Mi viene chiesto: "Se eravamo disposti forse ad attribuire intenzionalità e significati alle parole del Chisciotte di Menard, fermi restando i grafemi identici a quelli di Cervantes, come ci dobbiamo porre rispetto a quelli non identici e anzi seducentemente o sedicentemente generativi del Claude di Anthropic? Sono i dattiloscritti di scimmie ammaestrate, pallide copie di originali mal digeriti o creazioni dell’umano mediate da macchine?"
Di primo acchito, rispondo così: Borges era un essere umano che scriveva. Sceglieva di scrivere, potremmo dire oggi, in un modo che ci appare simile al modo in cui scrivono certe macchine apparse sulla scena. Così facendo, Borges ci aiuta a capire come può scrivere una macchina.
Ma Borges era un essere umano che 'scriveva' - metto le virgolette perché scriveva anche da cieco. A me interessa l'essere umano che scrive. Si scrive per curare se stessi, per tenersi vivi, ben prima che per essere letti. Se poi scrivono anche le macchine, buon per loro.
Rileggo ora questa mia risposta. Mi rendo conto che ogni risposta al quesito resterà provvisoria.
Continuo a pensare che se cedessimo alla tentazione oggi così facile -conoscere noi stessi attraverso la macchina- ci incammineremo lungo una ben misera via: rinunceremmo all'autoanalisi, all'introspezione, al rispecchiamento ed al confronto con ogni altro umano, con ogni animale, con albero, ogni foglia ed ogni frutto.
Ma limitarmi a questa convinzione sarebbe troppo comodo e non costruttivo. Perciò cerco di rispondere ripartendo da Borges, e cercando di cogliere il senso della sua lezione.
Borges autore di Pierre Menard autore del Don Chisciotte
Pierre Menard, autor del Quijote: racconto di Jorge Luis Borges pubblicato originariamente nel maggio 1939 sulla rivista Sur, e poi incluso nella raccolta Ficciones, 1944.
Il racconto è il ricordo di Pierre Menard, autore da poco scomparso, scritto da un autore suo buon conoscente, forse amico.
L'autore passa in rassegna l'opera di Menard, dando l'idea di considerare quest'opera significativa, ma in fondo normale. Poi continua: "Fin qui l'opera visibile di Menard: passo ora all'altra: quella sotterranea, interminabilmente eroica, impareggiabile. Anche -oh le possibilità dell'uomo!- inconclusa".
L'opera inedita -eroica e impareggiabile- di Menard consiste nel riscrivere il Don Chisciotte. Non copiare l'opera di Cercvantes. Non scrivere un altro Don Chisciotte, riusando a piacere personaggi e scene dell'opera di Cervantes, "cosa troppo facile". "Il suo ammirabile ambizione era prrodurre pagine che coincidessero -parola per parola e riga per riga- con quelle di Miguel de Cervantes".
Commenta l'autore del testo commemorativo dedicato a Menard - ovvero: Borges: "Ho riflettuto: è lecito vedere nel Quijote 'finale' una specie di palinsesto, nel quale devono trasparire le tracce -tenui ma non indecifrabili- della 'previa' scrittura".
Palinsesto: supporto: papiro, pergamena che può essere raschiato e riusato per scrivere. Ma Borges ci dice: le tracce della previa scrittura non vengono mai del tutto meno.
Una digressione autobiografica che a questo punto mi pare inevitabile
Una studentessa, a Pisa, durante una lezione del mio inseggnamento di Tecnologie dell'informazione produzione di letteratura fa un cenno. Interrompo il filo del mio discorso e chiedo cosa c’è. Mi dice: “Ma se dobbiamo seguire il suo ragionamento, allora vuol dire che oggi scrivere è cancellare”.
Mi fermo un attimo a pensare, poi le dico che ha ragione. Trovo l'osservazione illuminante. Non avrei saputo dirlo così bene. Stavo ragionando ad alta voce sulla produzione narrativa di noi esseri umani, autori, in questi tempi digitali, quando ci confrontiamo con l'enorme, sconfinata massa di testi conservati da macchine digitali, e ci confrontiamo anche con la possibilità che queste macchine digitali, da sole, ricombinino in un ordine sempre nuovo quei testi, quelle frasi, quelle parole.
Se tutto è già scritto, e se il tutto già scritto è ricombinabile all'infinito -da un autore umano, o forse in modi almeno in apparenza più efficaci, da una macchina- cosa resta da fare? Scrivere è cancellare, oscurare alla vista ciò dello sterminato testo già scritto non interessa e non piace. Così in effetti agisce lo scrittore -anche quando crediamo di scrivere qualcosa di nuovo, molto probabilmente, o forse di sicuro, torniamo su cose già dette e scritte. Già scritte, forse, a nostra insaputa, proprio con quelle stesse parole. E scrive cancellando, anche, lo scrittore che coglie al volo parole pronunciate nella vita quotidiana di noi umani: conviene considerare digitalizzata, oggi, ogni parola che pronunciamo: siamo noi stessi a lasciare acceso il registratore del nostro smartphone, o magari qualche sorvegliante satellitare ci sta registrando.
