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Alla fine della sua tesi complementare sull’Antropologia dal punto di vista pragmatico di Kant, Michel Foucault pone una serie di domande che, più che concludere un lavoro accademico, aprono una linea di frattura. Ci si chiede, in quelle pagine, se sia possibile pensare un sapere sull’uomo che non presupponga già una struttura metafisica del soggetto; se la finitezza, tanto centrale nel pensiero moderno, sia davvero un fondamento o piuttosto un effetto; se l’antropologia possa costituirsi come una scienza critica, senza diventare una nuova teologia secolarizzata del soggetto.


Queste domande non sono incidentali e  segnano, in Foucault, l’emergere di un problema che attraverserà tutta la sua opera: quello della configurazione storica dell’uomo come oggetto e come fondamento del sapere. E forse è proprio questo movimento iniziale — interrogare Kant là dove sembra voler legittimare una forma di sapere sull’uomo — che consente di cogliere il gesto più radicale del pensiero foucaultiano: mettere in questione non solo i contenuti, ma la forma stessa dell’umano come categoria del sapere.

le quattro grandi domande della filosofia: Che cosa posso sapere? Che cosa devo fare? Che cosa posso sperare? Che cos’è l’uomo?

Nella Logica, Kant aveva posto le quattro grandi domande della filosofia: Che cosa posso sapere? Che cosa devo fare? Che cosa posso sperare? Che cos’è l’uomo? Tutte, afferma, si possono ricondurre all’ultima. È un’affermazione che, a prima vista, potrebbe sembrare un’anticipazione della centralità dell’uomo nel sapere moderno. Tuttavia, è proprio la natura di questa centralità, e non semplicemente la sua presenza, a essere messa in questione da Foucault. Nell’Antropologia dal punto di vista pragmatico, Kant non fonda un’antropologia come scienza oggettiva dell’uomo naturale, ma indica un sapere volto alla formazione del soggetto in quanto agente libero, capace di operare su di sé. Foucault riconosce in questo passaggio l’affacciarsi di un problema: la costituzione dell’uomo come oggetto del sapere nel momento stesso in cui egli pretende di esserne il fondamento. È questo sdoppiamento — l’uomo come soggetto conoscente e come oggetto conosciuto — che, pur affiorando in forma embrionale in Kant, si cristallizza nella modernità e viene tematizzato da Foucault come soglia epistemica. L’antropologia non è quindi respinta, ma riportata al suo statuto storico: un sapere situato, che non può più fondarsi su un soggetto universale, bensì su una finitezza che è essa stessa costruita storicamente. 

Non si tratta di ridurre l’uomo a corpo, né di elevarlo a spirito, ma di comprenderlo come soggetto che agisce, che si plasma, che si espone al mondo. 

Ma già in questa impostazione, apparentemente modesta e razionale, Foucault intravede il paradosso della modernità: l’uomo, che era stato fino ad allora una figura implicita del sapere, diventa il suo oggetto privilegiato. E nel farlo, raddoppia: è insieme ciò che conosce e ciò che viene conosciuto. È soggetto e oggetto, origine e risultato. Questo sdoppiamento, che Kant tenta di gestire con gli strumenti della critica, diventerà nel tempo una forma di ambiguità epistemologica profonda. È l’ambiguità che Foucault tematizzerà ne Le parole e le cose, quando scriverà che l’uomo è un’invenzione recente e forse prossima alla sua fine.

In quel testo, Foucault non descrive l’essenza dell’uomo, ma il modo in cui la figura dell’uomo emerge come una certa configurazione del sapere. L’archeologia delle scienze umane non mostra che cosa sia l’uomo, ma come e quando l’uomo sia diventato un problema per il sapere. Prima della modernità, osserva Foucault, non esiste una “scienza dell’uomo” propriamente detta. L’uomo, come oggetto esplicito e riflesso, appare solo quando il linguaggio, la vita e il lavoro — i tre grandi domini del sapere moderno — vengono riflessi in una forma inedita, che li riporta all’interiorità di un soggetto empirico e finito. In questo passaggio, che Foucault chiama epistémico, l’uomo si costituisce come figura ambivalente: fondamento del sapere e insieme oggetto di questo sapere.

E se la metafisica occidentale, identificando l’essere con la presenza e la verità con la rappresentazione, avesse reso invisibile il movimento originario dell’esistenza?

