Ogni teoria scientifica si regge su un’ontologia: un insieme di entità, processi e relazioni che definiscono ciò che “esiste” all’interno di quel dominio di conoscenza. La chimica lavora con atomi e legami; la biologia evolutiva con specie, competizione e selezione naturale. Le scienze cognitive, a loro volta, hanno costruito la propria ontologia su concetti come memoria, attenzione, linguaggio, emozione, decisione. Tuttavia, con l’avvento delle neuroscienze computazionali e della neuroimaging, questo impianto concettuale è entrato in crisi.
Il termine cognitive ontology compare in modo sistematico nel 2005, con il celebre articolo di Cathy Price e Karl Friston. Analizzando i risultati della risonanza magnetica funzionale, i due autori notarono una dissonanza tra i modelli teorici della psicologia cognitiva e le attivazioni osservabili nel cervello. Compiti cognitivi considerati diversi – come nominare un oggetto, leggere una parola in Braille o decidere se due termini fanno rima – attivavano le stesse regioni corticali. Viceversa, compiti apparentemente simili producevano pattern neurali radicalmente differenti.
Questo disallineamento suggeriva un sospetto profondo: che le categorie della psicologia cognitiva tradizionale non riflettessero le vere strutture funzionali del cervello. Era come se, dopo secoli di studio dell’“alchimia mentale”, le neuroscienze avessero aperto il laboratorio della chimica: scoprendo che i vecchi concetti – “attenzione”, “ricordo”, “percezione” – fossero miscugli concettuali privi di fondamento empirico. Price e Friston formularono così l’ipotesi di una ontologia funzionale per la cognizione, costruita dal basso, in modo sistematico, partendo dai dati cerebrali e non dalle intuizioni psicologiche.
L’eco di questa proposta fu enorme. Russell Poldrack e i suoi collaboratori tentarono di rendere operativo questo approccio, sviluppando banche dati di neuroimaging e tecniche di meta-analisi automatizzata. L’idea era ambiziosa: ricostruire le “unità fondamentali del pensiero” direttamente dalle regolarità dei dati cerebrali. In questo senso, la nuova cognitive ontology si presentava come una forma di empirismo algoritmico: la mente come fenomeno emergente dai pattern neuronali.
Non tutti, però, accettarono la portata eliminativista di questa rivoluzione. Il richiamo a Paul Churchland e al suo eliminative materialism – la tesi secondo cui la psicologia del senso comune sarebbe una teoria falsa destinata a essere sostituita – era esplicito. Ma molti ricercatori, più cauti, proposero un compromesso: mantenere una parte dell’ontologia cognitiva classica, purché potesse essere ancorata a distinzioni empiricamente rilevabili. In questa visione “moderata”, il compito delle neuroscienze non è distruggere la psicologia, bensì chiarire quali concetti cognitivi abbiano un corrispettivo affidabile nel cervello.
La discussione assunse presto una dimensione metodologica più ampia. La scienza cognitiva nasce, storicamente, come disciplina top-down: costruisce modelli teorici del comportamento e cerca poi le loro basi neurali. Le neuroscienze, invece, procedono bottom-up, cercando regolarità nei dati e proponendo modelli descrittivi. La tensione tra queste due direzioni attraversa tuttora il cuore della cognitive ontology: le nostre categorie mentali devono adattarsi alle strutture neurali, o possiamo mantenere un livello di descrizione autonomo?
È un conflitto epistemologico antico, ma qui riemerge con una forza nuova. Come in ogni rivoluzione scientifica, ciò che è in gioco non è solo la precisione dei modelli, ma la definizione stessa di “cosa” si studia. Le neuroscienze ci obbligano a chiederci se i concetti di “attenzione”, “linguaggio” o “decisione” siano davvero elementi fondamentali del pensiero o semplici convenzioni storiche. In fondo, la domanda della cognitive ontology è la stessa che tormentava Aristotele e Quine: che cosa esiste davvero nella mente?
Le conseguenze si estendono ben oltre il dibattito accademico. Ogni volta che un ricercatore, un medico o un progettista di intelligenze artificiali parla di “memoria”, “intenzione” o “coscienza”, presuppone un’ontologia. Comprendere la cognitive ontology significa comprendere i confini del linguaggio scientifico, e con essi la forma che diamo alla mente stessa.
Fonti
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Price, C. J., & Friston, K. J. (2005). Functional ontologies for cognition: The systematic definition of structure and function. Cognitive Neuropsychology, 22(3), 262–275.
DOI: https://doi.org/10.1080/02643290442000095 -
Churchland, P. M. (1981). Eliminative Materialism and the Propositional Attitudes. Journal of Philosophy, 78(2), 67–90.
DOI: https://doi.org/10.2307/2025900
Libro consigliato
Paul M. Churchland, Matter and Consciousness (MIT Press, 2013)
Un classico della filosofia della mente contemporanea. Churchland introduce l’idea di eliminative materialism: la possibilità che i concetti psicologici comuni siano teorie ingenue destinate a essere sostituite da un linguaggio neuroscientifico più preciso. È il punto di partenza per comprendere la dimensione radicale del dibattito sulla cognitive ontology, ossia la tensione tra linguaggio dell’esperienza e linguaggio del cervello.