Che cosa significa davvero resilienza in un team di progetto?
La domanda sembra semplice, ma sottintende un groviglio di significati che è necessario sciogliere prima di poter rispondere con onestà. La resilienza non è un mantra salvifico né un’etichetta da applicare per legittimare l’ennesima riorganizzazione. È piuttosto una qualità emergente di sistemi sociali che imparano a reggere l’urto dell’incertezza trasformandola in conoscenza operativa. Se un tempo la metafora dominante era quella dell’albero che si flette al vento per non spezzarsi, oggi la prospettiva più adeguata è quella del vivente che, spinto da perturbazioni esterne, ristruttura sé stesso mentre agisce, in un continuo processo di adattamento consapevole. Parlare di resilienza significa quindi interrogarsi su come i gruppi elaborano le tensioni, su quali forme di linguaggio e di coordinamento permettano loro di restare coesi senza irrigidirsi, creativi senza perdersi, efficienti senza diventare cinici, capaci di apprendere senza dissolvere la propria identità funzionale.
“resistere” e “tornare come prima” non sono sinonimi
Per comprendere a fondo questa qualità è utile ricordare che “resistere” e “tornare come prima” non sono sinonimi. La reazione elastica di un materiale, che dopo lo shock riprende la sua forma, non basta a spiegare ciò che avviene in un team alle prese con un progetto complesso. Là dove la resilienza è reale, il sistema non torna mai identico: incorpora l’esperienza, ridefinisce alcune regole implicite, ricalibra aspettative e ruoli, riconfigura la propria memoria operativa. Ciò significa che la memoria dell’imprevisto viene metabolizzata: non è un’eccezione che si archivia, ma diventa elemento di design per le azioni successive. Quando questo avviene, non solo si attraversa la difficoltà, ma si costruisce un repertorio condiviso di risposte possibili per il futuro.
La resilienza diventa allora un accumulo di competenze dinamiche, un capitale cognitivo e relazionale che non si disgrega alla prima occasione, ma che si espande e si raffina con l’uso.
Un team resiliente si riconosce dalla qualità del suo dialogo interno. Nei momenti di frizione non prevale il silenzio né il rumore inutile: emergono domande autentiche, vengono messi in circolo segnali deboli, ci si concede il lusso di nominare i problemi prima che diventino catastrofi. È un ambiente in cui si possono dichiarare i limiti senza essere immediatamente giudicati, in cui l’errore viene trattato come un evento da analizzare e non come un marchio d’infamia. Ciò non significa indulgere né rinunciare alla responsabilità; significa capire che la fiducia è il vero tessuto connettivo dei team e che la trasparenza, se ben governata, non è mai un ostacolo alla performance. La resilienza, su questo piano, è una forma di igiene del discorso: depura la comunicazione da ciò che la inceppa, scoraggia le retoriche difensive, predispone la lingua del gruppo alla ricerca di soluzioni concrete.
Per rendere meno astratto tutto questo, immaginiamo una situazione concreta. Un progetto software arriva alla fase di test integrati con settimane di ritardo. Le dipendenze tra i moduli sono state sottovalutate e l’ambiente di staging non regge il carico simulato. Il cliente è impaziente, la data di go-live sembra compromessa, la direzione chiede spiegazioni.
In un gruppo non resiliente, la reazione tipica è la frammentazione: ogni reparto accusa l’altro, le riunioni si riempiono di dichiarazioni difensive e di cronache minuziose dei torti subiti. La pressione aumenta, la qualità cala, i bug si moltiplicano. In un team che ha interiorizzato la resilienza, invece, accade altro. Ci si ferma il tempo necessario per capire cos’è successo, si esplicitano le assunzioni errate, si mappa nuovamente il lavoro dando delle nuove priorità a ciò che crea davvero valore.
Qualcuno propone nuovi punti di osservazione, qualcun altro apre un canale dedicato per isolare e trattare rapidamente i difetti critici, un terzo si prende l’incarico di gestire la comunicazione con il cliente, raccontando anticipatamente ciò che sarà fatto, con quali vincoli e quali risultati attesi. Nessuno fa miracoli, ma il gruppo attraversa la crisi mantenendo coerenza interna. Alla fine, non solo il progetto si riallinea, ma resta qualcosa di più: un modo nuovo di coordinarsi, un lessico comune più preciso, una maggiore consapevolezza delle proprie interdipendenze e la decisione di modificare alcuni indicatori interni che avevano favorito l’errore.
