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Si vede meglio al buio, ma solo se si ascolta. Robert M. Pirsig, nel suo straordinario "Zen e l'arte della manutenzione della motocicletta", avrebbe riconosciuto in questa frase il cuore pulsante di quello che chiamava "Qualità" - quella dimensione dell'esperienza che precede la divisione aristotelica tra soggetto e oggetto, tra chi osserva e cosa viene osservato. È la stessa intuizione che attraversa la figura mitologica di Tiresia: esiste una forma di conoscenza che non dipende dalla vista, ma dalla capacità di percepire le risonanze profonde della realtà.


Il veggente cieco e la manutenzione dell'essere

Tiresia - che Ovidio nelle Metamorfosi descrive come colui che "noverat utrumque Venerem" (conosceva entrambi gli amori), avendo sperimentato nella propria carne la condizione sia maschile sia femminile - rappresenta qualcosa di più complesso di un semplice indovino. È l'incarnazione vivente di quella che Pirsig chiamava "attenzione non dualistica": la capacità di esperire la realtà senza separarla artificiosamente in categorie opposte.

Nel mondo del lavoro contemporaneo, dominato dalla frammentazione delle competenze e dalla specializzazione estrema, Tiresia ci ricorda che la qualità autentica emerge sempre dall'integrazione. Non è un caso che i grandi artigiani medievali - pensiamo ai maestri costruttori delle cattedrali gotiche, che Ruskin studiò con tanta passione - fossero chiamati "magistri" proprio perché sapevano tenere insieme aspetti tecnici e spirituali, pratici e teoretici, individuali e collettivi del loro lavoro.

L'archeologia della qualità perduta

Quando Walter Benjamin, nelle sue "Tesi di filosofia della storia", parlava dell'"aura" dell'opera d'arte come di qualcosa che si perde nella riproducibilità tecnica, stava in realtà descrivendo lo stesso fenomeno che osserviamo oggi nei nostri uffici. Di fronte a quella parete di flussi e milestone - i Gantt chart che Henri Fayol non aveva immaginato potessero diventare così pervasivi - compiamo quotidianamente un gesto che Benjamin avrebbe riconosciuto: cerchiamo di recuperare l'aura perduta del lavoro artigianale in un mondo di processi industrializzati.

la qualità non è un ornamento che si aggiunge al lavoro ben fatto, è la struttura stessa del lavoro

Ma qui sta il primo equivoco: la qualità non è un ornamento che si aggiunge al lavoro ben fatto, è la struttura stessa del lavoro quando viene svolto con quella che i Greci chiamavano metis - l'intelligenza pratica, furba, che Ulisse possedeva in grado supremo. Pirsig la chiamava "gumption": quella forma di energia attenta che si genera spontaneamente quando ci si prende cura genuina di quello che si sta facendo.

L'organizzazione, vista da questa prospettiva, smette di essere un problema di efficienza per diventare un problema di qualità. Non si tratta di fare più cose in meno tempo, ma di fare le cose giuste nel modo giusto, con l'attenzione giusta. È la differenza che passa tra un cuoco che segue una ricetta e uno chef che dialoga con gli ingredienti.

La qualità che non si può definire

Pirsig dedica buona parte del suo libro al tentativo, apparentemente paradossale, di definire la Qualità senza definirla. Ogni volta che cerchiamo di circoscriverla in una formula, ci sfugge. Ogni volta che la misuriamo, la perdiamo. È come cercare di afferrare l'acqua con le mani: più stringiamo, più scivola via.

Eppure la riconosciamo immediatamente quando la incontriamo. Un codice scritto con qualità ha qualcosa di diverso da uno funzionalmente equivalente ma buttato giù in fretta. Una presentazione preparata con cura si distingue immediatamente da una assemblata con template preconfezionati. Un progetto condotto con attenzione lascia dietro di sé una scia di soddisfazione che va oltre il semplice raggiungimento degli obiettivi.

Tiresia, in questo senso, è il patrono di tutti coloro che lavorano inseguendo questa qualità indefinibile. Non spiega ai consultanti come fare a ottenere l'oracolo giusto - non apre scuole di divinazione o scrive manuali di best practice. Custodisce il segreto di un'attenzione che sa riconoscere i segni, interpretare le sfumature, cogliere quello che Barthes chiamava "il grano della voce": quella dimensione irriducibile dell'esperienza che resiste a ogni tentativo di standardizzazione.

