Un progetto non è mai veramente terminato e l'artefatto nato dal progetto non è mai del tutto 'completo, 'pronto'. Si dice che il progetto è tensione verso uno scopo. Ma il progetto non raggiunge mai veramente, con precisione, lo scopo prefissato prima del suo inizio. Un progetto, del resto, può ben finire per raggiungere uno scopo la cui evidenza, inattesa, inizia ad emergere solo durante la vita del progetto stesso. Il progetto, in effetti, rinasce in ogni istante: ciò che è fatto è fatto, ma in quest'istante tutto può apparirmi in luce nuova.
E così per ogni progetto. Ma questa plasticità è particolarmente evidente nei progetti basati su codice digitale.
STULTIFERANAVIS è un luogo dove si può leggere e si può scrivere
Avremmo potuto, Carlo Mazzucchelli ed io, proporci di dar vita ad una rivista, cartacea o digitale; avremmo potuto porci una meta, un punto d'arrivo: qualcosa di simile a un Journal scientifico, qualcosa di simile a una rivista culturale o a una piattaforma di blogging.
Ma basta dire: è un luogo dove si può leggere e si può scrivere. Un baule dove si mettono cose, e da cui si possono estrarre cose: in questa sua caratteristica generale la nostra piccola pazza nave resta, in questa sua caratteristica generale, vicina all'originaria idea del World Wide Web.
Non ci poniamo vincoli tematici, non predefiniamo aree di interesse. Cerchiamo anzi per quanto possibile, per quanto accadrà, la transdisciplinarità.
Dove nel Web sta l'enorme sconfinata massa, qui Carlo ed io ci proponiamo di coltivare il poco, ciò che appare sensato a noi, e a tutti coloro che vorranno entrare a far parte di una comunità che speriamo cresca: anche questo fa parte del progetto.
STULTIFERANAVIS è un baule dove si mettono cose, e da cui si possono estrarre cose
In luogo dell'enorme massa di documenti, in luogo di informazioni che emergono oggi dalla scatola nera delle cosiddette 'intelligenze artificiali', narrazioni significative, pagliuzze di conoscenza, aghi tratti dal pagliaio. Questa speriamo sia la Stultifera Navis.
Non un progetto che genererà qualcosa, alla fine di una fase di sviluppo. Ma uno sviluppo senza fine, un progetto che continua, in continua evoluzione.
Il latino pro-, ‘in avanti’, discende da una idea indoeuropea da cui anche, tra l‘altro, la prua della nave.
Progresso: ‘camminare in avanti‘. Processo: i passi di chi pro- (in avanti) cede (si muove senza opporre resistenza). Produrre: ‘condurre innanzi‘, ‘portare fuori‘; il programma: ‘scritto prima‘.
Profezia: ‘dire prima‘. Programma: scritto prima.
In questo contesto si colloca il progetto: pro- jacere, ‘gettare in avanti‘, scagliare una lancia o una freccia così come si gettano i dadi.
Progettare: pro iactare. Il senso del pro può essere reso con un’immagine: la prua della nave, il tentativo costante di fendere le onde, andando oltre.
Iacere, e il suo intensivo iactare è in latino “gettare”: gettare la lancia, la freccia, verso un bersaglio. Bersaglio deriva infatti dal francese berser, “colpire tirando con l’arco”. In greco “bersaglio” era skopós: eccoci allo scopo del progetto.
Projecter si afferma in francese all‘inizio 1400. Di qui in inglese, project, in tedesco Projekt, in russo proekt, in spagnolo, proyecto, in portoghese projeto. Importante ricordare che in ogni lingua, insomma, l‘espressione conserva il senso di ‘scagliare’, e quindi anche ‘emettere raggi luminosi’, ‘rappresentare immagini su uno schermo’. Una sola parola, un solo verbo esprimono un'idea che è allo sesso tempo militare, geometrica, psicologica, cinematografica.
In italiano, invece, l’idea resta spezzata in due: da un lato arriva direttamente dal latino il proiettare, dall'altro giunge a noi dal francese il progetto. Per ben intendere il progetto, ci conviene tener presente il senso di proiezione, e di freccia o proiettile lanciata verso il bersaglio.