Possiamo spingerci oltre e immaginare un secondo scenario, in un contesto diverso. Un team multidisciplinare, impegnato in un progetto infrastrutturale per la pubblica amministrazione, vive un cambio normativo improvviso: nuove regole sugli appalti, revisione delle linee guida sulla privacy, ritardi nei trasferimenti di fondi.
Il cronoprogramma salta, gli stakeholder chiedono chiarezza, il terreno politico si fa instabile. Un approccio rigidamente pianificatorio imploderebbe. Un approccio soltanto improvvisativo annegherebbe nel caos. Il team resiliente, invece, attiva un processo di sensemaking collettivo: scompone il problema, redistribuisce i ruoli, negozia con i decisori politici un perimetro realistico, costruisce un piano B e un piano C.
Integra strumenti di visualizzazione del rischio, ridefinisce il meccanismo di reporting, crea rituali settimanali di aggiornamento rapido in cui ognuno indica le variazioni critiche. Non è un trionfo eroico: è un lavoro di manutenzione intelligente della rotta in acque instabili.
Ogni individuo, innanzitutto, deve saper maneggiare il proprio rapporto con l’incertezza: riconoscere il proprio stress, nominarlo, ottenere supporto quando serve. Non si tratta di psicologizzare il lavoro, ma di prendere atto che la dimensione emotiva ha effetti diretti sulla qualità delle decisioni.
Un professionista capace di ammettere che “in questo momento non ho abbastanza informazioni per scegliere” è già un passo avanti rispetto a chi, pur di evitare il disagio dell’ambiguità, prende decisioni affrettate e sbagliate. La lucidità nasce dalla capacità di stare nel vuoto informativo il tempo necessario a raccogliere ciò che serve.
Questa postura mentale va allenata: significa abituarsi a non confondere velocità con urgenza, reattività con efficacia, lavoro visibile con lavoro significativo. Significa, anche, saper riconoscere i propri bias e chiedere a un collega uno sguardo esterno quando la pressione tende a ridurre il campo visivo.
A livello di team, la resilienza si manifesta quando la pressione si distribuisce, quando non esiste un solo punto di rottura ma una rete di connessioni capaci di attutire l’impatto.
È qui che entrano in gioco i modelli mentali condivisi: mappe, rappresentazioni, storie che il gruppo costruisce per descrivere il proprio lavoro e i propri rischi. Queste narrazioni non sono orpelli: influenzano il modo in cui si vedono le priorità, si valutano i pericoli, si pensa il futuro.
Un team che sa descrivere in modo nuovo la propria esperienza mette in atto una pratica riflessiva potente
Un team che sa descrivere in modo nuovo la propria esperienza mette in atto una pratica riflessiva potente: riconosce pattern, evitando di ripetere errori ciclici; individua opportunità, evitando di soffocare la creatività; alimenta memoria organizzativa, evitando di ricominciare ogni volta da zero. Le retrospettive, i post-mortem, i premortem, gli workshop di scenario non sono “perdita di tempo”, ma investimenti che permettono di risparmiare, dopo, un capitale di energie sprecate in reazioni disordinate.
Dicevamo quindi che resilienza non significa solo resistere nel momento dello shock, ma gestire il tempo prima, durante e dopo. Prima: predisporre spazi di controllo e monitoraggio, costruire margini di manovra, evitare di comprimere piani e risorse al punto da non avere poi elasticità.
resilienza non significa solo resistere nel momento dello shock, ma gestire il tempo prima, durante e dopo
Durante: adottare un ritmo che alterni accelerazioni e pause di riflessione, evitando di bruciare energie in un’unica corsa affannata.
Dopo: metabolizzare l’evento, aggiornare le procedure, trasformare ciò che si è imparato in prassi consolidate. Questo rapporto consapevole con il tempo è ciò che rende viva una teoria della regia temporale nei processi organizzativi.
La gestione del progetto, vista in questa prospettiva, non è una sequenza lineare di fasi, ma un lavoro di orchestrazione in cui presente, passato e futuro convivono in simultanea attraverso memorie, previsione e decisione situata. Il tempo, qui, non è solo un vincolo ma una risorsa modellabile: si tratta di scegliere quando comprimere, quando dilatare, quando sospendere. Un team che padroneggia questi registri temporali è in grado di non farsi travolgere dall’urgenza e di evitare di trasformare l’emergenza in routine.
