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Il Kosovo moderno si fonda sull’idea di autodeterminazione, ma oggi rischia di negarla proprio a chi porta nel proprio corpo una forma di diversità. Vietare un simbolo per “proteggere la libertà” è un ossimoro politico. Uniformare per integrare significa confondere coesione con omogeneità. Le conseguenze possibili sono note: esclusione scolastica, radicalizzazione identitaria, legittimazione del controllo sul corpo come pratica di governo. E mentre si accusa il velo di non essere “albanese”, ci si dimentica che la maggior parte degli abiti indossati quotidianamente, jeans, giacche, minigonne, cravatte non hanno alcuna origine autoctona.


Nel 2025 la friabile repubblica del Kosovo introduce ed esala un divieto alquanto discutibile, quello del non uso del velo islamico, nelle scuole pubbliche. Tale proposta viene presentata come una tutela e vigilanza della laicità e dell’infanzia, un segno di allineamento tra la modernità, l’avvicinamento con l’Europa e i suoi modelli. Ciò che s’intravede dietro l’argomento ufficiale, però, è un’altra dinamica, molto più profonda, radicata e dolorosa: quella della fragilità di un’identità nazionale ancora in cerca di accettazione e approvazione. Un’identità pronta a sacrificare la pluralità interna, persino religiosa, nel timore di entrare in crisi: dove il problema vero diventa costruire un’immagine di omogeneità culturale, edificata con tanto impegno dopo la guerra.

Un simile divieto non rientra unicamente nel quadro amministrativo come cura o rimedio, ma come gesto simbolico e subsimbolico che mette in discussione il legame tra Stato, comunità e libertà individuale. Siffatta misura parla di una paura e tensione che angoscia tutta l’Europa, quella dell’islam radicale, creando la sfumata illusione che la coesione e l’omogeneità si possano raggiungere con la rimozione delle differenze. E dall’olimpo delle élite politiche, le sacrosante divinità, in tal caso moderne, per difendere incolumità e innocenza, cade un divieto che non rispetta i diritti fondamentali dell’uomo.

Laicità non è acidificazione ma accettazione

Gli ideatori di questa proposta forse cercano di replicare la neutralità dello spazio pubblico prendendo ad esempio il modello della laïcité francese. Fuori dalla Francia pero questo provvedimento viene visto come forma di espulsione della religione o dell’aspetto religioso mediante il depennamento della religione dallo spazio pubblico, forse obliando che la laicità liberale è l’opposto: garantisce che nessuna religione domini, non che nessuna sia visibile o nella eliminazione della religione dallo spazio collettivo.

La storia è maestra, insegnando che un divieto per colpire un simbolo, in questo caso quello religioso, non produce neutralità, ma una delle tante forme del controllo sociale, modalità che agisce sul corpo e sull’identità di popoli e cittadini. Dimentichiamo forse grazie a una forma di amnesia voluta che il diritto europeo, chiamato in causa svariate volte rivelando la ragione sottostante del divieto – farsi accettare nell’Unione Europea – ma quasi sempre in modo selettivo, non impone interventi così dolorosi, anzi, chiede di bilanciare la libertà di coscienza con l’interesse pubblico: non certo di cancellare le identità.

Ostentare suddetta risoluzione come un gesto di modernità, in realtà per farsi accettare dall’Europa, va ad ignorare la Convenzione Europea della Corte di Strasburgo che invita gli Stati a ponderare laicità e libertà individuale senza adottare risoluzioni teatrali: specie quando, come questa, colpiscono i minori e l’accesso all’istruzione, per non parlare di una minoranza già esposta a esclusione socioeconomica.

Kosovo 2025 deve essere un’occasione per un dialogo tra laicità, libertà religiosa e diritti delle donne, non un altro ordine calato dall’alto. La dittatura sembra ancora affamata; forse perché, come popolo, non abbiamo ancora digerito il cibo del passato, e perciò non è avvenuta la sua eliminazione.

Il velo come questione nazionale

Sempre di più, in Kosovo, il velo sta assumendo un significato che va oltre al contesto religioso, ove si oscilla da un costante desiderio di essere riconosciuti a livello internazionale e le dinamiche interne. In questo caso la voglia di venire percepiti come europei, continente di cui il paese fa parte geograficamente, si mischia con la narrativa occidentale della nazione. Elemento sovranista che però stona con l’immagine europea che il Paese vuole proiettare evocando maldestramente ostacoli culturali allo status geopolitico desiderato. In poche parole: per essere europei, forse, occorre un minimo di omogeneità culturale, e il velo mette in crisi questa immagine. Ma il divieto del velo va oltre: si chiede ai kosovari di essere culturalmente uniformi.