Per cogliere appieno il senso del progetto, ci conviene dunque ricordare l'immagine del progetto, conviene poi ricordare anche che al latino iacio, iacto corrisponde esattamente il greco: bállo, “io lancio”, “getto”.
Conviene poi ricordare anche che al latino iacio, iacto corrisponde esattamente il greco: bállo, “io lancio”, “getto”. Anteponendo il pro si ha pro-ballo “getto innanzi”, “metto fuori”, “propongo”, “produco”, “progetto”. Come da pro iacio si ha proietto, progetto, da pro ballo si ha problema. Progetto e problema sono dunque due facce della stessa medaglia, due concetti mutualmente implicati. Il problema è un inciampo sulla via del progetto; non c'è progetto che non comporti problemi.
Dal greco ballo, anche balestra e balistica. Non a caso la balistica studia il lancio di proiettili sia con armi a tiro teso, sia con armi a tiro curvo. Il semplice mortaio, così come il nuovissimo missile balistico, sono armi a tiro curvo: l’artigliere “tira a indovinare”, effettua il lancio da lontano, senza vedere il bersaglio. E per questo si deve fidare di una rappresentazione semplificata del mondo in cui si trova ad agire: una mappa, un piano. In francese, nel 1500 entra in uso la parola plan (latino planum, radice indoeuropea pela-, ‘piatto’, ‘disteso’), nel significato di ‘rappresentazione di un qualcosa su una superficie piana’, e quindi: ‘disegno’, ‘pianta’.
Ecco dunque la pianificazione. La sostituzione di una realtà che ci è impossibile vedere, conoscere appieno -il progetto- con una sua descrizione stilata su un supporto piano.
Il migliore dei progetti possibili: la torre di Pisa
Nel 1063, quando la città primeggiava nel mondo cristiano per potenza politica e militare, per prosperità economico e per produzione culturale, i pisani decisero di dar inizio alla costruzione del nuovo Duomo. Iscrizioni murate nella facciata lodano l’architetto Buscheto, sepolto in un sarcofago romano rilavorato, facente parte della stessa facciata. Buscheto è esaltato come superiore a Ulisse e Dedalo, non solo per la sua pura arte, ma per la sua attitudine al progetto: viene specialmente lodata la perizia con cui seppe provvedere al trasporto per mare e per terra delle enormi colonne, ovviando anche alle imboscate genovesi e saracene.
Ogni progetto è un unicum, uguale solo a se stesso, è un prototipo, un capolavoro.
Non a caso la lode a Buscheto culmina nel nel verso: “Non habet exemplum niveo de marmore templum”, non ha prototipo né paragone questo tempi di marmo candido. Si sta parlando qui dell’eccezionalità dell’opera, che imponendo un proprio stile, romanico pisano, vole emulare le grandi architetture della Roma imperiale e dell’Islam, e che compete, per proporzioni e complessità, con i massimi templi della cristianità, la prima basilica di San Pietro, Santa Sofia di Costantinopoli. Ma si sta parlando, anche, di un aspetto essenziale di ogni progetto: del progetto, di ogni progetto, non habet exemplum. Ogni progetto è un unicum, uguale solo a se stesso, è un prototipo, un capolavoro.
Nel 1118 il Duomo è consacrato. Nel 1152 iniziano i lavori del Battistero. Anche qui, fortunosi viaggi per mare, difficile trasportare le grandi colonne monolitiche di granito impiegate nella costruzione. Interessante per noi il coinvolgimento dei ‘portatori di interessi’, che sono in fondo tutti i pisani. Così, narrano le cronache, nel 1163 è istituita la tassa mensile di un denaro per nucleo familiare, e per la messa in opera delle colonne sono organizzate corvées nei quartieri.
Finalmente, il 9 agosto 1173 viene posato il primarium lapidem, la prima pietra del Campanile.
Dopo una decina di anni, quando la costruzione è giunta a circa un metro e mezzo del terzo ripiano, si è costretti a sospendere il lavoro. La torre, a causa del terreno instabile e acquitrinoso, si è inclinata paurosamente, nonostante le correzioni della pendenza messe in atto in corso d’opera. Si decide per una mesta soluzione: la torre mozza ed inclinata è coperta con una cupoletta, lì vengono montate le campane.
