“Compito dello sguardo che s’offusca non è sognare o piangere, è vegliare come un pastore il gregge e richiamare ciò che rischia di perdersi nel sonno” - (Philippe Jaccottet, Il lavoro del poeta, tratto dalla raccolta L’ignorante)
Le poesie qui proposte fanno parte di una raccolta alla quale sto lavorando intitolata “Frammenti da un mondo improduttivo”. Il titolo credo sia già abbastanza evocativo. Stiamo parlando di cose, come del resto la poesia ormai, che il mondo attuale, ritiene superflue, non necessarie, ma proprio per questo assolutamente vitali.
Sono poesie che parlano di un mondo inerte, cose lente, che hanno a che fare con il dubbio e con la negazione.
Ma è solo da questa posizione di orgogliosa ed ostinata retroguardia che è possibile veramente capire, veramente comprendere. Solo così, dallo sguardo che si sottrae, che si ritrae, che si offusca, come dice Jaccottet, è possibile veramente cogliere i barlumi, le rivelazioni che ci mostrano la “realtà” che sta dietro a quella che vediamo tutti i giorni.
Rallentare è certamente necessario, ma per comprendere meglio. Sottrarsi per recuperare la prospettiva che consenta la contemplazione, l’osservazione obliqua delle cose.
Ma non stiamo parlando di una posizione di subalternità: dalla contemplazione, dallo scarto, nasce lo sguardo poetico, nasce il dire poetico, il testimoniare.
Sottrarsi, dunque, per guadagnare quella prospettiva, quello spazio vitale per poter affermare la parola poetica che, dunque, resta parola volutamente ai margini, ma non marginale.
“Io sono un uomo antico, che ha letto i classici, che ha raccolto l’uva nella vigna, che ha contemplato il sorgere o il calare del sole sui campi. Non so quindi cosa farmene di un mondo creato con la violenza, dalla necessità della produzione e del consumo. Detesto tutto di esso: la fretta, il frastuono, la volgarità, l’arrivismo. Io sono un uomo che preferisce perdere piuttosto che vincere con modi sleali e spietati. E il bello è che ho la sfacciataggine di difendere tale colpa, di considerarla quasi una virtù.” - (Pier Paolo Pasolini)
Cerco da tempo
Cerco da tempo di vivere in questo spazio, in questo tempo che una volta mi piaceva, o così mi pare di credere.
In questi luoghi che fingo di amare, tra queste persone che mi credono dei loro, che si aspettano che io debba testimoniare per loro.
Ma il presente è questa fitta, questa crisi che mi raggiunge e mi ferisce nel profondo.
I rumori del mondo là fuori, i conflitti eterni, la morte lì a Gaza, il freddo dei poveri all’alba, le frasi irrisolte, le questioni pendenti, le esistenze oblique, effimere e sconvolgenti, mi colpiscono, mi spiazzano e mi invitano.
Tutto mi disperde e mi trafigge, il mio corpo, ferita sanguinante aperta a tutto questo che fingiamo di non vedere.
Tutto questo ordine è opprimente, la sua insolenza mi disgusta, e mi disgusta ancor di più il mio silenzio.
Ho cercato e voluto troppo ciò che non volevo, ciò che non sapevo e alla fine ho perso tutto.
Adesso so che non possiedo più nulla.
Sottrarsi
Sottrarsi.
Caparbiamente,
volutamente,
lucidamente,
criticamente.
Sottrarsi.
Per rubare al mondo nuova prospettiva.
Vita costruttiva
Nuova inventiva.
Antica invettiva.
Sottrarsi.
Volutamente ai margini collocarsi
nelle pieghe della vita rannicchiarsi
ma non essere marginali. Forse diversi.
Sottrarsi.
Osservare,
annusare,
gustare.
Contemplare.
Affermare.
Dire.
Febbre ossessiva di testimoniare.
Custodire la voce per tempi migliori.
