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Viviamo in un’epoca in cui l’ontologia – la domanda su ciò che esiste e conta – non è più dominio esclusivo della metafisica. Grazie a reti comunitarie, tecnologie accessibili e pratiche urbane distribuite, emergono nuovi modi di fare mondo. Ispirandosi alle riflessioni di John D. Barrow, questo articolo esplora il principio antropico come chiave per leggere non solo l’universo, ma anche città, codici e sistemi di governance. Le “leggi” che regolano l’esistenza non sono scoperte una volta per tutte, ma negoziate collettivamente, situate nei contesti. L’ontologia diventa un gesto progettuale: codificare condizioni di esistenza, proporre costanti locali, generare realtà vivibili. In questo senso, fare ontologia è oggi un atto radicale, creativo, profondamente politico.


Chi ha il diritto di disegnare il mondo? Per secoli l’ontologia è stata lo strumento con cui il potere ha imposto ciò che conta, ciò che esiste, ciò che può essere pensato. Ma oggi, in un’epoca di reti distribuite, tecnologie accessibili e culture insubordinate, possiamo rimettere in discussione le fondamenta stesse dell’ontologia. E possiamo farlo a partire da una domanda più radicale: le ontologie che adottiamo sono davvero scoperte, oppure sono costruite?

Il fisico e cosmologo **John D. Barrow**, nelle prime pagine di *Il mondo dentro il mondo*, ci pone una serie di domande che sembrano demolire le certezze su cui poggia la scienza moderna:  

*«Le leggi di natura aspettano davvero lì fuori, pronte a farsi scoprire, oppure sono soltanto le descrizioni più comode di ciò che abbiamo già osservato? Esistono ancora se smettiamo di pensarle? Che cosa accadrebbe all’universo se non ci fossero osservatori?»*  

Barrow smonta la dicotomia classica tra un mondo “in sé” e un mondo “per noi”, proponendo una visione profondamente relazionale della conoscenza scientifica. Nel libro mostra come l’idea stessa di *legge* sia un’invenzione storica relativamente recente: i babilonesi e gli egizi registravano cicli e regolarità, ma non postulavano «statuti universali»; furono Galileo, Keplero e Newton a trasformare quelle regolarità in leggi.  

Tuttavia, osserva Barrow, più la fisica avanza più si scopre che le leggi non sono “immobili”: costanti fondamentali, come la carica dell’elettrone o la costante di struttura fine, sembrano scelte da un catalogo di possibilità, quasi fossero parametri di configurazione di un software cosmico.  

Qui irrompe il **Principio Antropico** (sviluppato con Frank J. Tipler), spesso frainteso come forma di teleologia: in realtà suggerisce che *solo* un insieme ristretto di costanti rende possibile l’emergere di osservatori complessi. Non è l’universo che “vuole” l’uomo; è la nostra stessa esistenza a filtrare dal ventaglio di universi possibili quelli in cui la vita può fiorire. In altre parole, ciò che chiamiamo «fine-tuning» potrebbe non essere una cospirazione cosmica, ma un artefatto della selezione osservativa.  

Questa prospettiva ribalta l’epistemologia classica: le leggi non sono monumenti eterni, bensì *mappe di sopravvivenza cognitiva* che evolvono con gli strumenti, le culture, i linguaggi. Barrow invita dunque a concepire la scienza come un processo di **co-creazione**: l’universo fornisce vincoli e pattern, mentre l’intelligenza li interpreta, li condensa in formule, li contestualizza culturalmente.  

Applicata alle città e ai sistemi sociotecnici, l’idea barrowiana implica che progettiamo non semplicemente edifici o reti, ma intere costellazioni di costanti «sociali» (norme, diritti, affordance) che rendono possibile l’emergere di determinati modi di vivere. Cambia una costante normativa — per esempio il diritto alla connettività di prossimità — e cambia l’universo di pratiche che vi si possono sviluppare.  

Di conseguenza, il vero nodo ontologico non è rintracciare la «legge perfetta», bensì **negoziare** continuamente quegli insiemi di parametri che rendono abitabile un mondo. A livello cosmologico lo facciamo inconsapevolmente; a livello urbano e tecnologico possiamo farlo consapevolmente, assumendoci la responsabilità di ogni «costante» che fissiamo nel codice, nella pianificazione, nella governance distribuita.  