Devono passare cinquant’anni prima che, constatato che il troncone è saldo, e che l’affondamento non si aggrava, si prenda in considerazione la possibilità di riaprire il cantiere. I lavori riprendono, probabilmente tra il 1272 e il il 1275. Ma l’inclinazione, sebbene in modo discontinuo, si accresce. Così ancora una volta, di nuovo dopo una decina di anni di lavoro, giunti ora al quinto ripiano -nonostante la cura posta nel controbilanciare la pendenza con scelte statiche che sfruttano la massimo le tecnologie disponibili-, si è costretti ad una soluzione di ripiego: si trova a quel livello una collocazione per le campane, e si sospendono i lavori.
La leggenda, più che la storia, vuole che questo avvenga nell’anno più infausto per la storia di Pisa. Il 6 agosto 1284 la Repubblica pisana è sconfitta dalla rivale Repubblica di Genova nella battaglia della Meloria (bassi scogli al largo di Livorno). Non fu solo la perdita di 49 galere, non furono solo i seimila morti, gli oltre diecimila prigionieri. Fu per Pisa l’inizio del declino.
Eppure i lavori in piazza del Duomo proseguono. Nel 1277 erano state poste le fondamenta dell’ultimo edificio della mirabile piazza, il Camposanto. Ma per una nuova apertura del cantiere della Torre si deve attendere ancora. Le fonti, lacunose, spingono a datare l’ultima ripresa attorno al 1370, giusto duecent’anni dopo l’inizio dei lavori, e cent’anni dopo il secondo ciclo.
Una sesta loggia si aggiunge alle cinque già edificate. E sopra la sesta loggia, con evidente funzione di elemento terminale della costruzione, la cella campanaria. La correzione della pendenza, già presente nel sesto ripiano, è sensibilissima nella cella.
Conosciamo i nomi dei primi progettisti e costruttori degli altri tre edifici:il Duomo, il Battistero, il Camposanto, ma del Campanile no. Né una iscrizione sull’edificio, né un documento degli storici locali ci dà notizia certa del nome. Dobbiamo ragionevolmente attribuire questo silenzio alla vergogna o alla censura, sempre conseguenze di quello che fu inteso come un grave infortunio tecnico: la torre che si inclina, il progetto realizzato che fatalmente si allontana dal progetto pensato a priori.
Nel 1800 vengono effettuati dei lavori che riportarono alla luce parte del basamento interrato. Fu un grave errore che alterò la stabilità della torre, accelerandone il processo di inclinazione. Così, tra il 1990 al 2001, è aperto un nuovo cantiere. Ancora una volta, le più avanzate tecnologie dell’epoca sono adottate per mantenere in piedi l’edificio, nonostante l’inclinazione. Lo spostamento laterale dall’asse, che aveva superato i cinque metri, è ora ridotto a meno di quattro. Si prevede che il cantiere non debba essere riaperto per trecento anni. Ma è meglio non sbilanciarsi in previsioni, perché la Torre di Pisa è in sé una sfida alla previsione, e alla purezza del progetto.
Proprio la pendenza, e cioè lo scostamento dal progetto come avrebbe dovuto essere realizzato, si rivela essere, al di là di ogni pretesa di controllo dei progettisti, l’origine della qualità dell’artefatto; la fonte della sua inattesa -anzi: non prevedibile- bellezza.
Tanto che, negli anni Trenta del 1800, ebbe luogo una vivace polemica. Poiché, secondo una diffusa concezione, non può esistere buon esito che non sia contemplato dal progetto, un erudito si accanì nel sostenere che la pendenza della torre era voluta, era prevista dal progetto. Fu presto smentito.1
La lezione della Torre di Pisa
Il progetto può essere tradotto in pratica solo se si accetta ciò che propone o impone l’ambiente. Ciò non significa che si debba rinunciare a prevedere: è sempre utile e costruttivo darsi obiettivi, è sempre utile esplicitare aspettative ed intenderle come vincolo di tempo, di luogo e di costo, di modo (ovvero: di tecnologia). Ma si deve restare disposti a rivedere qualsiasi aspetto della previsione, in qualsiasi momento. Solo rinunciando all’attaccamento a ciò che inizialmente si era pensato, si permette che venga alla luce un risultato. Il migliore dei progetti possibili, è un progetto che che si traduce in qualcosa che può avere luogo nel mondo. Qualcosa che può aver luogo non in un mondo ideale, ma in quel sito, in quel tempo. Così c’è una Torre di Pisa, la migliore delle torri possibili, nel 1100, c’è la torre del 1200, la torre del 1300, la torre del 1800, la torre del 1900, la torre del 200.
