Nei progetti complessi, ciò che resta non è sempre ciò che si è fatto. Spesso è ciò che si è scritto. La memoria di un sistema, la tracciabilità di una decisione, la coerenza di un processo: tutto si regge sulla scrittura. Non quella creativa, né quella strategica in senso pubblicitario, ma la scrittura operativa, rigorosa, quotidiana. Quella che molti considerano accessoria, e che invece è ciò che consente ai progetti di non disgregarsi al primo cambio di contesto.
Scrivere non è documentare a posteriori. È un gesto progettuale in sé. Definire un requisito, redigere una nota di decisione, stimare uno sforzo, verbalizzare una retrospettiva: sono tutti atti che modellano il progetto, lo rendono navigabile, interrogabile, trasmissibile. Dove non si scrive, ogni decisione si confonde con il momento in cui è stata presa; ogni errore si ripete come se fosse nuovo.
Nel mio lavoro, ho imparato che la scrittura è una forma di responsabilità cognitiva. Scrivere bene — con precisione, con contesto, con onestà — significa creare continuità. È un gesto che protegge: le persone, dai fraintendimenti; i team, dalla volatilità delle priorità; l’organizzazione, dalla perdita di memoria.
Questo vale soprattutto nei sistemi adattivi, dove le iterazioni sono frequenti, le strutture fluide e le soluzioni emergenti. In questi ambienti, il documento non è un vincolo, ma una rete di sicurezza. Permette di tornare indietro, ricostruire il senso, vedere quando e perché una decisione è stata presa. Non tutto può essere “detto al volo”, né tutto può essere affidato al backlog.
Scrivere è anche un modo per pensare. Costringe a chiarire, a interrogare, a scegliere. Chi scrive non si limita a raccontare: riflette, modella, formalizza. È nella scrittura che molte ambiguità progettuali diventano visibili. E solo ciò che è visibile può essere risolto.
Non lo si dice spesso, ma bisognerebbe dirlo: saper scrivere bene è una competenza distintiva, soprattutto nei contesti progettuali ad alta complessità. Non parlo di saper riempire moduli o produrre deliverable, ma di saper costruire una narrazione tecnica solida, tracciabile, chiara, che tenga insieme decisioni, ipotesi e contesto operativo. In un settore che spesso misura le competenze a colpi di badge e certificazioni autoreferenziali, la capacità di scrivere con rigore e precisione resta una delle poche vere garanzie di maturità professionale.
Personalmente, considero questa capacità uno dei tratti più preziosi del mio approccio. E ne faccio uso ogni giorno, non per estetica ma per funzione: per evitare ambiguità, per orientare i team, per trasferire sapere in modo leggibile, verificabile, utile. In molte situazioni, vale più una buona pagina scritta che l’ennesima sigla in calce a un profilo.
Ho maturato questa visione anche confrontandomi con l’opera di Rico Baldegger e colleghi. In particolare, due lavori mi hanno colpito:
- Nell’articolo “Digitalization and Internationalization: Applying digital technologies to the internationalization process of SMEs” (2022), Baldegger, Hervé e Schmitt mostrano come le PMI internazionali—quelle che operano globalmente—fioriscono quando integrano con rigore la digitalizzazione nel loro approccio strategico. La stessa logica vale per la scrittura: organizzare i dati, formalizzare decisioni e feedback, archiviare le esperienze, non è banale burocrazia, ma strategia adattiva. Nei sistemi complessi, documentare significa sostenere l’innovazione e il coordinamento multi-contesto.
- Nel volume collettivo The Future of Business Schools (2022), coordinato da Baldegger con Audretsch, Passerini e altri, si sottolinea l’urgenza che le istituzioni educative abbraccino la complessità, la sostenibilità e la capacità di riflessione critica. Il progetto formativo, in questo quadro, non può prescindere dalla capacità di riflettere e documentare. È un principio che vale anche nei progetti aziendali: senza scrittura riflessiva, complessità e incertezza diventano caos.
Integrando questi spunti, riconosco come la scrittura agisca da trait-d’union tra digitalizzazione, internazionalizzazione e governance sostenibile. È il veicolo che preserva la coerenza tra strategia, struttura e cultura — come suggerisce Baldegger in Management in a Dynamic Environment — estendendolo all’adattamento digitale e alla dimensione formativa.
Anche nei metodi agili più evoluti, la scrittura ha un ruolo centrale — seppur spesso mal compreso. L’Agile Manifesto ci ricorda di privilegiare il software funzionante rispetto alla documentazione esaustiva, ma non dice mai che la documentazione non serva. Al contrario: documentare bene, quando serve e per quanto serve, è una pratica di efficienza. È ciò che Patrick O’Brien ha chiamato “agile documentation”: scrivere il minimo indispensabile, nel momento giusto, con il massimo della chiarezza.
Disciplined Agile formalizza questo approccio con il principio “Just Barely Good Enough”: scrivi solo ciò che è necessario, ma scrivilo bene. La documentazione non è un orpello burocratico, ma un supporto alla comunicazione asincrona, alla tracciabilità delle decisioni, alla trasparenza tra team. Una buona scrittura tecnica riduce le ambiguità, protegge dal re‑work, supporta la governance e consente ai team di lavorare con maggiore autonomia.
C’è poi un altro aspetto che mi sta particolarmente a cuore: la scrittura come strumento di accessibilità. Non tutti sono presenti a tutte le riunioni. Non tutti hanno voce, tempo, o lo stesso grado di esposizione nei contesti orali o sincroni. Un documento ben scritto ha il potere di restituire comprensibilità e contesto anche a chi non era in call, a chi non può partecipare in tempo reale, a chi lavora in asincrono, in fusi orari diversi, o semplicemente è impegnato su altri task.
Questo ha un impatto diretto sulla qualità organizzativa: un documento ben formulato riduce il numero di persone necessarie a una riunione. Se ciò che serve è scritto in modo chiaro, completo e tracciabile, può bastare che partecipi solo il PM o un rappresentante per team. Gli altri potranno leggere, intervenire in un secondo momento, commentare con lucidità. Invece di moltiplicare il tempo condiviso — e con esso il rumore e la disattenzione — si ottimizza la comunicazione e si riduce il carico cognitivo collettivo.
La scrittura efficace, in questo senso, non è solo una buona abitudine. È una strategia di efficienza e rispetto: fa risparmiare tempo, abbassa i costi della sincronizzazione continua, e riduce la fatica decisionale diffusa che deriva da troppi meeting mal preparati.
senza scrittura la conoscenza resta volatile
Si parla molto di knowledge management, ma senza scrittura la conoscenza resta volatile. E la gestione si riduce a improvvisazione.
Per questo scrivere non è tempo perso. È tempo investito nella robustezza del sistema. Nella sua manutenibilità, nella sua verificabilità, nella sua capacità di evolvere senza dimenticare. Un codice senza commenti è un codice fragile. Un progetto senza documentazione è un progetto vulnerabile — anche se è stato “chiuso in tempo”.
Il punto non è scrivere di più. È scrivere meglio. Meno retorica, più precisione. Meno formalismi, più contesto. Meno verbosità, più tracciabilità. La scrittura non deve intrattenere, ma orientare. Non sedurre, ma chiarire.
Nel tempo della velocità, della semplificazione obbligatoria e della comunicazione iperfunzionale, tornare a scrivere bene è un gesto radicale. Significa riaffermare il valore della riflessione, della continuità, della responsabilità condivisa.
tornare a scrivere bene è un gesto radicale. Significa riaffermare il valore della riflessione, della continuità, della responsabilità condivisa.