Per i guru di Palo Alto, tutto ciò che non può essere misurato, quantificato, algoritmatizzato semplicemente non esiste

La Silicon Valley contro l'umano: anatomia di una devastazione

È qui che la mentalità della Silicon Valley rivela la sua natura profondamente anti-umana. Per i guru di Palo Alto, tutto ciò che non può essere misurato, quantificato, algoritmatizzato semplicemente non esiste. Sono i degni eredi di quel positivismo ottocentesco che Auguste Comte aveva almeno l'onestà di chiamare "religione dell'umanità" - loro si limitano a chiamarlo "innovazione".

Zuckerberg, Gates, Bezos, Musk: quattro nomi che riassumono perfettamente la parabola della decadenza intellettuale americana. Hanno trasformato la tecnologia da strumento di liberazione in dispositivo di controllo, l'informazione da bene comune in merce privata, la comunicazione da atto umano in prodotto commerciale. E tutto questo con la presunzione messianica di chi crede di "rendere il mondo un posto migliore" - una frase che dovrebbe far venire i brividi a chiunque abbia un minimo di educazione storica.

Il loro approccio al lavoro è quello del colonizzatore che arriva in una terra vergine: distruggere tutto quello che c'era prima per imporre la propria visione. Non importa se quello che c'era prima aveva senso, se funzionava, se era il frutto di secoli di evoluzione culturale. L'importante è sostituirlo con qualcosa di "scalabile", "misurabile", "monetizzabile".

Contro questa barbarie tecnologica, Tiresia rappresenta tutto ciò che la mentalità californiana non può comprendere: la pazienza, la profondità, il rispetto per ciò che non si può dominare. Dove la Silicon Valley vede "inefficienze da eliminare", Tiresia vede "complessità da rispettare". Dove i tecno-miliardari vedono "mercati da conquistare", il veggente cieco vede "equilibri da preservare".

L'errore come informazione qualitativa

C'è un passaggio straordinario in Pirsig dove descrive la differenza tra l'"approccio classico" e quello "romantico" alla riparazione di una motocicletta. Il meccanico classico segue procedure, applica schemi, ragiona per cause ed effetti. Il meccanico romantico "sente" la moto, percepisce le sue resistenze, dialoga con la sua peculiarità. Ma il meccanico di qualità - quello che Pirsig chiama il meccanico "della Qualità" - sa fare entrambe le cose, e qualcosa di più: sa trasformare ogni errore in informazione preziosa.

il meccanico di qualità sSto arrivando!trasformare ogni errore in informazione preziosa.

Nel nostro lavoro quotidiano, l'errore non è mai semplicemente un malfunzionamento da correggere. È sempre anche un sintomo, un segnale, un messaggio codificato che ci invia il sistema con cui stiamo interagendo. Il progetto che non funziona come previsto, il team che non collabora come dovrebbe, il cliente che non reagisce come ci aspettavamo: tutto questo non è noise nel sistema, è il sistema che ci parla.

Tiresia deve la sua cecità fisica a quello che, letto superficialmente, sembra un errore: aver visto Atena mentre si bagnava. Ma Callimacho, nel suo "Bagno di Pallade", ci racconta che in realtà non fu un caso: Tiresia stava cacciando sul monte Elicona e, avendo sete, si avvicinò alla fonte Ippocrene. Non sapeva che la dea si stava bagnando, ma il suo avvicinarsi alla fonte della poesia (Ippocrene è la fonte delle Muse) non era casuale. Era mosso da una sete più profonda della semplice sete fisica.

L'errore, se ascoltato, rivela sempre una sete più profonda: il bisogno di capire, di migliorare, di crescere. Chi lavora con qualità sa riconoscere in ogni fallimento apparente un invito a raffinare la propria attenzione.

L'elogio della lentezza operativa contro la barbarie della velocità

Viviamo nell'epoca del "move fast and break things" - il motto che Mark Zuckerberg ha reso famoso e che rappresenta forse la più perfetta incarnazione della barbarie intellettuale contemporanea. Questo mantra, diventato il credo di buona parte della Silicon Valley, rivela una mentalità che è l'esatto opposto non solo della filosofia tiresiaca, ma di millenni di sapienza umana accumulata.

