Scelte di fondo e modelli alti1
Sono da guardare con sospetto “tutte le idee che comportano il tentativo di ‘far prendere coscienza agli altri’ di qualcosa, pretendendo di sapere meglio di loro stessi cosa sia meglio per loro” (Peter Berger, in Hunter e Ainley, 1896; vedi Berger et al. 1973, Berger 1979). Purtroppo, in troppi casi, è proprio ciò che accade: gli ‘esperti’ pretendono di essere in grado di dire all’imprenditore e al manager chi sono e cosa devono fare. È un approccio pericoloso, perché nasconde un implicito giudizio, una lettura della differenza come deficit (Fabbri 1973), una sottolineatura della distanza: “tu sei completamente diverso, ma io ti perdono” (Rohéim 1950; vedi anche Bastide 1971, Varanini 1977).
Come conoscere un mondo; come raccontarlo?
Contro questo atteggiamento, è fondamentale tornare a ragionare senza pregiudizi sul metodo: come conoscere un mondo; come raccontarlo. Non per questo rinunciando a prendere spunto da ricerche ormai classiche (Piccardo e Benozzo, 1996).
Pensiamo all’immenso lavoro svolto da Thomas e Znaniecki per testimoniare l’odissea dei contadini polacchi, di qua e di là dall’oceano: la loro opera ci mostra come i materiali prodotti dagli attori parlino da soli, meglio di qualsiasi commento e di qualsiasi autorevole interpretazione (Thomas e Znaniecki 1918–1920). Whyte ci mostra invece come ricostruire un mondo ‘urbano’ e ‘moderno’ (Whyte 1943), ben lontano dai mondi esotici di cui di solito parla l’antropologia. Kracauer ci racconta storie di impiegati berlinesi, con l’arte di chi sa raccontare, e anche da vero sociologo – ma senza preoccuparsi troppo di questioni metodologiche (Kracauer 1930). Wright Mills torna a parlarci del lavoro d’ufficio, in America, immediatamente prima dell’office automation (Wright Mills 1959). Più recentemente Kunda ci fa conoscere una grande impresa high tech di successo, in particolare ci porta ‘dentro’ dentro una divisione dell’azienda (Kunda 1991).
Mentre Thomas e Znaniecki lasciano lavorare i materiali –lettere e documenti diversi appaiono in primo piano, costruendo una sorta di romanzo collettivo, a più voci– Kracauer, Whyte, Wright Mills, Kunda, ci parlano in prima persona in quanto ‘autori forti’: la ricerca, le fonti, restano nella cucina del libro, che ci appare come racconto costruito senza inciampi. Kunda, anzi, mostra una particolare attenzione alla buona scrittura, e nelle pagine finali si allontana esplicitamente dal ruolo dell’etnografo per virare sul personale, sulle motivazioni soggettive che l’hanno spinto verso questa ricerca.
Si afferma parallelamente una diversa forma di restituzione del lavoro svolto sul campo: la storia di vita. Esemplari in questo senso le opere messicane di Lewis: qui funziona già la mediazione tecnologica, l’uso del registratore. Ma il prodotto, narrato in prima persona dal protagonista, è un quasi-romanzo (Lewis 1951, 1961, 1964), veramente difficile da distinguere dalla narrativa latinoamericana contemporanea (che non è poi tanto ‘di invenzione’ perché si rifà quasi sempre a storie orali già raccontate a voce). Sulla scia di Lewis si muove il cubano Barnet. Ci presenta il racconto autobiografico di un ultacentenario ex schiavo (Barnet 1966) come ‘racconto etnico’, affermando nell’introduzione: “far parlare un informatore è, una certa misura, fare letteratura”. È aperta così la strada per libri presentati come romanzi, ma che sono ancora, esattamente come nel caso di Lewis e di Barnet, storie di vita raccolte al registratore: è il caso dell’operaio di Balestrini, che non a caso qualche hanno dopo pubblicherà la continuazione del ‘romanzo’ di Balestrini firmando l’opera come autore (Balestrini 1971; Varanini 1982).