Ciò che Kant aveva custodito come distinzione metodica, tra il piano critico e il piano pragmatico, si dissolve nella modernità, dove il soggetto finito pretende di farsi misura del sapere. È qui che Heidegger diventa un interlocutore fondamentale. Foucault non si appropria del suo lessico, ma ne assume una torsione essenziale: l’idea che la metafisica occidentale, identificando l’essere con la presenza e la verità con la rappresentazione, abbia reso invisibile il movimento originario dell’esistenza. Heidegger aveva già colto il limite della soggettività moderna, mostrando che il Dasein non è un soggetto tra gli altri, ma il luogo stesso in cui l’essere si fa questione. Foucault radicalizza questa intuizione, liberandola da ogni residuo ontologico: non si tratta più di tornare all’essere, ma di mostrare come la figura dell’uomo si costituisca in un dispositivo di saperi e poteri storicamente determinato.

Così, la domanda “che cos’è l’uomo?”, che in Kant poteva ancora orientare un sapere formativo, e che in Heidegger si rovescia in una questione sull’essere, diventa in Foucault una soglia archeologica: non più una domanda da porre all’uomo, ma una domanda sul modo in cui siamo giunti a porre questa domanda. L’uomo è l’effetto di un certo regime di verità; il sapere su di lui è sempre anche un potere su di lui. Le scienze umane, che pretendono di emanciparlo o conoscerlo, spesso finiscono per inchiodarlo a una verità già data. 

Le scienze umane, che pretendono di emancipare l'uomo o conoscerlo, spesso finiscono per inchiodarlo a una verità già data. 

Ma questa soglia non è solo un limite, è anche un punto di passaggio. Se, come scrive Foucault, l’uomo è un’invenzione recente, ciò implica anche che può essere disinventato, o meglio, che può essere pensato diversamente. Ed è qui che il nostro presente si fa inquieto. Di fronte alla crisi ecologica, alle trasformazioni tecniche, alla mutazione biopolitica dei corpi e delle soggettività, la domanda “chi è l’uomo?” sembra talvolta invecchiata, eppure ancora irrisolta. Non possiamo abbandonarla senza rinunciare a una forma di responsabilità, ma non possiamo nemmeno formularla come se nulla fosse accaduto.

In questo paesaggio, il pensiero di Rosi Braidotti apre un’altra traiettoria. Senza negare l’importanza della soggettività, Braidotti presenta il postumano non come superamento tecnologico dell’uomo, ma come dislocazione etica e politica della centralità umana. Il “noi” moderno, fondato sul soggetto razionale, occidentale, maschile, è oggi attraversato da altre voci, da altri corpi, da altre forme di vulnerabilità. Non si tratta più di sapere che cosa è l’uomo, ma che cosa può un corpo, che tipo di legame è possibile, quale soglia può aprire nuove forme di soggettività relazionale e situata. Nell’epoca della dematerializzazione del virtuale, il corpo torna a parlare. 

Nell’epoca della dematerializzazione del virtuale, il corpo torna a parlare. 

La domanda sull’uomo, dunque, non si chiude, ma cambia forma. Non ci chiede più di fondare, ma di attraversare; non cerca un’essenza, ma una possibilità. E forse, come Kant già lasciava intuire, l’uomo non è tanto ciò che è, ma ciò che può — e deve — fare di sé stesso. Solo che oggi, questa possibilità non può più fondarsi su un soggetto universale, ma su un intreccio di corpi, storie, affetti che reclamano un altro modo di essere — o forse, di pensare la vita.

In questo senso, il gesto foucaultiano non si esaurisce in una decostruzione della figura dell’uomo. È, piuttosto, l’apertura di un campo critico in cui l’umano smette di valere come fondamento e si rivela come effetto storicamente articolato, risultato provvisorio di rapporti di sapere e potere. Pensare l’uomo, oggi, significa sostare in quella soglia in cui ogni definizione si espone al rischio della normazione, ma anche alla possibilità di un’altra scrittura dell’umano. Foucault non propone una nuova antropologia: disloca il punto da cui l’uomo può ancora essere pensato. È un pensiero che dischiude nella sua anomia destabilizzante. La domanda inquieta — chi è l’uomo? — resta aperta non perché manchi una risposta, ma perché ogni risposta rischia di stabilizzare ciò che, per sua natura, eccede ogni fondazione. Ed è in questa eccedenza, forse, che si custodisce ancora una possibilità critica.


 

Bibliografia 

Immanuel Kant

Antropologia dal punto di vista pragmatico. Introduzione e note di Michel Foucault,  a cura di Giovanni Bertani e Gianluca Garelli, Einaudi, Torino 2021

Logica, trad. di Giorgio Tonelli, Laterza, Roma-Bari 2006 

Michel Foucault

Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, trad. di Enzo Panaitescu, Rizzoli, Milano 2020 

Martin Heidegger

Essere e tempo, trad. di Pietro Chiodi, Longanesi, Milano 2021

Kant e il problema della metafisica, trad. di Franco Volpi, Adelphi, Milano 1993 

Rosi Braidotti

Il postumano, trad. di Angela Simone, DeriveApprodi, Roma 2014

 

Pubblicato il 04 giugno 2025