È qui che il dialogo con Alexander, Hui e Taleb si fa fecondo: la città come sistema complesso non ha bisogno di un *codice unico*, ma di un *ventaglio di parametri adattativi*, regolati da comunità che leggono i feedback e re-sintonizzano le costanti locali. In questa chiave, la dimensione antropica non è solo fisica: è culturale, politica, etica. La realtà che conta è quella che continuiamo a scegliere di rendere possibile.

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## Ontologie situate: esempi dal Sud globale e oltre

Se le leggi di natura sono parametri negoziati a scala cosmica, le “costanti sociali” lo sono a scala urbana. Le seguenti esperienze mostrano come i parametri locali possano ridefinire interi ecosistemi:

### Open Mesh, Cina rurale  
Reti comunitarie a bassissimo costo connettendo scuole, cooperative femminili e artigiani; la banda e i punti di accesso vengono discussi in assemblee di villaggio, modellando l’infrastruttura digitale come estensione dell’ambiente sociale.

### Comuna 13, Medellín  
*Urban acupuncture* (scale mobili, centri culturali, murales) che sostituisce controllo armato con densità di opportunità e presidi culturali. <https://medellin.gov.co>

### Bilancio partecipativo, Porto Alegre  
Dal 1989 cittadini negoziano il budget comunale: una selezione “antropica” di interventi di spesa. <https://portalegre.rs.gov.br/participa>

### Superillas, Barcellona  
Ridisegno modulare della mobilità: blocchi pedonali interni, traffico relegato ai bordi. <https://ajuntament.barcelona.cat/superilles>

### Nairobi Community Networks  
Reti wireless off-grid che autogestiscono banda, costi e sicurezza: assemblee ricalibrano i parametri ogni settimana. <https://communitynetworks.africa>

### People’s Planning Programme, Kerala  
Il 40 % del budget statale delegato ai *grama panchayat*; il software *Sulekha* coordina migliaia di micro-progetti. <https://plan.lsgkerala.gov.in>

Questi tasselli, dal Kenya all’India meridionale, mostrano che una «fisica sociale» barrowiana può farsi governance quotidiana: cambiano le costanti, cambiano i mondi possibili.

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## Conoscenza come co-creazione

Così, fare ontologia oggi significa ripensare il ruolo della conoscenza: non accesso privilegiato a un ordine superiore, bensì partecipazione collettiva alla creazione di senso. *Il mondo dentro il mondo* ci ricorda che, se nessuno pensasse le leggi dell’universo, esse svanirebbero: ogni decisione progettuale incide una nuova ontologia nella materia del mondo.

In questa prospettiva, i **DAO** diventano infrastrutture di mondi: protocolli minimali per sostenere forme di convivenza complesse — come nei progetti comunitari tunisini o nei sistemi di credito mutualistico sudafricani.

Fare ontologia, dunque, è oggi un gesto progettuale: non disegniamo soltanto edifici o reti, ma **condizioni d’esistenza**. Trame relazionali, logiche di accesso, sistemi di significato. È un lavoro artigianale e collettivo, come quello del collettivo brasiliano **TROPICALIA-CODE** (<https://tropicaliacode.org>), che sviluppa architetture algoritmiche decolonizzate e apre pluriversi tecnici.

Il futuro dell’ontologia non verrà scritto nei trattati: sarà inciso nelle architetture che abitiamo, nei sistemi che usiamo, nelle reti che costruiamo. Per questo, oggi più che mai, fare ontologia è un gesto **punk**: qui *punk* non è distruzione, ma attitudine DIY che smaschera le strutture di potere e rivendica il diritto di riscriverle collettivamente. Non si tratta di negare tutto; si tratta di riconoscere che **altri mondi sono già in costruzione** — e che possiamo progettarli dal basso, con strumenti accessibili a chiunque.

StultiferaBiblio

Pubblicato il 16 agosto 2025

Calogero (Kàlos) Bonasia

Calogero (Kàlos) Bonasia / omnia mea mecum porto