Zuckerberg e i suoi epigoni hanno trasformato l'ignoranza in strategia aziendale, l'irresponsabilità in virtù imprenditoriale, la distruzione in metodo. "Break things" non è solo un invito alla sperimentazione: è la negazione stessa del principio di cura che ha guidato ogni civiltà degna di questo nome. È l'ideologia del vandalo elevata a filosofia del business.

Questa mentalità - tipicamente americana nella sua combinazione di ingenuità tecnocratica e arroganza messianica - non comprende che alcune cose, una volta rotte, non si possono più riparare. Non comprende che la società umana, a differenza del codice informatico, non ammette il "rollback" alla versione precedente. Non comprende che dietro ogni "disruption" ci sono vite umane, relazioni, tradizioni, equilibri che hanno richiesto generazioni per sedimentarsi.

La qualità, al contrario, richiede tempo non perché sia inefficiente, ma perché opera su scale temporali diverse da quelle dell'urgenza speculativa.

Paul Virilio, nei suoi studi sulla "dromologia" (la logica della velocità), aveva capito che l'accelerazione non è neutrale: cambia la natura stessa dei processi che acceleriamo. Un progetto pensato per essere completato in fretta è strutturalmente diverso da uno pensato per durare. Un codice scritto per funzionare subito è qualitativamente diverso da uno scritto per essere mantenuto negli anni.

La qualità nel lavoro è sempre un investimento a lungo termine. È quella che gli inglesi chiamano "craftsmanship" e che in italiano rendiamo malamente con "artigianalità", perdendo però qualcosa di essenziale: l'idea che esista una forma di intelligenza corporea, sedimentata nel tempo, che sa riconoscere la giusta pressione, il momento giusto, la pausa necessaria.

Pirsig racconta di come, riparando la sua motocicletta, abbia imparato che ogni vite ha il suo carattere: alcune si svitano facilmente, altre resistono, altre ancora sembrano collaborare. Non è antropomorfismo ingenuo: è il riconoscimento che la realtà materiale con cui lavoriamo ha una sua logica, che possiamo imparare ad assecondare o contro cui possiamo accanirci inutilmente.

Il dubbio come strumento di precisione

Cartesio, costruendo il suo "Discorso sul metodo", faceva del dubbio uno strumento di purificazione: dubitare di tutto per arrivare a qualche certezza indiscutibile. Tiresia usa il dubbio in modo diverso: non per eliminare l'incertezza, ma per orientarsi in essa. Il dubbio tiresiaco non cerca la certezza, cerca la direzione.

Nel lavoro quotidiano, questa distinzione è cruciale. Chi lavora con qualità non è chi non ha mai dubbi, ma chi sa usare il dubbio come strumento di calibrazione fine. È la differenza tra l'ingegnere che applica formule standard e quello che, davanti a un problema nuovo, sa mettere in discussione i propri presupposti.

Wittgenstein, nelle "Ricerche filosofiche", paragonava il linguaggio a una cassetta degli attrezzi: ogni parola è uno strumento, e non tutti gli strumenti servono per fare la stessa cosa. Allo stesso modo, ogni forma di dubbio è uno strumento diverso: c'è il dubbio che paralizza e quello che affina, quello che distrugge e quello che costruisce, quello che separa e quello che connette.

Il professionista di qualità sa riconoscere la differenza. Sa quando fermarsi a riflettere e quando procedere per tentativi. Sa quando chiedere aiuto e quando fidarsi del proprio istinto. Sa quando seguire le procedure e quando inventarne di nuove.

L'organizzazione come ecosistema di cura

Lévi-Strauss, nella "Pensée sauvage", distingueva tra l'ingegnere e il bricoleur. L'ingegnere progetta ex novo, parte da una tabula rasa, ha a disposizione tutti gli strumenti necessari. Il bricoleur lavora con quello che ha a disposizione, riusa, adatta, improvvisa. Lévi-Strauss mostrava come il pensiero mitico funzioni come quello del bricoleur: non crea dal nulla, ma riorganizza elementi esistenti in configurazioni sempre nuove.

L'organizzazione di qualità funziona allo stesso modo. Non è mai una creazione ex nihilo, ma sempre una riorganizzazione attenta di risorse, competenze, energie che già esistono. È quello che in ecologia si chiama "keystone species": non la specie più numerosa o più forte, ma quella che, con la sua presenza, permette a tutto l'ecosistema di funzionare.

