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Come i pesci di David Foster Wallace, che non s’interrogano sull’acqua in cui nuotano, anche un nostro antico progenitore non avrebbe compreso la parola “lavoro”, perché tale attività coincideva con il tempo della vita, non vi era alcuna distinzione. Bisognerà attendere il XII secolo per ritrovare nel francese labeur e nell’inglese labour, termini capaci di descrivere, anche se limitatamente all’attività agricola, un’idea del lavoro assimilabile in qualche modo a quella moderna. Ma il concetto di lavoro, così come lo intendiamo noi, è di fatto figlio della rivoluzione industriale. Oggi, come abbiamo visto, i pilastri che sorreggevano quell’edificio sono crollati, uno dopo l’altro. Così quella distinzione che, nella concretezza dei gesti, non esisteva per quel nostro progenitore lontano, oggi, per molti di noi, non esiste più nel nostro “spazio mentale”....


Quando, dalle lontane terre del Nuovo Galles del Sud, il primo esemplare imbalsamato di ornitorinco arrivò in Inghilterra, gli scienziati di allora pensarono allo scherzo di un tassidermista. Correva l’anno 1798, e fu necessario attendere fino al 1884 per arrivare alla prova in grado di mettere d’accordo una schiera di contrariati naturalisti, incapaci di accettare la natura, ai loro occhi bizzarra, di un mammifero con il becco da uccello, che allattava i cuccioli e deponeva le uova. L’ornitorinco non è un ibrido in senso biologico, ma le sue caratteristiche e l’atteggiamento stupefatto di chi si trovò a studiarlo, si configurano come una perfetta metafora per spiegarci, meglio di qualsiasi ragionamento, la difficoltà di accettare il reale quando la coesistenza degli opposti si pone come minaccia a identità familiari e solide, perché sedimentate nel tempo. Il principio identitario genera sicurezza, diversamente il concetto di ibrido ci ha sempre messo in crisi (neppure l’etimologia ci aiuta, poiché è incerta), non dobbiamo dunque meravigliarci se un futuro del lavoro incerto, sempre più soggetto a forze centrifughe che lo allontanano dalle sue caratteristiche originarie, ci disorienti e crei confusione nei nostri pensieri. 

Eppure, sembrava cosa fatta, la dimensione “agile” del lavoro capace di concedere ampia autonomia riguardo allo spazio e al tempo dedicato al proprio impegno, merce rara prima del lockdown  pandemico (470.000 persone nel nostro paese), nel giro di poche settimane aveva raggiunto un picco di più di sei milioni di lavoratori. Certo, non si è trattato di vero smart working, ma qualcosa nella testa di tutti noi, durante quell’esperienza, ha cominciato a cambiare. Accelerando processi che avrebbero richiesto molti anni per assumere tali dimensioni, la remotizzazione del lavoro imposta dalla crisi pandemica ci ha fatto intravedere un pezzo di futuro. Una trasformazione antropologica del mondo del lavoro che dà inizio a un radicale cambiamento delle nostre abitudini legate allo spazio fisico e all’utilizzo del tempo, tanto da ricordarci quanto avvenne all’inizio della rivoluzione industriale con l’abbandono delle campagne. Ed è proprio a quelle immagini, apparentemente lontanissime, che dobbiamo tornare se vogliamo comprendere davvero la portata delle trasformazioni in atto: un mondo nel quale lavorare significava recarsi in un luogo preciso, uno spazio fisico che rappresentava un ambiente sociale di aggregazione capace di generare senso di appartenenza e idea di comunità. Tutto questo avveniva in un tempo definito, scandito da rituali consolidati che separavano il tempo del lavoro dal cosiddetto tempo libero, all’interno di uno scenario sostanzialmente stabile, che in moltissimi casi arrivava a coprire l’intero arco della vita lavorativa, influenzando profondamente gli stili di vita e il riconoscimento sociale delle persone. 

Un mondo che aveva cominciato ad andare in crisi sotto la spinta della globalizzazione e con l’avvento delle nuove tecnologie. Eppure, alcuni capisaldi di quel modello resistevano, la divisione tra il tempo dedicato al lavoro e il resto della vita restava netta, lo spazio fisico, la sede di lavoro, restava per la maggior parte di noi un luogo pubblico, distinto e anche riconoscibile nelle sue forme dagli spazi della nostra vita privata. Tutto questo non è più vero, moltissimi di noi ormai lavorano in treno, in aereo, nella propria auto, a casa propria e mentre sono in vacanza, ma soprattutto è cambiato qualcosa dentro di noi, sono molti ad ammettere ormai che non sarebbero più capaci di tracciare una linea netta che divida il tempo di lavoro dal resto della vita. Nella nostra mente, in particolare, non vi è più soluzione di continuità. Certo, questo non vale, almeno per ora, per tutte le tipologie di lavoro, ma se guardiamo le cose attentamente ci  accorgiamo di essere comunque di fronte a un cambiamento epocale.