Questi testi appaiono al lettore fluidi e levigati; ma dietro c’è una macchina al lavoro. Anche nel caso di Kunda, un anno di ricerca. Prima una attenta analisi di materiali documentari: house organ, procedure, slogan, dépliant commerciali, videoregistrazioni, resoconti di discorsi; poi una osservazione della vita quotidiana dell’organizzazione, dalle riunioni del board agli incontri informali in mensa; poi una serie di interviste.
Modalità di restituzione e rappresentazioni della realtà
Ora, bisogna notare che l’inizio degli anni novanta, e cioè il momento in cui conduce la sua ricerca Kunda, segnano un punto di svolta: fino ad allora il libro può essere considerato lo strumento esclusivo di restituzione di un lavoro di ricerca. E il libro porta con se una forma: sequenziale, ordinata restituzione, controllata da una figura che la domina, il responsabile della ricerca che firma il libro. Con gli anni novanta si affermano la multimedialità, l’ipertestualità e l’interattività. Di conseguenza, la restituzione non può più essere quella di prima. I risultati della ricerca possono e debbono essere presentati attraverso media diversi. La Rete permette una continua interazione tra attori coinvolti nella ricerca e ricercatore, tale per cui le restituzioni, sempre parziali, avvengono in momenti diversi, e la ricerca non è mai definitivamente chiusa: la chiusura, intesa come soluzione di continuità, esiste solo perché il libro, in un dato momento è ‘chiuso in redazione’ e mandato in stampa; questa cesura tecnologica è assente, ad esempio, nel caso di un sito web (Ong 1982, Bolter 1991, Turkle 1995. Bolter e Grusin 1999).
Questo per dire che di fronte a una ricerca che ha prodotto risultati, il libro o l’articolo, oggi, è solo una delle diverse forme di restituzione possibili. Una restituzione diversa e complementare è, ad esempio, una base dati strutturata, accessibile in base a criteri di ricerca predefiniti. O un ipertesto al cui interno si possibile muoversi scegliendo il percorso. O un Web visitabile nella logica del ‘surfing’, utilizzando un motore di ricerca. (Nelson 1981, Landow 1992).
Il testo che contiene i risultati della ricerca sarà dunque una ‘galassia di contenuti senza forma’, dai confini sfumati: perché ogni ricerca nasce da altre ricerche, confina con altre ricerche.
E cioè appartiene al baule di ‘galassie testuali’ che il lettore può di volta in volta montare a piacere, come accade con certi romanzi, non a caso anticipatori di forme che vanno oltre il libro (Cortázar 1963).
Spezzoni, brani, brandelli, certo dotati di un senso complessivo – ma il senso complessivo è quello di un discorso corale, cui contribuiscono tutti gli attori coinvolti a qualsiasi titolo nella ricerca.
Non a caso parliamo di discorso. ‘Discorrere’: ‘correre qua e là’. Quindi: ‘ragionare senza confini troppo precisi’ (Zadeh 1979), e soprattutto prescindendo dai confini imposti da altri. Muoversi in una direzione, ruotare attorno a un punto di riferimento, ma senza un ordine vincolante, motivati anche dal piacere e dal sogno, dal desiderio di farsi conoscere per chi si è realmente.
Qualcosa di simile al gioco di un bambino (Wittgenstein, 1953) e allo stesso tempo alla navigazione nella Rete. Qualcosa che trova riferimento nelle ultime frontiere della ricerca scientifica: la teoria dei quanti ci sbatte sotto gli occhi una immagine della realtà che appare come rete di probabili interconnessioni (Accardi 1997).
Il mondo è un sistema complesso apparentemente disordinato
Il mondo – così come le ricerche che ne descrivono modeste porzioni– è un sistema complesso, apparentemente disordinato. Una trama di elementi interdipendenti, dove nessuna delle proprietà di una qualsiasi parte della trama è fondamentale; esse derivano tutte dalle proprietà delle altre parti, e la coerenza globale delle relazioni reciproche determina la struttura dell’intera trama (Bateson 1972, Kauffman 1995).