La storia Torre di Pisa ci parla di ambiente: il cedimento del terreno dipende dalla natura del terreno di quel luogo. A questo proposito, però, appare fallace puntare il dito, anche con grande precisione tecnica e storica, su un solo fattore: guardare per esempio all'argilla molle normalconsolidata: argilla che nel corso della sua storia geologica è stata sottoposta a tensione... Usare questa chiave di lettura specializzata è, ancora una volta, eludere la complessità: la pluralità di cause e di effetti, l'intreccio tra natura e azione umana.
La storia della Torre di Pisa ci parla di tecnologia: la tecnologia per costruire la torre in quel luogo, nel momento in cui è iniziato il lavoro, è stata sfruttata fino al limite. Ma non era sufficiente per portare a termine il progetto. La tecnologia di cent’anni dopo, e di duecent’anni dopo, ha permesso di vedere le cose in modo diverso. Così come la tecnologia della fine del millennio. Ogni volta la Torre è stata vista in modo diverso, ogni volta è stato possibile pensare soluzioni prima impensabili.
La storia della Torre di Pisa ci parla di scopo: lo scopo può essere raggiunto solo con approssimazione. Scopo è alla lettera ‘bersaglio’, e basta dunque pensare a come, osservata da vicino, l’idea stessa del bersaglio ci appare diversamente leggibile. Ci sono bersagli mobili e fissi, bersagli visibili e non visibili, così come bersagli defilati al tiro, perché protetti da una massa coprente. E se anche guardiamo al bersaglio da tiro a segno vediamo un sistema di cerchi concentrici e di sezioni. Posso colpire in luoghi diversi il bersaglio, ed in ogni caso l’ho centrato. Non riuscirò mai in ogni caso a colpire perfettamente il centro del bersaglio. E non si vede perché sprecare risorse tentando di avvicinarsi più di tanto a questo comunque irraggiungibile centro.
Pur di arrivare alla torre realizzata, edificata, si è dovuto rinunciare ad un aspetto che il progetto considerava indiscutibile: la verticalità. La torre -edificio pensato come tensione verso il cielo- vede verso l‘alto per essere una buona torre deve essere dritta, deve tendere rettamente verso il cielo.
La storia della Torre di Pisa ci parla del ‘senno di poi’: solo con il senno di poi, che è frutto di giudizi e letture diverse, frutto dell’interpretazione di persone diverse, interpretazioni svolte in luoghi ed in tempi ed in contesti culturali diversi, imprevedibili a priori, si può capire cosa è il progetto.
Il progetto inizia a rivelare se stesso, inizia a svelare i suoi segreti, quando si smette di progettare 'sulla carta', cercando di pre-vedere come il progetto si svilupperà. Il progetto si rivela solo durante la sua realizzazione. Il progetto appare chiaro solo dopo. Solo dopo ci si può accorgere di cosa abbiamo fatto, solo dopo si può narrare, raccontando come ci si è mossi. Non si può fare la storia del presente, il presente può essere solo vissuto. Solo quando il lavoro di progettazione è terminato, e il progetto si è trasformato in cosa, la cosa può essere usata. Solo nell’uso si comprende l’essenza della cosa.
Anche l’estetica del progetto è emergente: siccome siamo vittime di una certa idea di progetto, che ci porta ad intendere la bellezza come conformità alla previsione, di fronte all’incontestabile bellezza della torre si è anche tentato di sostenere che il progetto pre-vedeva una Torre pendente.