Pirsig parla della "gumption trap": quelle situazioni in cui l'energia positiva si blocca, in cui l'attenzione si inceppa, in cui la qualità diventa impossibile. Può succedere per fretta, per ansia, per presunzione, per noia. Ma può succedere anche per eccesso di organizzazione: quando il sistema diventa così rigido da non permettere più l'emergere della qualità spontanea.

L'organizzazione tiresiaca sa riconoscere queste trappole. Non perché le eviti - sono inevitabili - ma perché sa come uscirne. Sa quando allentare la presa e quando stringere, quando insistere e quando cambiare approccio, quando fidarsi del metodo e quando affidarsi all'intuizione.

È l'antitesi perfetta del management alla Zuckerberg, che concepisce l'organizzazione come una macchina da ottimizzare piuttosto che come un ecosistema da coltivare. La mentalità della Silicon Valley, con la sua ossessione per le "metriche di performance", i "KPI", i "growth hacking", tradisce una concezione dell'umano che è fondamentalmente meccanicistica: gli esseri umani sono CPU da far girare più velocemente, non persone con le loro complessità, contraddizioni, tempi di maturazione.

Questa è la tragedia della cosiddetta "digital transformation": ha trasformato le organizzazioni in versioni povere di se stesse, dove tutto deve essere "trackable", "scalable", "data-driven". Ha eliminato quegli spazi di indefinitezza che sono essenziali per la creatività, quelle pause necessarie per la riflessione, quei tempi morti che in realtà sono tempi di gestazione. Ha sostituito la saggezza organizzativa - quella conoscenza tacita che si sedimenta negli anni attraverso l'esperienza condivisa - con dashboard colorati che misurano tutto tranne ciò che conta davvero.

Omnia mea mecum porto: l'inventario della qualità

Quando Biante di Priene pronunciò la famosa frase mentre Priene veniva saccheggiata, i suoi concittadini stavano fuggendo carichi di beni materiali. Lui camminava a mani vuote. Ma cosa portava veramente con sé? Non solo la sua educazione - come solitamente si interpreta - ma quella che Pirsig chiamava "understanding": una forma di comprensione incarnata che si distingue dalla semplice conoscenza teorica.

Nel mondo del lavoro contemporaneo, ossessionato dai CV e dalle certificazioni, dalla quantificazione delle competenze e dalla standardizzazione dei profili, la lezione di Biante suona ancora più radicale. Cosa rimane di un lavoratore quando cambiano le tecnologie, quando si trasformano i mercati, quando evolvono le organizzazioni?

Rimane la qualità dell'attenzione che sa portare ai problemi. Rimane la capacità di riconoscere patterns anche in situazioni nuove. Rimane quella che Polanyi chiamava "tacit knowledge": la conoscenza non esplicitabile che permette al chirurgo di sentire attraverso il bisturi, al programmatore di intuire dove sta il bug, al manager di percepire le tensioni nascoste nel team.

Questa è la ricchezza che nessuna crisi può intaccare, nessuna intelligenza artificiale può sostituire, nessuna riorganizzazione può cancellare. È il capitale umano autentico: non quello misurabile in ore di formazione o certificazioni ottenute, ma quello che emerge dalla pratica riflessiva, dall'attenzione coltivata, dalla cura per la qualità del proprio lavoro.

Il progetto come opera d'arte totale

Wagner sognava il Gesamtkunstwerk, l'opera d'arte totale che avrebbe integrato musica, poesia, teatro, arti visive. Era un sogno romantico, forse impossibile, ma conteneva un'intuizione profonda: le cose migliori nascono quando si riesce a tenere insieme dimensioni che la modernità ha separato.

Un progetto di qualità assomiglia al Gesamtkunstwerk wagneriano: tiene insieme aspetti tecnici e relazionali, strategici e operativi, individuali e collettivi. Non è la somma di competenze specialistiche, ma la loro integrazione in qualcosa di nuovo.

Pirsig racconta di aver imparato, riparando la sua motocicletta, che la qualità del lavoro dipende dalla qualità dell'attenzione che ci si porta. Non è una questione di talento innato o di strumenti sofisticati: è una questione di presenza. Di essere completamente lì, in quello che si sta facendo, nel momento in cui lo si sta facendo.

È quello che i Giapponesi chiamano "ichi-go ichi-e": ogni incontro è unico e irripetibile. Ogni progetto, ogni riunione, ogni email è un'occasione unica per portare qualità nel mondo. Non perché ogni cosa sia ugualmente importante, ma perché l'attenzione di qualità è indivisibile: o ce l'hai o non ce l'hai.