Il lavoro da farsi sulla gran massa dei contenuti che emergono osservando un mondo non dovrà essere fondato sulla distanza, sul distacco critico, ma sulla vicinanza. Su un atteggiamento empatico: un processo di identificazione, una sorta di comunione affettiva pone, si spera, nelle condizioni di comprendere ‘cosa vogliono dire’ le persone che abbiamo conosciuto.
Gli osservatori non sono estranei al mondo osservato (Maturana e Varela 1980): ne fanno parte, con un loro specifico ruolo, fondato su una competenza, ma anche su una fiducia. Si può dire che una ricerca è efficace solo se ricercatori e mondo si sono reciprocamente scelti.
Così come l’imprenditore costruisce il suo mondo, organizzando il lavoro di persone e di macchine, così gli osservatori organizzano le parole raccolte. In entrambi i casi, una forma di produzione. Se valgono i presupposti, il frutto del lavoro degli imprenditori ed il frutto del lavoro dei ricercatori saranno legati da una relazione di autosomiglianza.
Se l’obiettivo della ricerca è esplicitato agli abitatori del mondo visitato, tra gli abitatori del mondo si autoselezioneranno i soggetti interessati alla ricerca. Il campione è un frattale dell’universo.
C’è una simmetria intrinseca dell'insieme. I discorsi liberamente pronunciati dai singoli soggetti si autorganizzano in un insieme coerente. Il tutto è simile a un suo componente. Se analizziamo una parte d'immagine e la ingrandiamo, osserviamo che il particolare è simile o identico all'immagine completa. (Non è questa la sede per un approfondimento della relazione tra ricerca sociale e ricerca scientifica di fronte ai sistemi complessi (Kauffman 1995). Per una rassegna rimandiamo a Capra 1997).
La logica della scoperta ed il ‘tirare a indovinare’
Jung parla per la prima volta di ‘sincronicità’ in una prefazione all’I Ching. Nel concetto c’è quindi un evidente rimando al pensiero orientale. Dove il pensiero occidentale vede un rapporto causa–effetto, il pensiero sincronico vede un evento (soggettivo o oggettivo) come elemento di una totalità. Ed è in funzione della sua appartenenza a questa totalità che l’evento trova la sua spiegazione (Jung 1952).
Pensiero orientale a parte, siamo vicini a quell’atteggiamento che il filosofo e scienziato americano Peirce (troppo geniale, eccentrico ed innovatore per essere compreso dai suo contemporanei) chiamava abduzione. Un processo logico che si basa sulla fiducia che esista un’affinità tra la mente di chi ragiona e l’ambiente, sufficiente a rendere il tentativo di indovinare non completamente privo di speranza. “È evidente che se l’uomo non avesse avuto una luce interiore tendente a rendere vere le sue congetture”, scrisse una volta Peirce, “la razza umana si sarebbe estinta per la totale incapacità nella lotta per la sopravvivenza”. (Peirce 1935-1966).
Altri esempi possono illustrare questo atteggiamento. “Ho sempre notato che c’è un metodo nella pazzia di Holmes” dice Watson all’Ispettore Forrester. Al che l’Ispettore replica: “Qualcuno potrebbe dire che c’è della pazzia nel suo metodo”. Cosa è la pazzia? Dice Voltaire: “Avere delle erronee percezioni e ragionare correttamente a partire da queste”.
“Etimologicamente”, scrive Umberto Eco, “‘invenzione’ è l’atto di scoprire qualcosa che già esisteva da qualche parte, e Holmes inventa nel senso inteso da Michelangelo quando dice che lo scultore scopre nella pietra la statua che è già circoscritta e nascosta nella materia sotto il marmo in eccesso (‘soverchio’)” (Eco e Sebeok 1983). Quando una lettura del mondo è stata trovata, inventata –ma solo allora– appare chiaro che quella, e solo quella, è la lettura che poteva emergere in quel contesto. La soluzione, in un certo senso, ‘esisteva già’. Doveva solo essere scoperta. (Non per questo è la ‘soluzione migliore in assoluto’: la soluzione ottimale anzi non esiste; guardando il problema in un altro modo sarebbe stata trovata un’altra soluzione , forse ugualmente efficace).
