Allora Dio disse a Noè: «È venuta per me la fine di tutti gli uomini, perché la terra, per causa loro, è piena di violenza; ecco, io li distruggerò insieme con la terra. Fatti un’arca di legno di cipresso…» (Genesi 6, 13–14)
Con queste parole si apre uno dei racconti più potenti e noti della Bibbia: la storia dell’Arca di Noè. In un mondo travolto dalla corruzione e dalla violenza, Dio non distrugge tutto, ma salva ciò che merita di essere salvato. L’arca è il rifugio dei giusti, la promessa di un nuovo inizio. È molto più di un semplice mezzo per sopravvivere al diluvio: è un simbolo, un’idea, un segno di speranza.
Nell’immaginario collettivo, l’arca di Noè è forse l’imbarcazione più famosa di sempre. Ma questa narrazione ha radici ben più profonde: nell’antico poema babilonese di Gilgamesh, un personaggio chiamato Utnapishtim costruisce una barca per salvarsi da un diluvio voluto dagli dèi. Anche qui, l’Umanità ha superato il limite, anche qui un “giusto” viene salvato con la sua famiglia e con “tutto il seme degli esseri viventi”. Due culture diverse, un’unica intuizione: la nave come rifugio, come base di un futuro possibile.
L’arca, e con essa la nave, porta in sé un immenso carico simbolico. Nel pensiero cristiano l’arca è la Chiesa, che attraversa le tempeste del mondo proteggendo coloro che cercano la verità. Nell’antico Egitto, le navi erano sacre: trasportavano statue divine durante le cerimonie, ma anche le anime dei faraoni nel loro ultimo viaggio verso l’aldilà. Il Nilo stesso era una divinità: navigarlo significava muoversi tra vita e morte, tra presente e eternità.
La Grecia antica, patria di marinai, eroi e filosofi, ci consegna un’immagine vivissima della nave.
Le barche achee portano Ulisse tra mille avventure, e il catalogo delle navi nell’Iliade ci racconta come esse fossero simboli di potere, di tecnologia, di scoperta. Le navi greche non trasportavano solo uomini, ma anche ambizioni, paure, desideri di gloria.
Ma è Platone a offrirci una delle immagini più sottili e provocatorie: Stultifera Navis, la nave degli stolti.
Una metafora potente contenuta nella Repubblica: una nave in cui tutti vogliono comandare, ma nessuno conosce l’arte della navigazione. Platone ci mette in guardia contro i governi senza saggezza, contro le società in cui la guida viene affidata al caso, al populismo, all’ignoranza. Per Platone, solo coloro che hanno ricercato la verità – i filosofi – possono condurre con rettitudine.
Lasciare il porto non è solo fuga: è anche possibilità.
Perchè la nave, anche quando è follia, resta un simbolo di movimento, di scarto rispetto alle convenzioni, di partenza. Lasciare il porto non è solo fuga: è anche possibilità. Come ha scritto Mazzucchelli, il verbo deserĕre significa sì “abbandonare”, ma può essere anche lasciare per cercare altrove, per cercare meglio. La nave ci invita al viaggio, e il viaggio è sempre una scommessa sulla rinascita. Cambiare orizzonte, cambiare se stessi.
E per chiudere in leggerezza, per chi cerca il vento giusto per riprendere il largo, un piccolo consiglio: (ri)ascoltate una canzone semplice ma universale. Rod Stewart, ottant’anni e ancora sul palco come pochi, l’ha cantata pochi giorni fa al Forum di Milano davanti a migliaia di persone:
Sailing. È una preghiera laica, un inno alla possibilità, al desiderio di “ritornare a casa”, qualunque essa sia.
“We are sailing, we are sailing / home again, 'cross the sea…”
Anche la nave più folle può trovare il suo approdo