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Per oltre un secolo, la teoria del management ha catalogato le forme organizzative: la burocrazia di Weber, gli archetipi di Mintzberg, le cooperative, le B Corp, le imprese sociali, le DAO. Eppure questa proliferazione nasconde una notevole evasione: praticamente nessun quadro mainstream utilizza sistematicamente strumenti filosofici per analizzare come il potere sia legittimato all'interno delle organizzazioni.


Classifichiamo i codici di governance, le strutture proprietarie e la cultura, ma ignoriamo costantemente l'analisi politica che spiega quali interessi prevalgono, quali voci contano e come viene applicata la conformità.

Non si tratta di una svista innocente: la scienza del management si è deliberatamente separata dalla teoria politica per eludere convenientemente le questioni fondamentali di legittimità. Il risultato? Non riusciamo a chiederci con quale diritto un'organizzazione comandi, escluda, assegni risorse o valore, codificando così l'ingiustizia sistemica nell'architettura della vita organizzativa.

L'imperium – la capacità di comandare e far rispettare le regole – diventa "gerarchia" o "stile di leadership", spogliato di domande su ciò che legittima la sovranità organizzativa. Il dominio – il controllo sulle risorse produttive – diventa "dovere fiduciario", "salario minimo" o "business case", occludendo la proprietà come relazione sociale che strutturava il potere e l'esclusione attraverso i contratti. La potestas – la capacità di autodeterminazione collettiva – si riduce al "coinvolgimento dei dipendenti" o all'"empowerment", mentre il vero potere costituente è precluso.

Ma ogni organizzazione è un ordine politico. Proprio come le società lottano per il potere statale, il dominio del mercato e la sovranità popolare, le organizzazioni rispecchiano queste tensioni internamente. Le imprese statali concentrano l'imperium, sopprimendo sia la disciplina di mercato che la voce democratica. Le società azioniste danno priorità al dominio del capitale, riducendo il lavoro a input disponibile. Le cooperative e le ONG tentano di massimizzare la potestas – l'azione collettiva – ma spesso soffrono di fragilità senza un'impalcatura normativa e legale più ampia.

Gli ibridi proliferano – imprese sociali, cooperative di piattaforme, steward-ownership, partnership autogestite – ognuna delle quali cerca di riequilibrare le strutture di autorità, proprietà e agenzia. Eppure anche queste "innovazioni" raramente affrontano questioni politiche fondamentali. La maggior parte delle distribuzioni del potere rimangono storicamente contingenti, eticamente incomplete e aperte alla manipolazione.

Mappando le forme organizzative sul Triangolo Politico possiamo dispiegare un'analisi politica rigorosa per chiederci: cosa costituisce l'autorità organizzativa legittima? In che modo i regimi di proprietà strutturano le possibili distribuzioni di potere e di surplus? Quand'è che il potere costituente viene catturato dalla sua stessa ideologia?

Questo non è un mero esercizio accademico: è la precondizione affinché le imprese siano una forza per il bene. Solo reintegrando la teoria politica con il management e l'economia possiamo collegare la giustizia macro al design organizzativo meso. Finché non facciamo i conti con la legittimità del potere, la teoria del management non può diventare un vero motore di trasformazione sociale.


Pubblicato il 13 ottobre 2025

Otti Vogt

Otti Vogt / Leadership for Good | Host Leaders For Humanity & Business For Humanity | Good Organisations Lab

otti.vogt@gmail.com