Secondo Kant, il rispetto per l’altro non è un’opzione sentimentale, né un atto di fede: è un obbligo della ragione. Basta rifletterci un momento, diceva lui, per accorgersi che l’umanità non può essere usata come mezzo, ma solo come fine. L’imperativo categorico non ha bisogno di Dio, né di dogmi: si regge da sé, come si reggono da sé le verità semplici e terribili.
Eppure — lo sappiamo — non basta la ragione a trattenere il male. O almeno non sempre. Esso continua a insinuarsi, sottile, silenzioso, nelle pieghe dell’animo umano e delle nostre società moderne, complicate, sovrappopolate e smemorate. Più il mondo si fa interconnesso, più diventa necessario chiedersi come accade che uomini e donne comuni — buoni, magari — si ritrovino a compiere azioni che buone non sono.
Phil Zimbardo, Albert Bandura, Gian Vittorio Caprara: tre psicologi sociali che, dopo Milgram e i suoi esperimenti sull’obbedienza, si sono messi a cercare le condizioni minime che bastano per far diventare cattivo un uomo qualsiasi. E l’hanno trovata, quella soglia minima. Non sta nella natura dell’individuo, ma nella costruzione del contesto. Basta poco: un’uniforme, un ordine, una parola ripetuta abbastanza volte da sembrare legge.
Il male, ci dicono, non ha bisogno di sadici né di mostri. Gli bastano ruoli assegnati, regole che restringano il campo delle scelte, un nemico ben descritto — magari inferiore, magari disumano. E poi c’è il gruppo: il gruppo compatto, vestito uguale, obbediente. Il gruppo che assorbe la coscienza individuale come una spugna assorbe il vino versato sulla tovaglia.
Eppure, anche sotto queste pressioni, esiste una possibilità di resistenza. Kant ci aveva avvertiti: la ragione, se ben esercitata, non cede. La ragione sa dire di no. Ma chi esercita la ragione, oggi?
C’è chi dice — e non ha tutti i torti — che la ragione sia stata sequestrata. Diventata una centrale di potere. Non più criterio per decidere ciò che è giusto, ma strumento per giustificare ciò che conviene. Una macchina che serve i potenti, non gli uomini. E allora, più che una barriera contro il male, la ragione diventa suo alleato. Fabbrica consenso, trucca le carte, impone verità apparenti.
Il potere non si limita a comandare. Fa di più: immunizza sé stesso dalle obiezioni. Fa passare per logico ciò che è solo utile, per naturale ciò che è solo violento, per inevitabile ciò che potrebbe essere evitato.
E così, il mistero dell’unde malum, di dove nasce davvero il male, non si scioglie mai del tutto. Non si nasconde solo nella psicologia degli individui o nei sistemi che abitano, ma in quella sottile zona di confine dove la ragione smette di interrogare e comincia a giustificare. In quella zona d’ombra dove nessuno è colpevole, eppure tutti lo sono un po’.
Il male vero non è quello del mostro solitario, ma quello che passa per normale. Quello che si fa in gruppo, con le mani pulite. Quello che accade quando smettiamo di pensare e cominciamo a ripetere.
Bibliografia
Albert Bandura, Disimpegno morale. Come facciamo del male continuando a vivere bene, traduzione di Riccardo Mazzeo, Edizioni Erickson, Trento, 2017.