Eccoci di fronte a un punto chiave del nostro approccio: il metodo, per essere efficace, per essere in grado di dare voce a un mondo, deve essere ‘autosomigliante’ al mondo indagato, deve emergere dal mondo indagato.
Deriviamo spesso dall’osservazione forti indicazioni di verità, senza essere in grado di specificare quali circostanza dell’esperienza hanno convogliato quelle indicazioni. Se siamo ‘ricercatori forti’, di fronte a questi stimoli provenienti dall’ambiente, cercheremo di ricondurli a una qualche nostra previa ed esterna teoria interpretativa. Ma perderemo così tempo, e ci allontaneremo dal contesto e dalla possibilità di comprendere. Se invece ci abbandoneremo all’emozione della scoperta, se ci lasceremo guidare dalle tracce, dagli indizi, dai segnali deboli, se lasceremo che pur con molti tasselli mancanti il quadro si ricostruisca da sé, allora forse cominceremo a capire qualcosa.
A partire da questo ‘stare in situazione’ la storia che il mondo visitato ha da raccontarci si costruisce da sola.
Il ‘ricercatore debole’
Sarà possibile avvicinarsi a questo obiettivo – lasciare spazio, in un libro, alla voce narrante del piccolo e medio imprenditore – solo se chi conduce la ricerca e organizza i risultati in un libro sceglie consapevolmente di limitare il proprio ruolo.
Mantenendosi lontano da pur notevoli modelli. Kunda è ancora un ‘autore forte’, che impone il suo punto di vista. Sono ‘autori forti’ anche Lewis e Barnet (Barnet 1970) e Balestrini: per loro, quasi-romanzieri, far parlare l’altro è ‘fare letteratura’. Sono ‘autori forti’, in fondo, anche gli esponenti della recente scuola fondata su un Narrative Approach to Organization Studies se – come appare – non si preoccupano tanto di lasciare spazio alla narrazione, quanto di ‘leggere autorevolmente’, ‘interpretare’ ciò che viene raccontato (Czarniawska 1997, Czarniawska 1998). Se Lewis e Barnet sono quasi-romanzieri, Czarniawska è un quasi-critico letterario, o un quasi-filologo.
All’opposto di questi modelli, che impongono all’opera dell’‘autore’ -sia esso sociologo, antropologo o romanziere- il sigillo della loro pretesa originalità, sta la figura del cantastorie, lo storyteller, il narratore semiprofessionista itinerante che troviamo ancora attivo in tutte le periferie del mondo. Un rimaneggiatore di storie già raccontate, di parole già dette che – da questo ruolo – non si sente umiliato.
Del resto, è impossibile, o irrilevante determinare il momento in cui la storia è stata raccontata la prima volta. Ciò che conta è che la capacità della storia di esprimere un modo socialmente condiviso di vedere la realtà (Berger e Luckmann 1966). La fonte del sapere, qui, non sta nella mediazione dell’autore. L’opera si costruisce ‘da sola’, nel tempo: è la trasmissione di conoscenze e pratiche di interessi sociale o collettivi fatta in tutto o in gran parte oralmente, dai vecchi ai giovani, di generazione in generazione (Menéndez Pidal, 1924, Ong 1982).
A prima vista chi vive all’interno di una organizzazione segue la via della praxis, ‘azione’; ma a ben guardare segue il sentiero della poiesis: ‘produzione’, ‘creazione’, edificazione di un mondo unico e irripetibile, uguale solo a se stesso (Maturana e Varela 1980). L’imprenditore, così come l’impiegato o l’operaio, vive immerso in una vita quotidiana ricca e soddisfacente; la sua capacità creativa e produttiva si manifesta nel lavoro quotidiano – perciò, se pur ha storie meravigliose da raccontare, non ha tempo per scrivere, o ritengono inutile scrivere (Lotman 1985). Ed è particolarmente a proprio agio con l’oralità, e rifiuta le parole scritte inutilmente complicate ed artefatte.
