Alla certezza computazionale e algoritmica che nel nostro zapping quotidiano ci fa sentire bene, si contrappone una incertezza, diventata normalità, che facciamo fatica a riconoscere, che allegramente rimuoviamo. Stabilità e durata sono percepite come semplice apparenza, prevale il sentimento di precarietà, frammentazione, instabilità, caos e disordine. L’incertezza non è solo individuale e sociale, ha radici storiche (il crollo del muro del 1989), economiche (crisi finanziaria del 2008 e de-globalizzazione) e politiche (pensate all’Italia del 1994 ma anche all’attacco alle torri gemelle nel 2001).
Viviamo tempi tecnologici ma molto incerti.
La famosa teoria della fine della storia di Fukuyama è stata smentita dai fatti, non solo geopolitici. Il neoliberalismo ha creato disuguaglianze vergognose che stanno alimentando le migrazioni, la rabbia e il disordine, domani anche nuove guerre. A rischio è oggi la libertà, anche quella alla base del liberalismo, e la democrazia rappresentativa, la partecipazione e la cittadinanza. L’ideologia egemonica tecno-neoliberista dominante, caratterizzata da elevato e servile conformismo, impedisce l’affermarsi di idee alternative, determinando da un lato l’emergere di idee populiste, conservatrici e reazionarie, dall’altro la sua stessa sclerosi e crisi.
Riflettere sul tecno-neoliberalismo è un modo per riflettere sull’era digitale. La parola chiave da cui partire è libertà, pensata come libertà priva di interferenze. Una libertà oggi in apparenza priva di costrizioni e che molti celebrano, ma che in realtà è costantemente influenzata, guidata, colonizzata, anche per impedire di scegliere e di fare ciò che ogni singolo individuo potrebbe fare. Essendo trattati bene, gratificati, dotati di strumenti (piattaforme) che ci permettono si socializzare e comunicare, pensiamo di essere liberi, anche se, algoritmicamente parlando, non lo siamo. Siamo sempre più schiavi, in balia di personaggi dal potere fuori controllo, come Elon Musk, che con un cinguettio possono decidere e fare quello che vogliono (tutti su Marte?), anche a scapito dei più.
Viviamo tempi digitali(zzati)
Il tempo quotidiano di molti passa oggi attraverso dispositivi e piattaforme, elementi di una infrastruttura tecnologica pervasiva che, appesantendolo, ha globalizzato il mondo, colonizzato (ibridizzato) la vita di miliardi di persone, annullato il tempo e lo spazio, ridotta la capacità umana di relazionarsi in modo incarnato, di usare la propria immaginazione e di esercitare la propria cittadinanza attiva, compresa quella digitale. Tutto questo senza peraltro ridurre o eliminare il senso di incertezza che tutti oggi sperimentano.
Nonostante la fiducia che tanti tecno-ottimisti regalano acriticamente alla tecnologia, l’incertezza e l’ansia della fase attuale dell’Antropocene non troveranno in essa alcuna risposta esaustiva. Per questo può essere utile e necessario riflettere criticamente sulla tecnologia, i suoi usi ed effetti, come primo passo verso una maggiore conoscenza, la (tecno)consapevolezza e la maggiore responsabilità, anche etica nell’agire.
Riflettere è un passo necessario per (ri)dare senso al nostro presente, oltre che alla nostra esistenza. Un senso del tempo presente che si è perduto, a iniziare dalle parole e dal linguaggio che usiamo per descriverlo e raccontarlo. Parole come informazione (che non sempre aiuta la conoscenza, il sapere!), trasparenza (di chi e per chi?), privacy (sparita!), piattaforme, intelligenza artificiale (mai neutrale), comunità (la parola più abusata e negata), relazione, condivisione (sharing), cittadinanza, ecc.
Abitanti di piattaforme
Avendo trasferito la loro residenza online e abitando in pianta stabile le piattaforme digitali molti (cooptati) hanno perso contezza del loro essersi rinchiusi dentro mondi chiusi (Facebook non è Internet!), acquari trasparenti ma solo per chi li ha allestiti, caverne riscaldate dalle quali è impensabile fuggire. Le piattaforme sono diventate la vita di molti, ma sono anche, come ha scritto Davide Arcidiacono “il nuovo modello organizzativo della service economy, il centro di un processo di convergenza dei modelli di business nell’era della transizione digitale”.