Riunione di lavoro e altro
L’estraneità di queste parole produttive
la difficoltà di pronunciarle
la volgarità di propinarle
il disgusto di ascoltarle
la durezza di mentirle.
Meglio inesistere.
Camminare sui margini ignorabili
sostare nelle pieghe della vita.
Imperfetti.
Senza più nulla da perdere.
Meglio appare allora la luce del giorno
e più di sorpresa ti assale lo scintillio degli oggetti abbandonati,
la vita segreta delle cose,
i fiori negli orti,
le navi salpanti dai porti.
Furono sogni
Nella notte fu il transito dei treni
sudore freddo che cola dalle reni.
Furono vociare di umane voci
acqua di fiume che corre alle foci.
Latrare di cani, rumori ovattati
di fiocchi di neve caduti insanguinati.
Furono sogni, furono speranze,
andare spedito e passi di danze.
Furono inganni e tele di ragni
Furono visi riflessi negli stagni.
Furono queste ed altre cose
che la memoria dimenticò
ed il giorno nascose.
Furono orrore e sudori di corpi.
Furono questo e rumore secco di colpi.
Furono grida di gente inseguita.
Furono grida di gente spietata.
Di altre percosse ma ancora in vita.
Furono lampi di occhi di bambini.
Furono carezze e visi vicini.
Furono sangue e vita infinita.
Furono inganni e rabbia mai sopita.
Furono tutto questo e adesso è finito.
Lavato via da questo giorno fulminato.
Adesso sono brividi che nascono dalle tue narici, visi chiari, quelli di amici.
Io che mi alzo e vado in cucina
mi vesto d’inganni e mi specchio in vetrina.
Aspetto obliquo una nuova mattina.
Casine di periferia
Eccole.
Davanti a me sulla spianata anonima che porta al sottobosco, strette in una morsa di stradine scoscese e solitudini.
Piccole casine di periferia
castelli verticali di noia, prigioni di cemento e malinconie chiuse in storie di esistenze banali e sommerse.
Cancelli chiusi su vite perse.
Vite sott’acqua senza saperlo
frigo pieno e voglie represse.
E poi bere il fine settimana per far finta di esser vivi e alla moda.
Stordirsi per non dover fare i conti con tutto questo nulla.
Notte a New York
La notte è un grande vento solitario che spazza via il sonno dagli occhi dei bambini.
Dispotico, è venuto fin qui da lontano il vento seguendo il richiamo dei clacson rochi nella nebbia mattutina e dell’andirivieni delle onde tristi del fiume su Ellis Island.
La superficie liscia e compatta delle cose vacilla, cede, schianta e si decompone.
La città è un vorticare violento di persone e rabbia, luci amare e marciume sul far dell’alba.
Le luci stroboanti che impazzano tutta la notte non bastano a scongiurare questo esilio forzato di esistenze.
Doppiamente in esilio, sono straniero in questa città.
A nessuno parlo all’infuori di me stesso e mi aggiro sazio e triste di vita.
Vorrei fermarmi, ma non c’è verso.
Non è dato voltarsi, si può solo avanzare.
Ed è già un nuovo giorno.
Possibilità solo umane
Abitare la possibilità.
La questione disorientante
mi assale stamattina
nel pulviscolo fluttuante
di una finestra in cucina.
Musil lo ha scritto. Chi vuole attraversare senza inconvenienti una porta deve tener conto degli stipiti.
Pensiero lento.
Quale è la domanda del ragionamento?
Pensiero veloce.
Chi è l’uomo in croce?
Vite congetturali.
Vissute in continuo mutamento
esposte a un continuo cambiamento
Vite innaturali.
Mondi per convenzione utopici,
rimando ad un io dai confini supposti ciclopici, forse ipertrofici.
Bianco latteo di una parete.
Cigno nero opportunità o cose malintese?
Resta solo poco tempo per ricordarci che siamo in fondo essere umani,
ricordarlo oggi non domani.
Resta solo tempo per tornare ad occuparci di noi stessi, smettere di guardarci in falsi specchi riflessi.