Invece, la torre, così come ci è dato di vederla, è nata dall’impossibilità di far altrimenti: pur di arrivare abbastanza vicini allo scopo, si sono dovuti accettare scostamenti dal progetto, scostamenti vissuti con senso di frustrazione, delusione e colpa. Eppure ciò che appariva -nei momenti in cui non si è potuto fare altrimenti che adattare il progetto alla situazione- rinuncia, difetto, limite, appare oggi ai nostri occhi ‘vantaggio competitivo’ della Torre rispetto ad ogni altra torre.
La Torre di Pisa esiste, perché esseri umani, a centinaia di anni di distanza, hanno saputo reagire a catastrofi. Mantenendo viva la visione, e allo stesso tempo accettando ciò che accadeva nel durante. Senza perdere fiducia. Nella convinzione che il progetto avrà una sua vita ed un suo mai del tutto prevedibile successo solo se evitiamo di controllare tutto, di governare tutto. Il progetto genererà qualcosa che avrà una sua presenza, una sua vita, solo solo se accetteremo ciò che, anche nostro malgrado, per fortuna, accade.
Una cartiera pakistana e un poetico, ma tragico accidente
Karnaphuli: fiume dell’Est Bengala - la parte del Bengala, ora Bangladesh, che per la prevalenza di cultura musulmana, venne a far parte del Pakistan, quando nel 1947 il nuovo stato nasce per separazione dall’India.
A una cinquantina di chilometri da Chittagong, primo porto pakistano, affacciato sul golfo del Bengala, lungo il fiume Karnaphuli, nei pressi di Chandraghona, in una zona priva di qualisasi insediamento, l’ente statale per lo sviluppo industriale -Pakistan Industrial Development Corporation- sceglie il sito dove ubicare quello che doveva essere uno dei più grandi insediamenti industriali pakistani, una delle cartiere più grandi dell’intera Asia.
Quando il progetto decolla il Pakistan ha appena raggiunto l’indipendenza: il nuovo stato è nato nel 1947. I confini tra India e Pakistan sono stabiliti in base alla prevalente cultura religiosa. L’Est Bengala è musulmano, e quindi entra a far parte del Pakistan.
Il progetto prevede l’utilizzazione di una materia prima di facile accesso: le vaste foreste di bambù di Chittagong Hill Tracts, lungo i contigui affluenti del fiume Karnaphuli.
La fabbrica comincia a produrre nel 1953. Nella fase iniziale si incontrano più problemi tecnici e di gestione, del previsto, ma quando nel 1959 la gestione passa in mani private (Dawood Group), l’avviamento può dirsi terminato, e lo stabilimento funziona ormai a pieno regime.
Ma subito dopo, però, un fenomeno di grandi proporzioni, minaccia l’esistenza stessa della fabbrica: il bambù comincia a fiorire. Si tratta di un evento assolutamente imprevisto, ed anzi -alla luce delle conoscenze e degli strumenti di previsione di cui si disponeva- probabilmente imprevedibile. Solo di fronte all’evidenza si osserva con attenzione l’accadimento inatteso, e si studia con attenzione la pianta. Si viene a sapere che la fioritura di verifica ogni cinquanta, o forse settant’anni.
In any event, the variety that supplied the Karnaphuli mill whit some 85 percent of its raw material flowered and then, poetically but quite uneconomically, died.2
Comunque la varietà di bambù che forniva alla fabbrica di Karnaphuli circa l’85% della materia prima, fiorì, e in modo poetico ma del tutto antieconomico, morì.
Si sapeva che la fioritura del bambù provoca la morte dell’intera pianta, e che la rigenerazione avviene dai semi invece che, come al solito, dai rizomi; ciò che non si sapeva, era che il bambù morto per fioritura non sarebbe stato utilizzabile per la pasta di legno, poiché si sarebbe disintegrato durante il trasporto, che veniva effettuato facendo scendere a valle le canne, galleggiando sulle acque del fiume.
Un’altra spiacevole sorpresa si ebbe quando si scoprì che, una volta terminata la fioritura, si sarebbe dovuto attendere un certo numero di anni prima che le nuove canne di bambù crescessero a un’altezza tale da consentirne lo sfruttamento.