La leadership, in un contesto simile, non è il luogo del comando gerarchico ma dell’orientamento e della cura. Un leader resiliente non impone soluzioni precotte, ma crea le condizioni perché le soluzioni emergano. È capace di sospendere il giudizio, di accettare l’incertezza, di accogliere feedback scomodi.
Tutto ciò non significa delegare la responsabilità a senso unico: significa assumersi la regia dei processi cognitivi del gruppo, proteggere il tempo e lo spazio necessari per riflettere, garantire che le decisioni vengano prese in condizioni di sufficiente chiarezza e non sotto il dominio dell’ansia.
Il leader funge da parafulmine quando serve, schermando il team dalle pressioni esterne; ma sa anche restituire al team l’autonomia necessaria, evitando che la dipendenza diventi una gabbia. È una funzione di tessitura: tenere insieme ciò che rischia di sfaldarsi, allentare ciò che è troppo rigido, dare forma a ciò che è ancora informe.
È anche una funzione educativa: muove il gruppo verso una crescente capacità di autogestione, promuovendo pratiche di feedback, di condivisione, di critica costruttiva che rendono meno necessario, col tempo, l’intervento diretto.
Non serve reclutare un leader “carismatico” o quello “certificato Scrum Master”. La resilienza richiede una leadership diffusa, una capacità di assumere temporaneamente il ruolo di guida quando la situazione lo richiede e poi cederlo di nuovo al flusso collettivo. In un ecosistema di progetto sano, la leadership è modulata: avanza e arretra, si distribuisce e si concentra, in base alla natura del problema da affrontare. È un fenomeno nucleare ma mobile, mai rigidamente incardinato in una sola persona. Questo evita l’effetto collo di bottiglia e impedisce che l’assenza di un individuo chiave generi paralisi.
La resilienza richiede una leadership diffusa, una capacità di assumere temporaneamente il ruolo di guida quando la situazione lo richiede e poi cederlo di nuovo al flusso collettivo
Occorre tuttavia prestare attenzione al rischio che la resilienza possa essere trasformata in un mito ideologico. Esiste sempre la tentazione di invocarla per chiedere ai team di adattarsi a contesti tossici, di assorbire ogni contraddizione senza potere mai negoziare i vincoli.
In questo caso, la resilienza diventa una parola d’ordine che legittima la scarsità, il sovraccarico, la procrastinazione delle decisioni strategiche. Si crea un paradosso: si inneggia alla flessibilità mentre si irrigidisce la struttura, si celebra l’eroismo del gruppo mentre lo si consuma.
Per evitare che ciò accada, è necessario affiancare alla resilienza il criterio della sostenibilità organizzativa: non si può chiedere a un team di adattarsi senza limiti. La capacità di dire “no” e di denunciare la non sostenibilità di certi carichi è parte integrante di una vera resilienza.
Un sistema incapace di contestualizzare e rendere operativi i propri limiti non può essere qualificato come resiliente: la sua traiettoria evolutiva è orientata strutturalmente al collasso o, nel migliore dei casi, a forme di alienazione funzionale.
Un sistema incapace di contestualizzare e rendere operativi i propri limiti non può essere qualificato come resiliente
L’ho visto più volte in consulenza: project manager imbottiti di certificazioni esibite come medaglie, che poi organizzano le giornate come un Tetris di call senza senso, non annunciano un’agenda prima di collegarsi, non documentano nulla a valle, chiamano “daily standup” una riunione mattutina che finisce alle tredici, salvo convocare alle tredici e trenta un’altra call urgente per discutere ciò che non è stato trattato nelle quattro ore precedenti e, ovviamente, farne una alle 18 per "capire come è andata la giornata".
Questa non è resilienza, è un sintomo di disfunzione strutturale: si confonde il movimento con il progresso, il rumore con il lavoro, la terminologia agile con la pratica di buon senso. Finché la struttura premia il caos ritualizzato e non la qualità dei processi cognitivi, la richiesta di resilienza ai team resterà una foglia di fico che copre la mancanza di governo reale del progetto.
E qui entra in gioco anche l’etica del lavoro: la resilienza non può giustificare la violazione dei diritti, la compressione sistematica dei tempi di vita, l’erosione fisica e mentale delle persone.
Un’altra deriva possibile è la trasformazione della resilienza in puro tecnicismo. Se la si riduce a checklist, a procedure standard, a moduli di formazione impersonali, si perde la capacità di reinventare il proprio modo di lavorare a partire da ciò che sta accadendo.