La rivoluzione digitale modifica, dissolvendoli in larga parte, gli ancoraggi alla dimensione fisica del lavoro, quelli riferibili ai concetti di spazio, tempo e velocità. La dislocazione dei lavoratori in luoghi diversi, la destrutturazione dell’organizzazione temporale, il vorticoso aumento nella velocità dei sistemi di comunicazione, determinano una netta cesura con la tradizionale organizzazione del lavoro. Con la loro radicale trasformazione scompaiono di fatto gli assi cartesiani di un sistema sostanzialmente immutato dall’inizio della rivoluzione industriale. Così come sarebbe stato ingenuo descrivere l’esodo dalle campagne, a cui abbiamo accennato, come un semplice spostamento di persone, quando invece stava nascendo un nuovo mondo, una  nuova civiltà, oggi è impensabile immaginare di aver potuto infrangere elementi così essenziali per la definizione dell’identità del lavoro, come lo sono i concetti di spazio e di tempo, senza aver messo in moto cambiamenti così profondi che solo il tempo ci consentirà di comprendere nella loro vera portata. Alcuni effetti, per altro discontinui e disomogenei nel loro manifestarsi, sono tuttavia già oggi ampiamente osservabili, e di questo proveremo a occuparci. 

Smart working: remota è la distanza o la sua vera comprensione? 

Con la fine della pandemia si è aperta una grande opportunità per il mondo del lavoro: affiancare al lavoro tradizionale, da oggi definito “in presenza” (con una sorta di neologismo che non avrebbe avuto alcun significato prima di questo grande e forzato esperimento sociale), il cosiddetto lavoro agile. I vantaggi sembravano essere molteplici: riduzione dei costi per le aziende, minor impatto ambientale, produttività garantita a dispetto di antichi pregiudizi, grandi vantaggi sul fronte work life balance apprezzati dalla maggior parte dei lavoratori. Ma come accade spesso nelle vicende umane quando non si creano le condizioni per poter sviluppare la necessaria consapevolezza, si è generato un dibattito fortemente connotato da elementi ideologici ed emotivi. Chi vede nella dimensione agile del lavoro un processo di vera innovazione, accusa coloro che vogliono riportare i lavoratori all’interno delle aziende di ostacolare il cambiamento, fino a spingersi a parlare di restaurazione di vecchie logiche di potere.  Chi invece crede che il lavoro non possa prescindere da un’organizzazione caratterizzata da persone che si relazionano insieme nel medesimo spazio, considera i sostenitori dello smart working idealisti, sognatori, oppure, nel migliore dei casi, osservatori superficiali della complessità del lavoro.  

Nella pratica ciò che è avvenuto, al di là delle diverse posizioni in campo, è che molte delle soluzioni adottate sono state fortemente condizionate da legittime, e umanamente comprensibili, valutazioni di tipo utilitaristico, sia per quanto riguarda le aziende sia per i lavoratori. C’è anche chi all’interno delle aziende, accettando pragmaticamente i cambiamenti in atto, ha iniziato a lavorare per capire come poter organizzare una struttura ibrida del lavoro, con il rischio però di aggredire il fenomeno limitandosi alla sola dimensione organizzativa, ma il valore del lavoro, in una fase di grandi mutamenti, non può ridursi alla mera efficienza del suo funzionamento. L’elaborazione di un pensiero adeguato a comprendere l’impatto che queste trasformazioni hanno avuto rispetto ai processi di lavoro e alle relazioni tra le persone, diviene quindi una risorsa fondamentale per poter determinare quali situazioni possono essere vantaggiosamente gestite a distanza e quali invece necessitano di una qualità esprimibile esclusivamente in presenza.