Viste nella loro essenza e nel ruolo che giocano nella società attuale, le piattaforme digitali dovrebbero essere oggetto di una riflessione ampia, allargata alla trasformazione dell’utente in semplice consumatore e merce, al ruolo degli algoritmi in termini di misurazione, valutazione e indirizzamento delle scelte delle persone, al mutamento dei meccanismi relazionali che da incarnati sono diventati virtuali (relazioni tra profili, con assistenti personali, ecc.) e disincarnati, in assenza di corpo, al ruolo svolto in termini di sorveglianza e controllo (suggerisco la lettura del Capitalismo della sorveglianza di Shoshana Zuboff), alle ricadute che la pervasività delle piattaforme hanno sulle organizzazioni, private e pubbliche, sulle aziende, sul lavoro (non solo AirBnb, Huber, ecc. ma GIG economy, precarizzazione e diffusione di lavoretti malpagati e senza diritti).
Digitalizzazione, sostenibilità e crisi ambientale sono tra loro collegati, interrelati. Riflettere criticamente sulle piattaforme digitali è un modo per pensare anche alla sostenibilità e a come preparare futuri diversi da quelli che la crisi climatica/ambientale ci sta preparando. Una riflessione necessaria parte dalla considerazione di quante risorse le piattaforme che allegramente usiamo consumino. Non sono entità dematerializzate ma pesanti, materiali, energivore, responsabili per lo sfruttamento della Terra così come di molte persone, spesso bambini e adolescenti, in tutto il mondo, anche in quello occidentale. Una responsabilità spesso agita anche attraverso le armi, la violenza e la coercizione (pensate ai 200.000 dipendenti/prigionieri della iPhone factory della Foxconn).
La riflessione, necessaria, ha bisogno che si abbandoni la celebrazione dell’innovazione tecnologica (chi può metterla in dubbio ma perché celebrarla?) per far emergere i suoi costi, umani e ambientali.
Tutti intelligenti, le macchine di più?
Nell’era dell’incertezza nulla più dell’automazione, della robotizzazione e della intelligenza artificiale. dovrebbe suggerire una riflessione critica. Una riflessione utile per conoscere ciò che si nasconde dietro lo sviluppo di queste apparecchiature, sistemi di IA e loro infrastrutture. Necessaria per comprendere: l’emergere di nuovi modelli di sviluppo che cambiano il mercato del lavoro, quanto sia invasivo lo sfruttamento di risorse energetiche e minerarie, la pervasività predatoria per accaparrarsi dati violando ogni privacy, l’utilizzo a scopi militari, politici e di potere delle intelligenze artificiali e delle tecnologie di controllo e sorveglianza. Da intelligenti quali ci riteniamo, possiamo tutti far finta di nulla e godere dei vantaggi che la tecnologia ci regala.
Possiamo anche pensare che i problemi attuali e le crisi che si susseguono possano essere meglio gestiti attraverso la tecnologia. Possiamo continuare a credere che la tecnologia sia neutrale e progressiva. Possiamo infine non collegarla (come fanno molti filosofi affiliati alle chiese tecnologiche) al sistema economico attuale e ai suoi modelli di sviluppo di cui condivide i valori e le idee (ideologie) di fondo.
Meglio però avere consapevolezza del suo essere costruita socialmente e storicamente e come tale espressione dei rapporti di produzione e di potere che caratterizzano la fase attuale del capitalismo. Con una conseguenza importante: non tutti sono uguali di fronte alla intelligenza artificiale. Le macchine saranno anche diventate intelligenti, per alcuni più degli umani, ma sono pur sempre espressione di relazioni di potere, quelle che oggi stanno anche caratterizzando, con le sue crisi, l’era dell’Antropocene.
La cittadinanza
Nel significato giuridico la cittadinanza si riferisce al rapporto tra un individuo e lo stato o l’ordine costituito. L’avvento del digitale ha fatto emergere anche una cittadinanza digitale, definibile sulla base della “capacità di partecipare attivamente, in maniera continuativa e responsabilmente alla vita della comunità” (Consiglio d’Europa). Per esercitare la cittadinanza il cittadino digitale deve impegnarsi online per la cultura democratica, dentro un percorso di apprendimento permanente, nella difesa dei diritti umani e della dignità. In una parola, non basta avere accesso alla rete e abitare le sue piattaforme per essere un cittadino digitale.
Bisogna anche coltivare dei valori, avere degli atteggiamenti, delle conoscenze utili a una comprensione critica della realtà, a fare delle scelte e ad agire, attraverso i potenti strumenti disponibili, per contribuire alla trasformazione in positivo della società.
Dispositivi, piattaforme, Internet possono essere usati come strumenti di partecipazione democratica e di dialogo, per salvaguardare la pluralità delle idee, per vigilare sulle attività dei proprietari delle piattaforme di appropriarsi dei dati personali, per combattere il linguaggio violento e la violenza online, per difendere i diritti e i valori che stanno alla base della nostra civiltà e il nostro essere umani, diversi dalle macchine che vorrebbero sostituirci.