Certo, servono strumenti, linee guida, protocolli. Ma non possono sostituire la capacità di pensare, discutere, decidere. La resilienza ha bisogno di cornici, non di gabbie. Ha bisogno di processi abilitanti, non di iter burocratici che anestetizzano la responsabilità.
Confondere il mezzo con il fine è sempre pericoloso: si finisce per difendere il metodo anche quando non funziona più, invece di aggiornare il metodo perché continui a servire il suo scopo. In questa prospettiva, anche gli strumenti digitali devono essere scelti e configurati non per sorvegliare, ma per rendere visibile l’essenziale, facilitare l’apprendimento, supportare il coordinamento.
Per questo motivo quando svolgevo le mie consulenze sull'impiego di Jira per la gestione dei progetti io mi distinguevo nettamente da tutti gli altri consulenti che facevano il mio stesso lavoro. Perché io, a differenza di loro, conoscevo anche il contesto, per averlo vissuto come project manager, come programmatore, come sistemista, come cliente, secondo i casi e parlavo la stessa lingua del mio interlocutore. Insomma gli altri colleghi spiegavano le funzioni del grassetto e della stampa unione di Word... per usare una metafora, io invece raccontavo come sarebbe stato possibile enfatizzare il testo secondo quello che si voleva scrivere: una poesia, un racconto, una relazione tecnica, una pagina di diario.
Una differenza sostanziale che però quando si guardano i curricula e si cerca un codice di certificazione, svanisce, mettendo tutti sullo stesso piano, verso il basso. #intelligentipauca
La costituzione di un team resiliente richiede dunque un’attenzione congiunta a tre dimensioni: la qualità delle relazioni, la chiarezza dei processi, la libertà di apprendere.
Nessuna di queste dimensioni, presa da sola, basta. Relazioni senza processi producono caos; processi senza relazioni generano alienazione; apprendimento senza garanzie strutturali resta fragile. Solo lavorando nell’intersezione si può ottenere un equilibrio dinamico, capace di sostenere lo sforzo continuativo che i progetti richiedono.
A queste tre dimensioni se ne può aggiungere una quarta, spesso trascurata: la cura dell’energia collettiva. Un team esausto è un team vulnerabile. Un team che cura i propri ritmi, che bilancia concentrazione e recupero, che sostiene chi è in difficoltà e redistribuisce il carico quando serve, è un team che può affrontare scosse prolungate senza collassare.
Se torniamo al punto di partenza, possiamo dire che parlare di resilienza significa imparare a guardare i team come sistemi viventi, a leggere le tensioni come informazioni e a trattare l’incertezza non come un nemico, ma come un ambiente dato. Il futuro del project management, da questo punto di vista, non sta nell’illusione di controllare ogni variabile, ma nel progettare dispositivi di adattamento che includano l’umano nella sua interezza: razionalità, emozioni, linguaggi, simboli.
parlare di resilienza significa imparare a guardare i team come sistemi viventi, a leggere le tensioni come informazioni e a trattare l’incertezza non come un nemico, ma come un ambiente dato.
L’obiettivo non è fare i conti con il cambiamento una volta per tutte, ma abituarsi al cambiamento rendendolo la forza motrice del proprio apprendimento. È il passaggio da un’idea di efficienza statica a una di efficacia dinamica, dove il valore non è solo nel risultato, ma nel processo capace di rigenerarsi.
Ciò implica anche ripensare le metriche del successo. Se continuiamo a misurare soltanto rispetto al piano iniziale, mancheremo tutto ciò che il progetto è diventato nel frattempo. Occorrono indicatori che tengano traccia degli apprendimenti generati, del livello di cooperazione, della capacità di gestire il rischio senza trasformarlo in panico.
È il momento di restituire dignità all’intelligenza situata dei team, alla loro capacità di inventare soluzioni nel mezzo della tempesta. Non esiste algoritmo che sostituisca la sensibilità umana nel cogliere ciò che sta emergendo. Esiste però la possibilità di costruire contesti in cui questa sensibilità sia valorizzata e messa al servizio di obiettivi concreti. Qualcuno ha proposto di misurare il “debito di resilienza”, analogo al debito tecnico: quante fragilità stiamo accumulando oggi, per non aver imparato davvero dalla crisi di ieri?
