In questi giorni ho scelto il silenzio, non perché manchino le parole, ma perché ho la sensazione che parlare di qualsiasi altra cosa sia quasi una forma di complicità. La realtà che ci circonda è fatta di dolore, di distruzione, di vite spezzate. E quello che mi sconvolge non è solo la brutalità degli eventi, ma la facilità con cui l’umanità continua a voltarsi dall’altra parte. Ogni giorno si compiono massacri, stermini e atti di violenza così gravi da togliere il fiato, eppure tutto questo sembra non bastare più nemmeno a scuoterci.
Abbiamo costruito un mondo in cui è diventato normale leggere la notizia della morte di decine di civili mentre facciamo colazione, per poi continuare la giornata come se nulla fosse.
Siamo diventati esperti nel gestire il dolore degli altri con distacco, nel considerarlo un rumore di fondo da ignorare, una tragedia lontana, qualcosa che non ci riguarda. Ma non è così. Riguarda tutti. E riguarda ciascuno di noi.
Mentre si investono miliardi per mandare navicelle su Marte, ci sono esseri umani che scavano a mani nude tra le macerie per cercare i corpi dei propri figli. Mentre sviluppiamo intelligenze artificiali capaci di simulare emozioni, sembriamo aver dimenticato come si provano davvero. Viviamo in un’epoca in cui abbiamo insegnato alle macchine a riconoscere le espressioni del volto umano, ma abbiamo disimparato a riconoscere il dolore negli occhi degli altri.
In alcune parti del mondo, padri e madri seppelliscono i propri bambini. La storia ci aveva insegnato che in tempo di pace i figli seppelliscono i padri, ma oggi assistiamo a una realtà rovesciata, diventata ormai abituale, e la cosa più inquietante è che sembriamo averla accettata senza più indignarci. Ci scorrono davanti immagini che una volta ci avrebbero sconvolto, ma ora non ci fanno quasi più battere le ciglia.
John F. Kennedy disse che l’umanità deve porre fine alla guerra, o sarà la guerra a porre fine all’umanità.
E guardando quello che sta accadendo, quelle parole non sembrano più un monito, ma una previsione. Ci stiamo avvicinando a quel punto senza rendercene conto, come se fosse tutto parte di un copione già scritto, ineluttabile. Ma non lo è. La guerra non è una fatalità: è una scelta, e scegliere di ignorarla è già una forma di complicità.
Mi chiedo spesso se ci rendiamo conto di quello che stiamo perdendo. Non solo vite umane, ma qualcosa di più profondo: la capacità di sentire, di provare empatia, di indignarci per la sofferenza dell’altro. Ogni volta che accettiamo la violenza come parte del mondo, ogni volta che permettiamo che certe vite valgano meno di altre, ogni volta che guardiamo e poi distogliamo lo sguardo, rinunciamo a una parte della nostra umanità.
E il punto è proprio questo: non possiamo più restare indifferenti. Non è una questione politica e non è neppure solo etica. È una questione profondamente umana. E personale.