La gestione di questa fase di transizione ha visto infatti le aziende, anche con caratteristiche simili,  operare scelte  molto diverse. Ma mentre l’accettazione di soluzioni ibride, anche se in misura e con livelli di convinzione diversi,  cominciava faticosamente a farsi strada, ecco che Amazon (la notizia è di qualche settimana fa) annuncia che a gennaio 2025 tutti dovranno tornare in azienda. Può una posizione così netta, sostenuta da un’azienda con un milione e mezzo di dipendenti, passare senza lasciare il segno? Ovviamente no, e infatti nei giorni successivi sono comparsi diversi articoli con titoli che potrebbero essere riassunti in una semplice domanda: “2025, fine dello smart working?”. 

Di fronte a situazioni così diverse non è facile fare previsioni riguardo al futuro, lo scenario è quanto mai fluido per cui anche i dati a disposizione appaiono spesso contradditori e poi, al di là dei dati, esiste il sentimento e l’opinione dei lavoratori: in molte delle aziende dove si sono svolti sondaggi hanno manifestato la loro determinazione a non voler tornare alla dimensione tradizionale del lavoro dopo aver sperimentato il lavoro agile. In Italia questa tendenza è confermata da una recente indagine svolta dall’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano che, oltre a registrare un aumento del 5% dello smart working per il 2025, conferma che il 73% di chi ne usufruisce si opporrebbe all’obbligo di rientrare definitivamente nelle sedi di lavoro. 

Se nel prossimo futuro dovesse prevalere la tesi sostenuta da Andy Jassy, Ceo di Amazon, che nella lettera rivolta ai lavoratori afferma: “lo smart working apparterrà sempre più al passato, perché stare insieme in ufficio rende più semplice imparare, fare brainstorming e inventare”, o comunque la scelta prevalente di altri giganti del settore tecnologico che stanno cercando di ridurre al minimo l’impatto di questo strumento (davvero singolare in questo senso la scelta di Zoom società leader nel fornire servizi per il lavoro a distanza), il rischio che si crei una forte contrapposizione tra lavoratori e aziende è molto alto, e questo non potrà che ritardare ulteriormente lo sviluppo di strategie evolute riguardo alla dimensione ibrida del lavoro. È davvero questo l’unico esito possibile? 

Scelte consapevoli per un futuro diverso 

È opinione diffusa considerare gli strumenti, per loro natura neutri, dipenderebbe quindi solo da noi l’uso buono o cattivo che ne facciamo. Molte delle vicende precedentemente esposte, riguardo allo smart working, sono l’ennesima dimostrazione che questo modo di ragionare è sostanzialmente sbagliato. Può essere utile, a proposito, richiamare la lucida analisi di Marshal McLuhan, che valutava con estrema severità questa opinione, definendola “l’opaca posizione dell’idiota tecnologico”, e spiegava come l’essenza delle innovazioni tecnologiche legate alla comunicazione, era da ricercare nel “mutamento di proporzioni, di ritmo, di schemi che introducono nei rapporti umani”. Lo smart working non sfugge a quest’analisi, per cui il rischio di una sterile contrapposizione è intimamente legato a una mancanza di consapevolezza e di profondità di pensiero. 

Chi nelle aziende pensa di poter riportare i lavoratori all’interno degli uffici, se non del tutto almeno in modo prevalente, non riesce a prendere atto che qualcosa è mutato per sempre nella testa delle persone, non solo perché il lavoro agile produce evidenti vantaggi nell’organizzazione della propria vita, ma perché i lavoratori sono stati capaci di dimostrare, superando un pregiudizio largamente diffuso, che buoni livelli di produttività si possono generare anche in totale assenza di controllo. Autonomia, indipendenza, libertà di scelta rispetto alla dimensione tempo, sono in fondo cambiamenti permanenti che la rivoluzione digitale ha portato nella vita di tutti noi, disintermediando attività e funzioni che prima contemplavano inevitabili relazioni di dipendenza. È aumentato, in sintesi, il senso di libertà e di autodeterminazione nella percezione delle persone.

Le aziende, dal canto loro, cominciano a considerare come marginale il beneficio sui costi di gestione, a fronte di qualcosa di più importante che rischia di sfuggirgli di mano. Il tema è legato al controllo, ma non si tratta più dell’antico controllo diretto sull’attività del lavoratore, il problema riguarda qualcosa di più sottile: l’engagement,  quei meccanismi di identificazione, fiducia, e di partecipazione emotiva agli obiettivi e ai destini della propria azienda. Un concetto efficacemente sintetizzato da Satya Nadella, Ceo di Microsoft, quando durante il lockdown affermò: “forse stiamo bruciando una parte del capitale sociale costruito prima, in questa fase in cui lavoriamo a distanza”. Per cui le aziende sembrano oscillare tra la necessità di accordare una parte di lavoro agile, in assenza del quale temono di perdere i giovani talenti, e il tentativo di ristabilire antiche certezze. 