La resilienza, dunque, non è un attributo che si dichiara ma un percorso che si pratica. Richiede tempo, intenzionalità, impegno. Richiede l’umiltà di riconoscere che non tutto è sotto controllo e il coraggio di agire comunque. Richiede di accettare che fallire può essere parte del processo, purché si fallisca nel modo giusto: imparando, condividendo, riprogettando. In questo sta la vera forza dei team di progetto: non nell’essere invulnerabili, ma nell’essere capaci di trasformare la vulnerabilità in conoscenza e in azione coordinata. È un lavoro di artigianato cognitivo: si lima, si assembla, si testa, si corregge, si ricomincia, con l’idea che ogni ciclo lascia tracce utili per chi verrà dopo.
La resilienza, dunque, non è un attributo che si dichiara ma un percorso che si pratica.
Chi lavora ogni giorno in progetti complessi lo sa: il cambiamento non è un evento isolato, è l’aria che si respira. Invece di consumare energie per negarlo o per temerlo, conviene imparare a inspirarlo a pieni polmoni, lasciando che nutra la capacità di vedere oltre l’immediato.
È in questo gesto, apparentemente semplice, che la resilienza trova il suo senso più profondo: non come difesa contro il mondo, ma come modo di stare nel mondo con lucidità, misura e responsabilità. E quando il progetto si conclude, se davvero la resilienza è stata praticata, resta un’eredità: un gruppo più consapevole, un’organizzazione più attenta, un modo di lavorare che può diventare modello.
Non è poco, in un’epoca in cui il rischio è ridurre ogni relazione a protocollo e ogni sforzo a indicatore. La resilienza è il contrario della banalizzazione: è l’arte, paziente e rigorosa, di fare posto all’imprevisto senza esserne travolti.
Ci sono diversi libri che potrei suggerire a chi desidera approfondire il tema della resilienza nei contesti organizzativi e progettuali. Ognuno offre una prospettiva utile, anche se differente per taglio, ambito e applicabilità.
Peter M. Senge, con La quinta disciplina, propone una visione sistemica dell’organizzazione come organismo che apprende. È un testo fondamentale per comprendere come le dinamiche di gruppo, i modelli mentali e l’apprendimento collettivo siano alla base di ogni processo resiliente. Sebbene non parli direttamente di resilienza, fornisce le fondamenta concettuali per pensare i team come sistemi adattivi.
Andrew Zolli e Ann Marie Healy, in Resilienza. La scienza di adattarsi ai cambiamenti, offrono una trattazione ampia e multidisciplinare del concetto, spaziando dalla biologia ai sistemi urbani, fino ai comportamenti collettivi. È utile per allargare lo sguardo e vedere la resilienza come una capacità emergente dei sistemi complessi, ma resta in parte generale e orientato alla divulgazione.
Nassim Nicholas Taleb, con Antifragile, porta il discorso ancora oltre: propone una critica radicale alla cultura della prevenzione e un inno alla capacità di trarre vantaggio dal disordine. Il concetto di antifragilità è potente, ma va maneggiato con cautela nei contesti organizzativi: più provocazione intellettuale che guida operativa.
Carol S. Dweck, in Mindset, esplora l’importanza della mentalità di crescita per affrontare l’incertezza e trasformare l’errore in apprendimento. Sebbene focalizzato sulla dimensione individuale, è un libro essenziale per comprendere le basi psicologiche della resilienza nei team, soprattutto nei momenti di transizione o fallimento.
Tra questi, però, mi sento di raccomandare il libro di Amy C. Edmondson, Organizzazioni senza paura.
La sua forza sta nella chiarezza con cui mette in luce un presupposto imprescindibile per qualsiasi forma di resilienza: la sicurezza psicologica. Un team che non può esprimere dubbi, riconoscere errori o dichiarare in anticipo i propri limiti non potrà mai essere veramente resiliente, né innovativo, né sostenibile nel tempo. L'autrice del libro non si limita alla teoria, ma mostra come costruire attivamente contesti di fiducia operativa, evitando la falsa collaborazione e i rituali di facciata. Per chi lavora ogni giorno tra deadline, ambiguità e cambi di rotta, è una lettura imprescindibile. Per chi progetta ambienti di lavoro che devono reggere all’urto della complessità, è una guida concreta. Per chi, infine, vuole andare oltre la retorica della resilienza e affrontarne la dimensione politica, culturale e organizzativa, è il punto di partenza più solido.