Così, nel suo settimo anno di attività, la fabbrica si trovò a dover affrontare un problema gravissimo, e totalmente imprevisto: trovare una materia prima alternativa.
Come soluzione temporanea e costosa, il problema venne risolto importando la pasta di legno necessaria. Ma presto vennero alla luce soluzioni più originali.
Fu creata un’organizzazione per la raccolta del bambù in tutti i villaggi del Pakistan Orientale: il sistema fluviale che attraversa il paese in tutte le direzioni permette trasporto a buon mercato; legname di tutte le specie venne tagliato nelle pianure. E, cosa più importante, fu dato l’avvio a un programma di ricerca per identificare altre piante a crescita rapida, che potessero in qualche modo rimpiazzare l’inaffidabile bambù .
Albert Hirschman: i vantaggi della sottostima
Ci racconta questa storia Albert Hirschman. Studente a Berlino, ha diciotto anni quando lascia la Germania per sfuggire alle leggi razziali. Studia alla Sorbona, alla London School of Economics, e a Trieste, dove trova un maestro nel cognato, il giovane filosofo Eugenio Colorni. Nel 1940 ripara negli Stati Uniti. Nel dopoguerra è economista presso la Federal Reserve, poi è in Colombia, impegnato in progetti di sviluppo. Docente universitario, continuerà a pensare con approccio interdisciplinare.
Il caso della cartiera pakistana gli offre occasione di riflessione. Guardando indietro, si può dire che si è trattato di ‘fortuna’:
Its planners had badly overestimated the permanent availability of bamboo, but the mill escaped the possibly disastrous consequences of this error by an offsetting underestimate -or, more correctly, by the unsuspected availability- of alternative raw materials.3
La pianificazione è astratta, non riesce a cogliere le specificità del contesto. E dunque sovrastima la disponibilità di bambù. Ma l’errore, le cui conseguenze avrebbero potuto essere disastrose, è compensato dalla sottostima – o per dir meglio: dalla del tutto inattesa disponibilità- di materie prime alternative.
Si tratta di una esperienza che accomuna chiunque si dedichi a un progetto: a causa dell’abitudine che ci fa intendere il progetto come piano redatto a priori, che tutto descrive, riteniamo doveroso programmare tutto, e fare solo poi solo ciò che si è previsto. Perciò si allocano a priori risorse a fronte di ogni attività prevista; ma non solo: si allocano risorse a fronte di ogni singolo rischio. Così facendo, impegnano risorse per attività che potranno non rivelarsi necessarie, gonfiando i costi del progetto. Per ‘fortuna’ -che è in realtà nostra consonanza con gli eventi, quando gli eventi accadono- accade poi che ‘si trovi la soluzione’, ma intanto risorse sono state inutilmente impegnate altrove.
Si chiede dunque Hirschman: visto che i progetti sono normalmente, e forse inevitabilmente, descritti da piani lacunosi ed erronei, vi sono ragioni per ritenere che si verifichi sistematicamente un’associazione tra errori, che ‘provvidenzialmente’ si combinano tra loro?
Sarebbe assurdo aspettarsi che la sovrastima delle risorse disponibili sia sempre puntualmente compensata da una speculare sottostima di risorse alternative disponibili. Ma invece possiamo considerare plausibile, e anzi quasi ovvia, la seguente più generale affermazione: ogni progetto nasce avendo nel proprio futuro (a) diverse imprevedibili minacce, e (b) diverse inimmaginabili azioni in grado di porre rimedio alle minacce.
Possiamo dunque enunciare un principio operativo di carattere generale: l’intervento di fattori creativi rappresenta sempre una sorpresa; perciò non si può mai contare su di essi, né fidarsi che si manifestino, fintantoché non si manifestano effettivamente.
Di conseguenza, il modo per mobilitare le risorse di tipo creativo necessarie al successo del progetto -risorse di cui di cui disponiamo, ma che ci è impossibile vedere- consiste nel fraintendere la natura dell’impresa, immaginandola come meno impegnativa, più semplice, meno esigente in fatto di risorse di quanto supponiamo necessario (ovvero: meno esigente in termini di risorse di quanto a cose fatto sarà probabilmente risultato necessario).
