenni gli esseri umani hanno risolto le loro contese, e continuano a farlo, attraverso la lotta, lo scontro fisico, la guerra, accettando di concedere, ed essere quindi disposti a mediare, solo se sconfitti. E questo spiega quanto sia difficile risolvere i conflitti, e quanto questo dipenda, non tanto dalla situazione, quanto dalla nostra disponibilità e capacità di  pensare e agire in modo diverso. Nella nostra fortunata fetta di mondo abbiamo conosciuto un lungo periodo di pace e benessere che non ha eguali nella storia. Oggi il mondo è cambiato, “permacrisi” è la parola scelta dal dizionario Collins nel 2022 per descrivere il nostro tempo: pandemia, scenari di guerra, crisi economica e ambientale, sono lo sfondo di un mondo che mette in luce tutta la sua fragilità, dove il sovrapporsi di situazioni di emergenza sono diventate la normalità. Non è difficile immaginare le forti tensioni che questi eventi sono in grado di produrre all’interno di un clima sociale sempre più incline a polarizzare e radicalizzare le diverse posizioni. 

Vincere o perdere 

Nella devastazione del campo di battaglia al termine delle ostilità, in mezzo a cadaveri e carri armati distrutti, il generale Patton solleva tra le braccia un ufficiale morente e afferma: “Come amo tutto questo. Che Dio mi aiuti, lo amo di più della mia vita”. Queste sconvolgenti parole sono l’incipit di “Un terribile amore per la guerra”, straordinario saggio di James Hillman. Subito dopo il grande psicoanalista afferma: “Se non entriamo dentro questo amore per la guerra, non riusciremo mai a prevenirla né a parlare in modo sensato di pace e disarmo. Di fronte alla guerra ci sentiamo impotenti, possiamo tuttavia esplorare quella “dimensione marziale del nostro animo”, come la definisce Hillman, che è la genesi dei conflitti, interrogandoci sul possibile antidoto. 

Il primo elemento da prendere in considerazione quando parliamo di gestione dei conflitti, e quindi di una loro possibile soluzione, è acquisire consapevolezza di quello che accade dentro di noi. Si tratta di liberarsi di un antico retaggio, intimamente legato all’evoluzione della nostra specie, che ci porta a interpretare il conflitto come una battaglia. È nella parte più antica del nostro cervello, infatti, che avviene qualcosa di molto importante: l’innesco del conflitto determina una risposta automatica del nostro organismo definita “attacco o fuga”, nota in letteratura anche come “fight or flight response”, in onore del fisiologo statunitense Walter Bradford Cannon che per primo descrisse questo fenomeno. Questo meccanismo, come è noto, attiva una serie di mutamenti fisiologici finalizzati a determinare la massima efficacia di questi comportamenti. Ma l’aspetto che ci preme sottolineare è come questi comportamenti, che hanno svolto un  ruolo fondamentale nel corso dell’evoluzione per la sopravvivenza della nostra specie, assumano significati completamente diversi quando vengono inseriti nel contesto di una dinamica sociale. Lasciarsi coinvolgere in una sfida al “si vince o si perde” non genera mai le migliori premesse. Esclude la possibilità di una trasformazione del conflitto orientata al proseguimento della relazione, perché chiaramente sia la fuga che l’attacco, nella loro essenza, non mirano a questo risultato. La possibilità di gestire strategicamente le dinamiche conflittuali parte, dunque, da questo primo elemento di consapevolezza, che aiuta anche a superare convinzioni e stereotipi, molto radicati e prevalentemente negativi, che da sempre accompagnano questo tema. 