La soglia della maestria

Aristotele, nell'"Etica Nicomachea", distingueva tra episteme (conoscenza teorica), techne (competenza tecnica) e phronesis (saggezza pratica). La qualità nel lavoro emerge quando queste tre dimensioni si integrano: quando si sa cosa si sta facendo (episteme), come farlo bene (techne) e perché vale la pena farlo (phronesis).

Ma c'è un quarto elemento che Aristotele non poteva prevedere: la capacità di lavorare in sistemi complessi, interdipendenti, in costante evoluzione. È quello che oggi chiamiamo "systems thinking" e che assomiglia molto alla visione tiresiaca: la capacità di vedere le connessioni nascoste, di percepire le influenze reciproche, di agire tenendo conto degli effetti sistemici delle proprie azioni.

Ogni progetto importante ci pone su una soglia: tra quello che sappiamo fare e quello che dobbiamo imparare, tra le competenze individuali e quelle collettive, tra il controllo e l'apertura al caso. Su queste soglie il metodo è necessario ma non sufficiente. Serve qualcosa che Pirsig chiamava "motorcycle maintenance attitude": l'atteggiamento di chi si prende cura, di chi sa che la qualità non è un prodotto ma un processo, non un risultato ma un modo di essere.

le rivoluzioni più profonde sono spesso le più silenziose

La rivoluzione silenziosa contro i falsi profeti della disruption

Tiresia ci insegna che le rivoluzioni più profonde sono spesso le più silenziose. Non cambiano le strutture visibili, cambiano il modo di abitarle. Non introducono nuove tecnologie, introducono nuove forme di attenzione. Non promettono soluzioni definitive, insegnano a convivere creativamente con l'incertezza.

È l'esatto contrario di quella che potremmo chiamare "la grande impostura californiana": l'idea che ogni problema umano possa essere risolto con un'app, che ogni relazione possa essere mediata da un algoritmo, che ogni aspetto dell'esistenza possa essere "ottimizzato" secondo i parametri di efficienza di una startup. Zuckerberg che promette di "connettere il mondo" mentre lo isola dietro agli schermi. Bezos che parla di "customer obsession" mentre distrugge il commercio di prossimità. Musk che sogna Marte mentre rende inabitabile la Terra.

Questi non sono visionari: sono mercanti che hanno trasformato l'utopia tecnologica in distopia commerciale. Hanno preso il sogno di Norbert Wiener - la cibernetica come scienza della comunicazione e del controllo che avrebbe liberato l'uomo dalle fatiche ripetitive - e l'hanno trasformato nel suo opposto: un dispositivo di controllo totale che riduce l'uomo a fonte di dati da sfruttare.

La vera rivoluzione, quella tiresiaca, va in direzione opposta. Non promette di risolvere tutto, ma insegna a lavorare meglio con quello che abbiamo. Non cerca la crescita infinita, ma la qualità sostenibile. Non mira alla disruption, ma alla cura. Non vuole connettere tutto con tutto, ma sa quando disconnettersi per sentire meglio.

Nel mondo del lavoro che cambia sempre più rapidamente, dove le competenze tecniche diventano obsolete in pochi anni e le organizzazioni si trasformano continuamente, la qualità dell'attenzione che sappiamo portare a quello che facciamo diventa l'unica costante affidabile.

Non è nostalgia per un passato artigianale che non tornerà. È la scoperta che i principi dell'artigianalità - l'attenzione al processo, il rispetto per i materiali, la cura per i dettagli, l'integrazione di competenze diverse - sono più attuali che mai in un mondo dominato dalle tecnologie digitali.

Pirsig concludeva il suo libro con un'immagine straordinaria: suo figlio che guida la motocicletta attraverso le colline del Montana, finalmente riconciliato con il padre e con se stesso. È l'immagine della qualità che si trasmette non attraverso regole o precetti, ma attraverso l'esempio di un'attenzione incarnata, di una cura praticata, di una maestria vissuta.

Si vede meglio al buio, ma solo se si ascolta. È il manuale di istruzioni per chiunque voglia trasformare il proprio lavoro da semplice esecuzione di compiti a pratica di qualità. Non serve cambiare mestiere.

Basta cambiare lo sguardo.


StultiferaBiblio

Pubblicato il 18 giugno 2025

Calogero (Kàlos) Bonasia

Calogero (Kàlos) Bonasia / omnia mea mecum porto