In realtà è tutto da dimostrare che non sia possibile ottenere un elevato coinvolgimento attraverso adeguate strategie e progetti di smart working. Le aziende hanno ragione a sottolineare come alcuni processi di lavoro non funzionano, o funzionano molto male a distanza, ma costruire efficaci strategie di lavoro ibrido significa proprio saper riconoscere queste differenze trovando il giusto equilibrio tra le diverse modalità di lavoro. Se vogliamo che questo accada è fondamentale richiamare tutte le parti coinvolte a un forte senso di responsabilità, capace di evitare qualunque forma di polarizzazione intesa come rivendicazione dei propri diritti da un lato e del proprio potere dall’altro, per impegnarsi quindi nello sviluppo di nuove sensibilità e competenze. 

Cosa avviene quando si deve essere capaci di gestire e motivare collaboratori non più in presenza per larga parte del loro tempo?  La dimensione digitale del lavoro riduce enormemente la quantità di segnali legati alla parte più antica e istintiva della nostra comunicazione. Lo spazio virtuale è per sua natura più neutro e simmetrico nella definizione delle relazioni, condizione che può rivelarsi anche favorevole quando lo scopo dell’interazione è prevalentemente informativo, ma del tutto sfavorevole nelle situazioni che richiedono di valorizzare lo scambio emotivo-relazionale, e quest’ultima funzione è troppo importante per essere abbandonata, poiché intimamente legata alla qualità delle relazioni e al benessere delle persone. La minore possibilità di gestire le dinamiche di relazione nella loro sede naturale impone la capacità di farlo utilizzando le moderne tecnologie di comunicazione. Il gesto istintivo dev’essere sostituito dalla parola consapevole, capace di rendere esplicito, attraverso il dialogo, quanto era implicitamente chiaro nella relazione naturale. Si tratta di una competenza tutt’altro che elementare (tecnicamente definita metacomunicazione) e quasi del tutto estranea alla cultura del lavoro che abbiamo conosciuto finora. Allora si comprende quanto sia importante per il lavoro del futuro riuscire a gestire strategicamente queste due diverse dimensioni, reale e virtuale, presenza e distanza, guidati da scelte consapevoli rispetto ai diversi contesti, ma anche attraverso l’acquisizione di nuove competenze: agire una relazione e saper parlare sulla relazione sono abilità completamente diverse. 

Serviranno ancora alcuni anni per comprendere pienamente le grandi trasformazioni che stanno attraversando il mondo del lavoro, pochi dubbi invece riguarderanno l’inizio, quella cesura netta rappresentata dalla pandemia. Ma il cambiamento più profondo, forse, è già osservabile. Riguarda, riprendendo le parole lungimiranti di McLuhan, “il mutamento di proporzioni, di ritmo e di schemi introdotto nei rapporti umani”. Un esempio ci può aiutare a comprendere meglio quest’ultimo passaggio. 

Come i pesci di David Foster Wallace, che non s’interrogano sull’acqua in cui nuotano, anche un nostro antico progenitore non avrebbe compreso la parola “lavoro”, perché tale attività coincideva con il tempo della vita, non vi era alcuna distinzione. Bisognerà attendere il XII secolo per ritrovare nel francese labeur e nell’inglese labour, termini capaci di descrivere, anche se limitatamente all’attività agricola, un’idea del lavoro assimilabile in qualche modo a quella moderna. Ma il concetto di lavoro, così come lo intendiamo noi, è di fatto figlio della rivoluzione industriale. Oggi, come abbiamo visto, i pilastri che sorreggevano quell’edificio sono crollati, uno dopo l’altro. Così quella distinzione che, nella concretezza dei gesti, non esisteva per quel nostro progenitore lontano, oggi, per molti di noi, non esiste più nel nostro “spazio mentale”. Se è vero che “gli esseri umani non hanno mai abitato il mondo ma, sempre e solo, la sua rappresentazione”, forse non è così lontano il tempo in cui quella frase, un po’ elitaria e oggigiorno anche politicamente scorretta, di Joseph Conrad, racconterà qualcosa di noi: “come faccio a spiegare a mia moglie che quando guardo fuori dalla finestra sto lavorando?”


 

 

 

Pubblicato il 14 febbraio 2025