In ogni organizzazione si ‘raccontano storie’: ogni mondo crea i suoi miti, trasforma in leggenda la storia delle proprie origini, ricorda attraverso aneddoti i momenti di cambiamento. La conoscenza sta in queste storie, e queste storie dobbiamo – in quanto ricercatori, testimoni, ‘autori deboli’ – dobbiamo essere capaci di far affiorare.
Se il ‘ricercatore forte’ arriva sul campo di indagine bardato delle sue sicurezze metodologiche, delle sue ipotesi di lavoro, il ‘ricercatore debole’ arriva ricco solo di dubbi. Il ‘ricercatore forte’ lavora per ‘far prendere coscienza agli altri’, pretendendo di spiegare come funziona un mondo ai suoi stessi abitatori. Mentre il ‘ricercatore debole’ si sforza di scoprire e di mettere in mostra i racconti nati in un mondo – partendo dalla convinzione che la sua capacità di comprendere è comunque limitata, e che la sua interpretazione, lungi dall’aggiungere, toglie qualcosa al racconto.
Il ‘ricercatore forte’ aveva l’alibi della necessità tecnica. Era necessario un suo intervento per organizzare la restituzione: il libro, l’articolo, frutto del suo autorevole ma forse inquinante intervento erano l’unico modo di attribuire un senso al lavoro svolto. Ma la tecnologia, che è poiesis -un modo di produrre, creare, ‘saper fare’- libera dal vincolo, non rendendo più necessaria l’organizzazione dell’autore. Il testo si autoorganizza, ha un senso intrinseco che si manifesta attraverso operazioni condotte autonomamente dal lettore su basi dati ed ipertesti.
Non serve più dunque un ‘ricercatore forte’. Serve un ‘ricercatore debole’, capace di favorire una accumulazione di materiali e capace di (limitarsi a) proporre probabili descrizioni del mondo visitato. Il ricercatore è ‘debole’ non perché è scarsamente dotato di competenze. Dovrà essere invece particolarmente dotato. Ma le sue competenze dovranno riguardare l’accumulazione più che l’interpretazione, la lettura più che la scrittura, l’individuazione di tracce più che la ricostruzione di percorsi. La scoperta, e non l’organizzazione. Il ricercatore si qualifica come tale perché sa vedere la realtà latente, sa osservare i ‘segnali deboli’.
La sagacia del poeta
L’Information & Communication Technology, in quanto poiesis, permette di leggere gli eventi senza autorevoli mediazioni. Il singolo lettore ha a disposizione gli strumenti per l’interpretazione. Tutte le interpretazioni sono al contempo legittime e subottimali. Sappiamo bene però che il relativismo ridefinisce il campo, ma non porta con se la soluzione. Se tutte le interpretazioni sono buone, quale è più buona delle altre?
La risposta certo non sta, come taluni vorrebbero, nel limitare d’autorità l’accesso alle risorse: i new media, il Web come enorme base dati, Internet come rete di interazioni non sono fastidiosi accidenti, ma la base materiale di un prima forse inimmaginabile approccio alla conoscenza.
La risposta sta invece -forse- nel dire che alcuni approcci ed alcuni strumenti, di fronte a questa incombente complessità, sono più di altri utili ed efficaci.