Siamo portati, dal nostro timore, dalla paura, ma anche dalla nostra cautela, a sottostimare la nostra capacità di dare risposte creative a difficoltà emergenti. Perciò, ci suggerisce Hirschman, occorre sottostimare in misura equivalente anche le difficoltà, in modo da essere condotti, dall’azione convergente delle sottostime che tendono a compensarsi, a compiere imprese che sono alla nostra portata, ma che altrimenti non avremmo il coraggio di affrontare.
The Principle of the Hiding Hand
Dunque l’occultamento delle difficoltà è benefico: se evitiamo di fasciarci la testa prima di essercela rotta, meno ci preoccupiamo (in anticipo), più lavoriamo senza timore, più saremo disposti a guardare il mondo, e quindi a trovare una via d’uscita, nel momento in cui si presenta una difficoltà.
Hirschman chiama questo virtuoso principio mano che nasconde.
Affrontiamo i problemi che pensiamo di poter risolvere. Perciò finiamo per affrontare meno problemi di quelli che, quando ci trovassimo ad affrontarli, sapremmo risolvere.
Ma quando poi ci si trova in situazioni scomode o delicate, siamo costretti a guardare in faccia ai problemi. Ormai, essendo in ballo, dobbiamo ballare, e volenti o nolenti facciamo fronte alle difficoltà. Avendo già investito risorse ed avendo messo in gioco il proprio prestigio, siamo a quel punto fortemente motivati a individuare e a mettere in pratica soluzioni. Col senno di poi, possiamo dire di aver così affrontato e risolto -ecco l’aiuto della mano che nasconde- problemi che a mente fredda e a bocce ferme avremmo considerato irrisolvibili.
Perciò è opportuno, oltre una certa soglia, oltre ad una previsione di massima, evitare di pensare al futuro: il progetto che c’è, e che può avere futuro, è il progetto che abbiamo sotto gli occhi in questo istante.
Difficoltà che esigono un certo livello di impegno, se sono prese in considerazione prematuramente, possono scoraggiare il proseguimento del progetto, mentre potranno essere affrontate con determinazione se ci se ne fa carico in una fase successiva – nel momento propizio.
Perciò, anche se non con piena consapevolezza, facciamo ricorso alla mano che nasconde, specialmente in alcune fasi del progetto.
Hirschman si sofferma in particolare sulle fasi iniziali. Quando si tratta di decidere se 'imbarcarsi' in un progetto, a iniziare questo viaggio nell'ignoto, si è spontaneamente portati a presentarlo – anche a noi stessi, e così ad ogni possibile partner ed interlocutore – nella sua luce migliore: non troppo difficile, di esito quasi sicuro. Perché se sottolineassimo, anche ai nostri stessi occhi, gli aspetti problematici, solleveremmo dubbi, ci tireremo addosso incertezze. I motivi per soprassedere, rinviare, rinunciare, sono sempre presenti.
Dunque la soluzione di Hirschman è buona per evitare di rinunciare. Ci invita a minimizzare i requisiti necessari per iniziare, per metterci in gioco. Ci invita ad agire mossi dalla saggia consapevolezza di come al di là di ogni sforzo di previsione, il futuro resta ignoto, ed aspetti del progetto restano oscuri. Sta a noi saper credere che se durante la vita del progetto emergeranno problemi, emergeranno anche soluzioni.
L'imprevisto, nella narrazione della storia della cartiera in Bangladesh, è anche poetico: le canne fioriscono, la materia prima viene meno. Ma lungo i fiumi vicini altro legno, materia prima, a cui prima non si era pensato, è disponibile ed accessibile.
Agire in vista di
E' inutile, e forse impossibile, descrivere la complessità. La complessità può solo essere vissuta.
Ci è utile, per parlare di questo, più della metafora del viaggio per terra, la metafora del viaggio per acqua, per mare.
