Quando ho cominciato a leggere "Office Monsters: A Survival Guide to Corporate Madness", non sapevo se stavo aprendo un manuale di sopravvivenza aziendale, un bestiario medievale o una guida illustrata per adolescenti cresciuti nella jungla del project management. Ma pagina dopo pagina, mi sono accorto che questo libro – scritto da Martin J. Eppler e Andri Hinnen – ha qualcosa che manca a quasi tutta la saggistica manageriale contemporanea: coraggio, autoironia e precisione metaforica. Non è solo un libro "pazzo": è forse il libro che avrei potuto scrivere io, o che vorrei scrivere io. Un libro necessario.
La premessa è semplice quanto devastante. I nostri luoghi di lavoro – digitali o fisici che siano – sono infestati. Non da problemi, non da errori, ma da vere e proprie "creature mitologiche": mostri con nomi assurdi e comportamenti fin troppo familiari. Sono loro che sabotano riunioni, divorano energia, intossicano la progettazione, rendono insensati i metodi più avanzati. E il problema è che siamo noi a invitarli.
Il bestiario
Il libro li divide in tre categorie. Prima di tutto ci sono "i mostri interiori". La "Yes Yeti", ad esempio, è quella vocina dentro di te che dice sempre “sì” a tutto, per paura di deludere. Il "Craving Kraken" è la fame insaziabile di approvazione, notifiche, socialità simulata. Poi ci sono "i mostri negli altri": il "Meeting Mummy", che si risveglia solo quando sente la parola “riunione”; l'"Energy-Draining Dracula", che succhia il tuo entusiasmo un minuto dopo aver parlato. Infine, e qui il colpo di genio si fa sistemico, arrivano "i mostri organizzativi": la "Strategy Chimera", che muta forma a ogni piano triennale, e soprattutto il "Project Zombie" – progetti che tutti sanno essere morti, ma che nessuno ha il coraggio di seppellire.
Il tono è quello di una satira gentile, ma la profondità concettuale è sorprendente. La posta in gioco, forse, è ancora più profonda. Serve un linguaggio condiviso. Un modo per nominare le aberrazioni senza innescare crociate, per riconoscere l’idiozia sistemica senza ridurla a colpa individuale. L’ironia, in questo libro, non è un orpello. È una lama gentile che fende uno spazio tra i ruoli. Permette di non rimanere incastrati nel personaggio del manager, del coach, del guru. Permette – soprattutto – di guardare in faccia il mostro senza diventarlo. Ogni “mostro” è accompagnato da una descrizione comportamentale, una diagnosi e un possibile rimedio. Come nella miglior medicina narrativa, il linguaggio serve a rivelare la struttura invisibile del problema. Gli autori non si limitano a ridere delle disfunzioni: le "disegnano".
Un libro visivo, una mappa mentale
Questo è un libro-mappa, non perché semplifichi, ma perché orienta. Le sue metafore sono concrete, visive, attivano qualcosa. Non ci chiedono di credere, ma di osservare. Le sue metafore sono concrete, visive, attivano qualcosa. Non ci chiedono di credere, ma di osservare.
La forza del libro sta infatti nella sua "forma ibrida": parte saggio illustrato, parte manuale operativo, parte raccolta di casi clinici aziendali. Non c'è alcuna sezione di "best practices", né checklist, né illusioni di efficienza. Ma ci sono mappe, figure, frecce, trasformazioni: è un libro da "guardare" prima ancora che da leggere. E questo lo rende adatto anche a chi si occupa di facilitazione, coaching, change management.
Ho trovato illuminante, per esempio, la sezione sullo "Bias Basilisk": un serpente che ipnotizza l’analisi razionale con pregiudizi inconsapevoli. È un modo ironico per dire che anche i nostri metodi più sofisticati – diagrammi di Gantt, Kanban, business case – sono fragili se il contesto cognitivo è compromesso.
Domare, non distruggere
La lezione finale del libro è semplice e tutt'altro che banale: "non tutti i mostri vanno uccisi". Serve un linguaggio condiviso. Un modo per nominare le aberrazioni senza innescare crociate, per riconoscere l’idiozia sistemica senza ridurla a colpa individuale. Ecco perché Office Monsters colpisce: perché riesce a illuminare l’invisibile della vita organizzativa con una lingua limpida e icastica, capace di nominare senza condannare, di mostrare senza accusare, di svelare senza distruggere. Una lingua che, direbbe Morin, abbraccia la complessità senza ridurla, e offre strumenti per abitare l’ambiguità senza farsi sopraffare.
Nelle organizzazioni complesse – e nei progetti che attraversano gerarchie, tecnologie, silenzi – i mostri sono inevitabili. Ma avere un linguaggio per parlarne, e un’immagine per riconoscerli è il primo passo per neutralizzarli.
Alcuni vanno riconosciuti, altri addomesticati. Alcuni sono, in fondo, solo lati deformati del nostro desiderio di appartenenza, di sicurezza, di riconoscimento. La posta in gioco non è “disinfestare” l’ufficio, ma "renderlo vivibile, abitabile", persino fertile.
Epilogo
Mi piace pensare che il "PMO" (Project Management Office) non sia un bunker blindato da cui si impartiscono ordini o si gestiscono armi, ma una "tenda da campo dove si impara a dominare i mostri". Con umorismo, con metodo, e con la leggerezza di chi sa che il lavoro è una cosa seria, ma non per questo deve trasformarsi in una tragedia.
In fin dei conti, "Office Monsters" non è un libro da leggere. È un libro da portare in riunione, aprire in silenzio, e poggiare sul tavolo quando qualcuno propone un altro progetto zombie.