Go down

Corre, corre l’uomo libero inseguito da una moltitudine di persone con il telefonino incollato alle mani, ora modificate da un’estroflessione della pelle, in una sorta di guanto cibernetico. Inveiscono contro di lui, l’unico che ha rifiutato questa moderna tirannofonia. Nella borsa porta delle penne, un libro e molti fogli. Rarità messe al bando dalla società dell’immagine. Ora è in salvo, nel bosco gli elettronauti non entrano, rischiano la morte solo avvicinandosi agli alberi. E allora lì rimane, tra il verme e il falco, troverà il giusto riposo, fino alla prossima fuga e così inizia a scrivere…


Un bosco sottoposto

a pressioni sintomatiche

eleganti fissativi interrano

margherite di plastica.

Sugli alberi al neon sta un falco

che emana luce intermittente.


 

Nel lago artificiale

l’acqua di colonia

stordisce pesci sottovuoto.


Sulla riva sta un pescatore in cravatta

chiedo -ma cosa speri di prendere?

la risposta arriva come un pugno in pieno viso

-nulla, so che qui non c’è vita

mi piace solo l’attesa.


Così inseguo l’insolita

transazione emotiva

verifico l’assenza della spontaneità

e salto dal fiore della follia

tornando seme.


Invocare o evocare

(manca il punto interrogativo ma è una domanda).


Esita l’immaginazione

s’ammala, soffre

per alleviare i patemi del mondo.


L’iconografia porta fistole nell’anima

e sforna pappagalli carnivori.


Alle sue spalle

arrivano due nobili presenze

coerenza e dignità,

orologi in stallo

sui pensieri del tempo.


 Plasticherie ereditate ai margini delle strade demaniali

ordigni anagrafici attentano alla giovinezza.


Luccica la scemenza di sindaci alluvionati

il tempo restituisce i soprusi

facendo piovere

polmoni smussati dall’asma delle scorie

si gioca a rimpiattino tra un frigorifero e l’altro,

la festa patronale si svolge in discarica

dove gabbiani terricoli in crisi d’identità

raspano vermi nella melma

perché hanno perso le zampe palmate

e dove cani randagi mangiano ossicodone scaduto.


La rabbia di Madre Natura sta crescendo

e altri ancora verranno “liberati”.


Il salice lacrima gesso

imbiancando la piena dei fiumi

la neve di questo millennio è già calce.


Sono un minatore.

 Scavando scolpisco il buio

la stanchezza fiacca le ossa.

Tracce di desiderio

ingoiate dalla grotta

questo cerco.

 Ere incarnate

sedimenti di vita giacciono

scorporati, distaccati.

 Ora non ritrovo la parete della risalita

in tale abissale miniera

vivrò da immortale

gli ultimi anni di vita.

 


L’infinito esiste

racchiuso tra due limiti.


Stanco di cercare ancora

mi siedo sulla migliore melodia

attendo e osservo.


L’amore decolla dopo l’ultimo scalo

colonizza ambienti diabetici

dove la dolcezza manca da sempre

e l’invidia condisce l’anima.

La perfezione si ottiene

esplorando la pausa

serve la morte

per mantenere fresca la bellezza.


Non conosco chi muore

non conosco chi vive

l’altra volta ho scoperto il silenzio

è stata la prima che ho abbracciato me stesso,

da queste latitudini serie

la rinuncia si veste di volontà.


Incarnando luce chi è senza peccato

ne trovi uno per continuare a sognare.


Ho chiesto asilo mentale al luogo

privo di ombre dove la luce splende

diversa e il suono non ha vocali.

Sfoglio il tempo, apprezzo

le emozioni liberate trascurando

l’orologio di panna

che dal muro monta le ore.


Le immagini inconsapevoli

mantengono il cuore vergine,

dall’umiltà carnivora

allegre cadenze cadono precise

e nuovi affreschi si rincorrono

sulla volta cristiana.


Il buio collassa sul letto orfano

affetti collaterali solleticano il gusto del vero

respiro immobilità trovando ristoro

nel continuo tumulto delle correnti vive.


Intravedo un ricordo tra le lacrime

e non voglio dirgli addio.


Sulla strada secondaria

un lumivendolo rispetta l’orario

solo i poveri sono puntuali.


Altrove le risate escono

da stampi d’ossa.

 


Il rantolo della promessa

passa di stella in stella

mentre le anime cadono oblique

-mancando i corpi-

nel pozzo maestoso dell’esperienza.


Il volo è superiore

alla sopportazione dell’ala.

 

Le piume pregano

la mancata apparizione

che ha scelto d’esistere

in altezze criminose,

irraggiungibili dai normodotati.


 

Sul passo urbano giunge

la sanzione d’obblighi legali

con la stima in catene

nella stanza d’orgoglio.

 


La mutazione comunica

intuizioni all’ambiente disabile

ma il divino androide

ha ucciso l’uomo scimmia

e sul mare elettronico

lunghe onde radio

friggono i nervi

della rivoltosa nascenza.


All’ufficio delle concessioni

sono pronte le patenti dei poeti

s’ammassano uomini corti e donne lunghe

(quanti siamo a nutrire necessità psicologiche)

l’orecchio nel suono drammatico

il verbo nuovo non vuole brevetti.


Filoesotisti, palati fini e letterati

curano il potere estetico della parola

ammalando il vigore acustico del significato,

dalle retrovie un cuore anonimo

bussa alla porta mentale

inventa uno spartito d’autore

e la morte diventa gioiosa esistenza.


Che strano ho l’utero.

 Un arcidiavolo mi ha spiegato

che darò alla luce una figlia.

 

Ha aperto una finestra

(d’improvviso)

crepando le mura di casa.


Da quel futuro

risplendeva una scritta

sospesa nel gel di fede

beato vergine Marìo

padre della puttana

che ha salvato l’umanità.


Mi trovo su Zeta Reticoli

immerso in una atmosfera al nylon.

Vedo un marziano

con una corona in testa.

Chiedo -chi è quel tipo?

mi rispondono

-dice di chiamarsi Cristo.

Aggiungo con sorpresa

-scusate, ma in che anno siamo?

Un’altra risposta disarmante

-è il 4020 e quella cosa

che stiamo costruendo

si chiama croce

e lì lo appenderemo.


 

 

 

 

Pubblicato il 11 giugno 2025

Iago Sannino

Iago Sannino / IAGO. Poeta. Paroliere. Ideatore e sviluppatore corsi di scrittura

ogaivate@gmail.com