Progettare è viaggiare lasciando alle spalle in porto da cui si è salpati. E' sapere che il punto di approdo non sarà necessariamente quello che avevamo previsto prima di partire. Nemmeno ora, durante il viaggio, sappiamo in qualche porto approderemo. Gli strumenti per non perderci, gli strumenti per muoverci nell'incertezza, sono ancora oggi, in fondo, gli strumenti degli antichi naviganti. La vela, il timone. E poi i nostri sensi attenti all'intorno, cui si aggiungono astrolabi, sestanti, solcometri, bussole, cannocchiali.
Durante il viaggio, infatti, ciò che conta, è 'fare il punto': sapere, con la maggior approssimazione possibile, 'a che punto siamo', 'dove ci troviamo'. Cosa stiamo apprendendo in questo momento? Cosa ci dice la situazione che stiamo vivendo?
Istante dopo istante, la complessiva visione del progetto si evolve, ci appare differente. Il progetto, in realtà, inizia di nuovo in ogni istante.
Ogni oscurità si rischiara solo nel momento in cui la attraverso. E dunque la pro-iezione, il progettare, il pro-gettarsi, così intesi, ci appaiono ben distinti dalla fuga nell’utopia, o dall’affidarsi a soluzioni esterne. Il progetto è agire, facendo i conti con le rugosità del terreno che stiamo calpestando.
Possiamo dunque accettare il paradosso di un progetto il cui scopo si ridefinisce continuamente.
Possiamo accettare di lavorare a progetti che vanno oltre il proprio – apparente, inizialmente definito – scopo. Dobbiamo accettare progetti dotati di una pluralità di scopi. Dobbiamo infine, forse, accettare progetti senza scopo: sono forse questi i progetti ai quali vale veramente la pena dedicarsi.
C’è un modo di intendere il progetto che concentra l’attenzione sull’accurata descrizione, già in fase di decollo, “delle cose da fare”. Ma conviene invece porre l’attenzione sulle potenzialità implicite nel progetto, ovvero sulle potenzialità di cui sono portatrici tutte le persone implicate nel progetto. Tutto ciò di cui gli essere umani che progettano sono portatori: esperienze, visioni, tecniche. Attenzione, intenzione che si rinnova in ogni momento del progetto, in una tensione continua che nasce dal togliere oscurità a ciò che si presenta come problema istante dopo istante.
L’agire, qui, è il cercare quello “stato di grazia” che porta oltre gli ostacoli, permettendo di attingere a esiti e risultati che potranno essere quelli già attesi, ma anche altri, del tutto inattesi. Lo “stato di grazia” si mostra possibile se si accetta una doppia apertura: progettare tendendo a un risultato; e progettare allo stesso tempo se stessi.
Il rivelarsi dell’agente nell’atto: l’uomo agente rivela se stesso, scopre il suo essere nell’agire ansioso e responsabile aperto al continuo presentarsi. Il progettista genera il progetto: dal sogno, dalla visione, nasce qualcosa che proietta oltre i confini del comodo presente.
Il progetto è frutto della continua interazione che coinvolge ogni persona interessata. Il progetto è sottrazione di mistero. Il progetto è un lavorare attorno a un prototipo, un semilavorato che resterà sempre imperfetto, ma che può essere continuamente migliorato. Il progetto è accumulazione, incremento. Il progetto è iterazione di prove. Il progetto è un permanente tentativo. Il progetto non termina mai.
Solo l'umana saggezza di coloro che sono coinvolti nel progetto può condurre a dire: “fermiamoci qui”. Per rispetto della propria fatica, per rispetto dell’ambiente sul quale il progetto incide, per non abusare di risorse che potrebbero essere altrimenti destinate.
Sempre sapendo che potremmo esserci fermati prima, e che speriamo invece di dire: "continuiamo ancora".
Ci proponiamo di coltivare il poco, ciò che appare sensato a noi, e a tutti coloro che vorranno entrare a far parte di una comunità che speriamo cresca: anche questo fa parte del progetto.
Note
1Enzo Carli, ‘Il campanile’, in Il Duomo di Pisa, a cura di Enzo Carli, Nardini, Firenze, 1989.
2Albert O. Hirschman, Development Projects Observed, The Brookings Institution, Washington D.C., 1967, p. 9. Trad. it. I progetti di sviluppo, Franco Angeli, Milano, 1975.
3Albert O. Hirschman, Development Projects Observed, cit., p. 10.