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I Giochi Paralimpici di Parigi ci hanno offerto molto più di imprese atletiche: hanno mostrato come l’eccellenza emerga da culture fondate sulla fiducia, sull’ascolto e sulla collaborazione. Questo articolo riflette su ciò che possiamo imparare da quei giorni, anche alla luce delle idee di Daniel Coyle.


Durante i Giochi Paralimpici di Parigi 2024, il mondo ha potuto osservare un'espressione tangibile di come la collaborazione, la cultura condivisa e il sostegno reciproco possano generare eccellenza. Non si è trattato solo di prestazioni sportive straordinarie, ma di una dimostrazione vivente di ciò che l’essere umano può realizzare quando è inserito in un ambiente che sa accogliere, ascoltare, costruire.

Gli atleti paralimpici hanno dimostrato che il limite non è inscritto nei corpi, ma negli sguardi che li osservano. Dietro ogni gesto, ogni record, ogni arrivo al traguardo, si è rivelata una rete: allenatori, tecnici, fisioterapisti, medici, famiglie. Nessuno ha vinto da solo. E questo non ha nulla di retorico: è struttura. È metodo. È cultura.

Daniel Coyle, in The Culture Code, ha identificato tre fattori fondamentali per costruire gruppi altamente coesi: senso di appartenenza, sicurezza psicologica e direzione condivisa. A Parigi, questi elementi sono stati visibili, anche senza essere nominati. La sicurezza psicologica — quella condizione in cui ciascuno può esporsi senza timore, sentirsi parte di un gruppo anche quando sbaglia — non era solo un prerequisito invisibile: era la regola fondamentale.

Molti atleti paralimpici hanno portato in gara storie di frattura, esclusione, dolore. Eppure, non si è visto un universo segnato dal risentimento o dalla richiesta di eccezioni. Si è visto il contrario: un sistema in cui la vulnerabilità veniva accolta come dato reale, non negata né strumentalizzata. Una cultura che non nasconde il fallimento, ma lo attraversa.

Nel contesto aziendale, spesso prevale l’opposto. Le persone con disabilità continuano a nascondere le proprie condizioni per paura dello stigma. Si premia la performance, si punisce la deviazione, si disinnesca il dissenso. Eppure, come mostra Coyle, sono proprio i team che imparano a costruire fiducia — attraverso segnali sottili ma costanti — a generare innovazione, resilienza, soluzioni condivise.

Non serve adottare l’estetica dell’inclusività. Serve coltivare una cultura che, in modo deliberato e quotidiano, trasformi la diversità in leva di senso. Proprio come nelle squadre paralimpiche, dove ogni tecnologia — una protesi, un esoscheletro, una sedia modificata — nasce da un ascolto radicale del bisogno e si trasforma in prestazione collettiva, anche nelle organizzazioni il cambiamento passa dalla capacità di accogliere ciò che è anomalo come sorgente di valore.

L’adattabilità umana, allora, non è una virtù personale. È un prodotto culturale. Non nasce dalla forza del singolo, ma dalla qualità dell’ambiente che lo circonda. Parigi lo ha mostrato chiaramente: non è il disabile a doversi adattare al mondo. È il mondo che deve riformularsi per poter riconoscere — e includere — tutte le forme legittime dell’umano.

In tempi che esaltano la velocità e misurano tutto in KPI, i Giochi Paralimpici ci hanno ricordato un’altra forma di eccellenza: lenta, corale, profonda. Non la vittoria del più forte, ma la fioritura del possibile.


StultiferaBiblio

Pubblicato il 04 luglio 2025

Calogero (Kàlos) Bonasia

Calogero (Kàlos) Bonasia / omnia mea mecum porto