Quel che ci lega al Carnevale è forse qualcosa di ancestrale, di così profondo che difficilmente riusciamo ad esprimerlo con parole adeguate. Possiamo sottolineare l’amore per gli scherzi, l’attrazione per i colori dei coriandoli e delle stelle filanti o per il suono beffardo di trombette e fischietti, il gioco dei travestimenti che ci consente di uscire dal nostro ruolo usuale e di cambiare il nostro aspetto, la passione per la sensualità e l’intrigo delle maschere che, nascondendo il vero volto dell’individuo, fanno invece apparire agli occhi di tutti quel che realmente porta nelle profondità della sua anima e che normalmente nasconde perché ritenuto inaccettabile o socialmente inammissibile.
Il Carnevale è momento di verità che rivela l’eccesso che è in noi, la trasgressione indicibile che ci caratterizza. È l’espressione genuina del piacere che si esprime attraverso le risate, il ballo, i trucchi, il cibo, le bevute, le parole libere, maliziose, argute, sincere. È la liberazione della nostra sensualità, di sogni e desideri inconfessabili, di ambizioni e identità nascoste che per un periodo dell’anno, e solo in quello, hanno licenza di manifestarsi liberamente.
Il Carnevale è ancora l’allegoria dei carri con la loro rappresentazione schietta di persone, scene, fatti storici o mitologici che stupiscono e coinvolgono il pubblico in una sorta di rito catartico. Se sull’origine di questa festa non vi sono fonti certe, sappiamo però che il suo significato profondo è sempre stato fin dall’antichità quello di una grande festa della fecondità della terra che si ridestava dal torpore invernale per tornare a nutrire uomini e animali, in un gioioso risveglio all’insegna della sregolatezza, dell’eccesso, della gioia sfrenata e della vitalità.
Tante sono le sue celebrazioni ed i suoi riti sparsi un po’ovunque per il pianeta, ciascuno ricco, profondo, curioso, interessante. Tante sono le città che lo celebrano e lo festeggiano. Eppure se dovessi scegliere un tempo ed un luogo capace di identificare lo spirito del Carnevale, non avrei dubbi. Vi è stato un tempo e un luogo dove le maschere avevano un profondo significato sociologico, simbolico, fino a penetrare profondamente nella cultura e nel vissuto quotidiano. Il tempo va circa dall'anno Mille (la più antica legge che limita l'uso improprio della maschera è del 1268) fino al 1797; il luogo è Venezia. In un certo senso non c'è Venezia se non c'è maschera: non solo per il Carnevale, intendiamoci, ché sarebbe troppo riduttivo. Per Santo Stefano, per l'Ascensione, per San Marco e in mille altre occasioni, dal teatro a feste private e pubbliche, lungo le calli, per i canali circolavano maschere miste a individui riconoscibili: l'identità personale, il genere sessuale, la classe sociale non esistevano più, come in un grande gioco, in una grande illusione.
La maschera permetteva di trasgredire tutte le regole sociali della perbenista Repubblica della Serenissima, annullando ogni differenza e garantendo l'anonimato. Il popolo e l'aristocrazia, nobildonne e prostitute, mercanti e contrabbandieri, gentiluomini e avventurieri si incontravano nel mistero, con un livello di libertà non solo tollerato ma anche garantito: chi era mascherato dichiarava di interpretare un ruolo e come tale spesso la faceva franca, anche per condotte al limite della legalità.
La BAUTA maschera della libertà
Tra tutte le maschere, quella più espressiva di questo mondo è certamente la Bauta. Il nome Bauta deriva da un verbo tedesco, il cui significato è proteggere: protegge da sguardi indiscreti, protegge una identità in situazioni particolari. Ma come è fatta? Bene, in volto una maschera, bianca o nera (chiamata larva), semplice e versatile, indossata indifferentemente da uomini e donne, cela il viso ma permette di bere o di mangiare grazie al labbro superiore allungato e sporgente. Una maschera simbolo, inquietante e affascinante a un tempo, capace di alterare anche il timbro della voce, rendendolo metallico. Poi un cappello a tre punte, il tricorno, nero come spesso il tabarro, mantello che completava il costume.
Tra il 1600 ed il 1700 divenne non solo uno status symbol, ma un simbolo di libertà, maschera tollerata nella vita quotidiana per tutto il corso dell'anno. Chi si nascondeva dietro a quel volto da mistero? Forse un delatore, oppure un gentiluomo? Un seduttore e avventuriero, come Casanova? Un losco giocatore d'azzardo, un criminale, una nobildonna in cerca di avventure e di emozioni occasionali? O il Doge stesso? Impossibile rispondere. Restava il saluto, d'obbligo a chi la indossava per rispetto del segreto. Come riportano le cronache del tempo, poteva accadere che si trovassero assieme “la più grande nobiltà e la plebe più vile”. Un gioco, certo, ma anche l’esaltazione di uno stile di vita che ha alla base la libertà.
Oggi, più che mai, è opportuno parlare di maschere di vita e di libertà: ben altro significato hanno le attuali mascherine, a ogni livello. Pensiamo a un mondo dove la maschera sia ciò che è stata a Venezia: un abbandono al gioco e all'amore della vita e al suo arcano.
BIBLIOGRAFIA
Simone De Clementi, “Il Gran libro dei pensieri filosofali”, vol. 1
Carlo Goldoni, “Opere teatrali”
Florens Christian Rang, “Psicologia storica del Carnevale”
Maria Luisa Sacco, “Maschere veneziane. Psicologia e metafore”
Carl Gustav Jung, “La struttura dell’inconscio”
Carl Gustav Jung, “Gli archetipi dell’inconscio collettivo”
Renè Guenon, “Simboli della scienza sacra”