L’illusione dell’inizio 

Un secondo importante elemento di consapevolezza, che ancor più diverge dal senso comune, consiste nell’abbandonare l’illusione di poter stabilire con certezza l’origine del conflitto, per poter dimostrare  chi ha ragione e chi ha torto. Fin da bambini ci hanno inculcato questo pensiero, sia genitori che insegnanti ci hanno indotto a rispondere alla domanda: “chi ha cominciato?” La convinzione di poter definire con precisione l’evento iniziale di un conflitto decade quando si comprende la natura sistemica e circolare dell’interazione comunicativa, la semplice frase: “non sono io che mi spiego male, sei tu che non capisci”, può evidentemente essere ribaltata da qualsiasi interlocutore che non condivide o non accetta questo punto di vista. Questo concetto, nella sua semplicità realmente “rivoluzionario” rispetto al pensiero comune, è ben spiegato da uno degli assiomi della Pragmatica della Comunicazione, definito: la “punteggiatura della sequenza di eventi”. Quello che accade, è che in genere i protagonisti di un conflitto non negano l’oggettiva realtà di una situazione  - nel caso dell’esempio precedente: non riuscire a capirsi -  ma si definiscono solamente “l’effetto”, perché la “causa”, il motivo per cui non si capiscono, dipende dall’altro. Se i due contendenti si irrigidiscono su questa posizione, e non sono disposti a cambiare la loro visione del conflitto, non si potrà che assistere a una ulteriore immissione di forza nello scontro (escalation simmetrica). 

Lo schema descritto finora è, nella sua essenza, molto semplice e la sua natura è così radicata nel profondo del comportamento umano, da poterci permettere di paragonare qualsiasi piccolo litigio con i grandi conflitti internazionali. Quando ai tempi della guerra fredda si parlava di “corsa agli armamenti”, nessuno dei due contendenti, USA e URSS, negava “l’oggettiva realtà della situazione”, se interpellati rispondevano: “è vero che stiamo aumentando i nostri armamenti, ma lo facciamo solo per ragioni difensive (l’effetto) perché sono gli altri ad aver assunto posizioni minacciose e offensive (la causa) alle quali siamo costretti a rispondere. È necessario, quindi, abbandonare l’idea di potersi ricavare un vantaggio stabilendo la causa originaria del conflitto, perché all’interno di qualsiasi relazione continuativa chiunque è sempre capace di poter attingere a un “prima”, e quando questo non è possibile, come è realmente avvenuto in molte vicende umane, inventarlo. Emblematico a riguardo l’episodio che coinvolse l’allora segretario di Stato USA Colin Powell, che si presentò al palazzo dell’ONU con una boccettina di antrace. Quella che doveva essere la “pistola fumante”, l’antefatto che giustificava la guerra, era in realtà una prova del tutto falsa, come lo stesso Powell ammise anni dopo. 

In sintesi, sia nelle piccole dispute, come nei grandi conflitti, ci troviamo di fronte a un deficit di consapevolezza dovuto alla difficoltà di accettare la natura indubbiamente complessa, e per certi versi contro-intuitiva, della comunicazione, che proprio nel conflitto rivela in modo quanto mai esplicito la sua natura sistemica (circolare e ricorsiva), che porta, attraverso il concetto di feedback, a superare la visione lineare causa-effetto, per approdare a uno scenario nel quale le persone coinvolte sono unite da un particolare legame: il “vincolo d’interdipendenza”, all’interno del quale i protagonisti influenzano e dipendono nel medesimo tempo. 

La dimensione Negoziale e il vincolo d’interdipendenza 

Il “gioco del pollo”, messo in atto dai protagonisti di “Gioventù bruciata”, rivela, seppure nelle sue forme azzardate, il tentativo di risolvere una disputa, un conflitto, una divergenza. Questo intento è anche uno dei requisiti essenziali affinché il confronto tra due parti venga definito negoziale. Quello che rifiutano i protagonisti del film, ma anche molti dei soggetti coinvolti in situazioni reali, è accettare pienamente la seconda condizione, che rappresenta l’altro requisito necessario per definire le forme di un confronto come negoziali. Questa seconda condizione è il “vincolo di interdipendenza”, situazione in cui l’obiettivo di ognuna delle parti può essere raggiunto solo attraverso l’altra: nessuna delle parti coinvolte nell’interazione dispone di tutto il potere, l’azione di ognuna delle parti in gioco influenza e dipende dall’azione dell’altra. Chi negozia decide infatti di “abbandonare le armi” e lo scontro asimmetrico, per mettersi attorno a un tavolo a discutere avendo fiducia di trovare una soluzione. Per questa ragione possiamo considerare questa particolare condizione, il “metodo negoziale”, quando viene formalmente accettato, come una tra le conquiste più alte della nostra civiltà: uno strumento capace di risolvere i conflitti generando valore. Affermare questo non significa certo sottovalutare l’intrinseca difficoltà del metodo. L’abitudine a risolvere i conflitti attraverso prove di forza è troppo radicata nell’animo umano. Per la nostra mente, quindi, è estremamente difficile fare coesistere queste due forme di relazione all’interno della medesima situazione: affermare e concedere; convincere e accettare; influenzare e dipendere. 