Da qui nasce l’ipotesi che essere albanesi sia avulso dall’essere musulmani o, per usare un termine spregiativo, maomettani. Teoria tanto semplicistica quanto storicamente infondata: come se la modernità fosse la chiave per cancellare le differenze culturali, invece che per accettarle. Invece, l’identità albanese e kosovara è da secoli un collage religioso; ridurla a un’unica matrice significa produrre un nazionalismo culturale selettivo e poco veritiero. La stessa Europa è pluralista, e comunque non monolitica. Tentare di “europeizzarsi” eliminando un pezzo della propria tradizione contraddice proprio quel modello europeo che si vorrebbe imitare: trascurando il fatto che tale tradizione è essa stessa plurale. L’idea che esista un’unica identità “autentica” è un stratagemma recente, alimentato da insicurezze storiche e pressioni politiche. Pensare di diventare europei omologando un pezzo di popolazione significa tradire proprio quell’idea di Europa che si vorrebbe abbracciare.

Conseguenze educative e sociali

Il paradosso più evidente riguarda la scuola e l’istruzione, ove tale divieto rischia gravemente di spingere fuori dal sistema educativo proprio le ragazze che più necessitano di istruzione, autonomia e mobilità sociale. L’effetto reale potrebbe essere un aumento della marginalizzazione e del divario culturale, con l’interruzione del percorso educativo delle ragazze che scelgono di indossare il velo spingendole a non frequentare la scuola, rinunciando a un capitale culturale fondamentale per la loro autonomia futura. L’effetto reale sarebbe l’opposto di ciò che lo Stato afferma di volere: invece di emancipazione otterrà marginalizzazione. Inoltre, si rischia di produrre nuove forme di analfabetismo funzionale e una più ampia vulnerabilità socioeconomica proprio tra le fasce che più necessitano inclusione.

Da tale provvedimento nasceranno e si svilupperanno tre conseguenze:

  1. In nome della protezione si limiterà un diritto fondamentale.
  2. In nome della modernità si rafforzerà l’analfabetismo funzionale.
  3. In nome della laicità si sorveglierà il corpo femminile.

Il risultato sarà una politica che si concentra sulla superficie, l’apparenza, anziché sulle condizioni che rendono possibile l’emancipazione. Così, solo per l’anglicismo “OK”, per diventare parte dell’élite, si rinuncia a tutto: alla voce, all’identità, non solo a un pezzo di stoffa. Si vende l’anima per un’elemosina, basta che due monete vengano messe sugli occhi per pagare Caronte.

Insomma, Kosovo 2025 produrrà odi che supereranno i confini normali del corpo umano.
Creerà donne che pretende di proteggere, ma che riduce a esseri indifesi e deboli. Si tornerà a firmare con lo sputo sull’indice, per poi timbrare il foglio A4, quello della sottomissione.
E tutto grazie alla lingua, non quella parlata, ma l’organo…

Il corpo delle donne come campo di battaglia

Come accade spesso, il dibattito non riguarda le donne ma la rappresentazione delle donne. Le decisioni sull’abbigliamento sono il luogo dove si misurano i rapporti di forza tra Stato, cultura e potere, la cosiddetta triade occlusiva. Il velo viene trattato come simbolo da proibire o da difendere, non come scelta da comprendere. Le dirette interessate restano sullo sfondo, mute, mentre la politica parla in loro nome: per “liberarle”, per “proteggerle”, per “difenderle”.

Il discorso pubblico sembra oscillare tra due narrazioni opposte: da una parte, l’idea che il velo sia simbolo di oppressione e quindi vada vietato per “liberare” le donne; dall’altro, la pretesa che il velo sia un tratto dell’identità religiosa e quindi debba essere difeso a prescindere. Nessuna delle due posizioni ascolta davvero le dirette interessate. Le donne diventano simboli – mai soggetti.

Il risultato? Paternalismo. Se la politica volesse davvero proteggere le donne, la prima sarebbe ascoltarle. Non presumere, non interpretare, non decidere al posto loro. Cerchiamo di non scordarci che nessuna emancipazione nasce dall’imposizione, e nessun divieto che colpisce solo alcune ragazze può essere considerato un gesto di tutela.

Il paradosso dell’autodeterminazione

Il Kosovo moderno si fonda sull’idea di autodeterminazione, ma oggi rischia di negarla proprio a chi porta nel proprio corpo una forma di diversità. Vietare un simbolo per “proteggere la libertà” è un ossimoro politico. Uniformare per integrare significa confondere coesione con omogeneità. Le conseguenze possibili sono note: esclusione scolastica, radicalizzazione identitaria, legittimazione del controllo sul corpo come pratica di governo. E mentre si accusa il velo di non essere “albanese”, ci si dimentica che la maggior parte degli abiti indossati quotidianamente, jeans, giacche, minigonne, cravatte non hanno alcuna origine autoctona.

Il Kosovo del 2025 si trova di fronte a una decisione amletica: essere un Paese che riconosce la pluralità o che la rimuove dallo spazio visibile?

La democrazia si misura dalla capacità di convivere con le differenze, mentre la laicità deve garantire accettazione e rispetto, arte ormai dimenticata.

Riassumendo: Kosovo 2025, il Faust dei Balcani. Un patto con l’Europa, firmato con il sangue di donne che non hanno più voce.


 

 

 

 

 

Pubblicato il 28 novembre 2025

Sonila Gruda

Sonila Gruda / Psicologa, Esperta di linguaggio telematico