Percorrendo questa strada, arriviamo a dire che il ‘ricercatore debole’ è vicino al ‘poeta romantico’. Per entrambi l’idea di un ordine riconducibile a schemi è una costrizione che esclude porzioni troppo grandi del sistema vivente (Whitehead 1925). Per entrambi ciò che conta innanzitutto è l’abduzione, l’incessante riformulazione di ipotesi interpretative, di nuove letture del mondo. Per entrambi il punto di partenza sta nell’affermare il valore della diversità. Per entrambi la sensibilità soggettiva, che si manifesta come scostamento dalla regola, è la principale ricchezza. Per entrambi gli strumenti di osservazione non sono dati a priori, ma sono da scoprire di volta in volta a seconda della situazione, strettamente legati all’oggetto di indagine. Entrambi sono disposti a lasciarsi sorprendere. Entrambi accettano e tentano di comprendere il mistero, il segreto, l’occulto, il crimine.
Entrambi, il poeta ed il ricercatore, guardano innanzitutto alle code della gaussiana, ai luoghi marginali colmi di informazioni ridondanti, parziali, disordinate - ma proprio per questo ricche.
(Con questo, nessuno mette in dubbio l’esigenza di guardare ai luoghi popolati da informazioni ‘normali’: ma la parte centrale della gaussiana è già osservata da tanti occhi, gli occhi di tutti i ‘ricercatori forti’).
Come il Prefetto di polizia della Lettera rubata di Poe (Poe 1845), che non riesce a comprendere le azioni del Ministro, che non a caso era anche un poeta. “The Minister had resorted to the comprehensive and sagacious expedient of not attempting to conceal it at all”. La realtà è sotto gli occhi di tutti, ma il suo senso resta invisibile agli occhi del prefetto, condizionato dai rigori del metodo scientifico.
Talvolta, più che una conoscenza forte, ‘epistemologia’ -conoscenza fondata su una griglia posta sopra la realtà-, serve una ‘agnoiologia’, ‘the science or study of ignorance’ (Ferrier 1854). Sapere di non sapere, pensare che il nostro orizzonte è ben lungi dall’essere l’orizzonte del mondo; pensare che il metodo che abbiamo appreso non è l’unico, e tantomeno il migliore; pensare che non tutti ragionano come noi.
Dico qui: consideriamo anche l’importanza delle code della gaussiana. E affermo quello che più, in quanto ricercatore, mi piace fare. Sapendo che i risultati in larga misura dipendono dal piacere.
La poesia si distingue dalla prosa. Nella prosa il reale è semplificato sull’altare della leggibilità del testo. La prosa -discorso sequenziale, in linea retta- propone ricostruzioni organizzate, coerenti, prive di contraddizioni. La restituzione del lavoro di ricerca è la costruzione di un ordine.
La poesia, all’opposto, accetta l’irredimibile complessità del reale e si limita a rappresentarla. Non preoccupandosi di essere immediatamente intelligibile, illumina l’occulto e lo rende in qualche sorprendente modo comprensibile.
Dove la prosa elimina i vincoli che comprometterebbero l’ordine del quadro, la poesia decolla proprio a partire dai vincoli. Vincoli legati ai contenuti: il reale è accettato così com’è, nella sua complessità. Vincoli inerenti al metodo ed alle modalità di lettura: è un vincolo la difficoltà di vedere oltre le apparenze, l’impossibilità di avere un quadro completo del mondo osservato. Fino ai vincoli autoimposti, che sono un modo di riportare nella forma la complessità dei contenuti: la metrica, la spezzatura del testo in versi, la programmatica incompletezza del racconto.
Ma proprio dai vincoli emerge il risultato: ciò che è altrimenti invisibile è misteriosamente portato alla luce, mostrato.
Il poeta è un ricercatore debole, il ricercatore debole è un poeta. La frammentarietà del mondo, l’emergere del reale attraverso tracce labili e segnali appena intelligibili, è efficacemente rispecchiata dalla poesia. Ciò che non può essere detto altrimenti, spesso, può essere detto in versi.
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1 In una diversa formulazione, una parte di questo scritto è apparsa come capitolo metodologico in Francesco Varanini, con Mauro De Martini, Maurizio Lambri, Massimo Redolfi, Gianfranco Tosini, , L’innovazione latente. Un campione di piccole e medie imprese bresciane si racconta, Milano, Il Sole 24 ore, 2001.