La consapevolezza di questo limite della natura umana era ben chiara a un geniale pedagogista, Loris Malaguzzi, creatore a partire dagli anni 60’ di un modello di scuole per l’infanzia divenute molto note anche all’estero sotto il nome di “Reggio Emilia Approach”. Per affrontare questa difficoltà aveva ideato un gioco molto efficace: stendeva sul pavimento un grande foglio che conteneva la sagoma di un animale e chiedeva ai bambini di ricalcare il bordo di quella sagoma con una matita colorata a loro disposizione. La matita di ognuno di loro era però legata alle matite di tutti gli altri mediante una fitta ragnatela di sottili cordicelle. Ogni singolo bambino si accorgeva a questo punto che in alcune fasi poteva avanzare e che in altri momenti invece era necessario fermarsi per far procedere qualcun altro, fino a quando, diminuita la tensione della corda, poteva nuovamente spingere in avanti la propria matita. Non era necessaria, dunque, nessuna spiegazione o una qualche elaborazione cognitiva, i bambini sperimentavano direttamente sul loro corpo, fisicamente, questo strano ossimoro: per poter avanzare devi fermarti. 

Addio alle armi 

“Addio alle armi”, titolo del celebre romanzo di Ernest Hemingway, è una efficace metafora della dimensione negoziale, che ancor prima di essere una tecnica, uno strumento o una competenza, è una “visione del mondo”, che appartiene a chi crede che con le parole, con il dialogo, si possano risolvere i conflitti. L’aspetto più importante per poterli risolvere, per trasformarli in una dimensione, magari sofferta, ma intenzionalmente costruttiva, è rappresentato da una profonda consapevolezza della dinamica relazionale che li caratterizza. All’interno della teoria dei giochi vengono identificate due principali forme di confronto: i giochi a “somma zero” (win-lose), uno scenario in cui ciò che è guadagnato da una parte è sottratto all’altra e viceversa, per cui la somma finale è zero; e i giochi a “somma diversa da zero” (win-win), una situazione in cui entrambe le parti riescono a ottenere un risultato positivo. Il punto di equilibrio in grado di generare l’accordo può essere garantito da ambedue le forme, ma i risvolti psicologici e di soddisfazione delle parti sono evidentemente molto diversi. Lo sviluppo del processo negoziale in una o nell’altra direzione dipende molto dall’atteggiamento con cui le parti coinvolte affrontano il confronto, che equivale a dire che è nostra la responsabilità e la libertà di agire in modo da favorire “l’apertura o la chiusura” del sistema di relazione in cui siamo coinvolti. 

Perché è così difficile rendersi conto che la vita è un gioco a somma diversa da zero?”, si chiede Paul Watzlawick in  Istruzioni per rendersi infelici, facendoci capire che il primo passo per rifiutare la logica della guerra è uscire dall’inganno del “si vince o si perde”. Chi accetta la logica dei giochi a somma diversa da zero è senz’altro capace di trovare soluzioni che rappresentano la miglior mediazione possibile per tutelare i diversi interessi delle parti, ma a volte anche di andare oltre, e infrangere quell’apparente confine, quel sistema di vincoli che forse appartiene solo alle nostre convinzioni, per dispiegare il meglio delle qualità umane.  Sono molti gli esempi possibili perché, per quanto difficili, anche le cose migliori accadono. Ma nessuna di queste storie ha il valore simbolico di quanto accadde a sud di Ypres, nelle Fiandre,  durante l’inverno del 1914. La Prima guerra mondiale era cominciata da pochi mesi, dalle trincee, dove poveri soldati mandati al massacro si sparavano contro, si levarono dei canti. Era la notte di Natale, qualcuno ebbe il coraggio di uscire. Le foto sbiadite di allora testimoniano quell’incredibile incontro, tra i nemici, nella terra di nessuno. Vennero scambiati doni, abbracci, strette di mano. Seppellirono i caduti di entrambe le parti e venne  giocata pure una partita di pallone. Ancor oggi, tra le tante battaglie ed episodi di guerra che vengono studiati durante gli anni della scuola, la “Tregua di Natale” del 1914 resta un episodio poco conosciuto.

 

 

 

Pubblicato il 28 febbraio 2025