Di qui mi par di poter tornare a Borges e a Menard. A quel commento: "è lecito vedere nel Quijote 'finale' una specie di palinsesto, nel quale devono trasparire le tracce -tenui ma non indecifrabili- della 'previa' scrittura".
La scrittura digitale del tutto che oggi, noi volenti o nolenti, esiste, è un enorme palinsesto preesistente ad ogni scrittura. Continuamente riscriviamo -tentiamo di riscrevere- sul palinsesto. In ogni tentativo di scrittura, scrittura che pretestuosamente chiamiamo magari 'nuova', ci imbattiamo nel palinsesto.
Derrida
Questo, credo, intendeva Derrida parlando di ‘scrittura’. Senza saperlo ci parlava di 'conoscenza' digitalizzata, base necessaria e allo stesso tempo massa informe, sempre passibile di diversa organizzazione. La ‘decostruzione’ di Derrida non ci appare più oscura se la intendiamo come la perenne ristrutturazione di cui è passibile l’informazione digitalizzata.
La decostruzione di Derrida, credo di poter dire, è scrittura-come-cancellazione di ciò che sta nel palinisesto.
La descostruzione ci appare meno oscura se la intendiamo come risalita, o ritorno, dal testo scritto su carta al retro-testo, o meta-testo, frutto della mia capacità di connettere, di tessere la tela di una narrazione. Retro-testo, meta-testo di cui il testo scritto su carta non è che una delle possibili manifestazioni.
La decostruzione ci appare ancora meno oscura se -guardando le cose al di fuori del tradizionale panorama che ci è concesso se guardiamo il mondo solo attraverso i libri- la intendiamo come la perenne ristrutturazione di cui è passibile la conoscenza digitalizzata.
Decostruire è 'guardare dietro', guardare sotto' alla conoscenza come appare attraverso una sua manifestazione. 'Dietro' e 'sotto' e 'prima' di ciò che sto scrivendo su un foglio, così come 'dietro' e 'sotto' e 'prima' della parola pronunciata oralmente, c'è la conoscenza che sto portando in questo istante alla luce.
Derrida in America
Il codice digitale, in un modo che forse siamo in grado solo di intravedere, è una moderna versione del palinsesto che Borges ci insegna a vedere dietro le scritture (ri-scritture) di Cervantes e Menard. E allo stesso tempo il codice digitale è la 'scrittura' di Derrrida: l'origine, la traccia che lascia tracce.
Ma il codice digitale resta, possiamo dire, una creazione americana. Conviene quindi cercare di intendere la lettura, o ri-scrittura, di Derrida in America.
Non è fuori luogo qui citare Hubert Dreyfus: forse il più rilevanti ri-pensatore in America della cosiddetta French Theory, e allo stesso tempo il primo critico dell'intelligenza artificiale alla luce del pensiero filosofico.
Esiste una notevole documentazione in proposito di come Dreyfus ri-leggeva: fino allo studio filologico delle sottilineature e delle annotazioni a magine che Dreyfus appose sulla sua copia di Speech and Phenomena (Northwestern UP, 1973). Il fatto che Dreyfus leggesse Derrida in inglese non è irrilevante. Ho commentato altrove (Francesco Varanini, “Apprendere ad essere manager. Con la guida di Heidegger”, Sviluppo & Organizzazione, 283, agosto-settembre 2018) il modo in cui Dreyfus ri-leggeva con superficiale approssimazione Heidegger, e come questa ri-lettura abbia influenzato Terry Winograd e Fernando Flores, gli autori del classico Understanding Computers and Cognition: A New Foundation for Design (Ablex Publishing, 1986).
Dreyfus credeva di appoggiare sulla lettura di Heidegger la sua critica dell'intelligenza artificiale - critica che resta comunque brillantissima e antcipatrice: "Alchemy and Artificial Iintelligence", RAND Paper, 1965, What Computers Can't Do, Harper & Row, 1972; Mind Over Machine, Simon and Schuster, 1986
Winograd e Flores, che appreesero da Dreyfus quel poco che sapevano di filosofia, credevano di basare la loro nuova fondazione, il loro modo di intendere in computer come mezzo conversazionale, sul pensiero di Heidegger, ma restano invece lontani in realtà dal palinsesto - si limitano a vedere uno strato discorsivo sovrapposto. Non comprendono, intendono: non cancellano, prendono per buona una scrittura che nasconde.
E' forse decostruzione derridiana questa?
La scrittura, di per sé, è presenza che parla di una assenza. Derrida propone una decostruzione delle premesse su cui si basa il pensiero metafisico: 'decostruire' significa individuare le concrezioni legate a letture precedenti, le metafore morte. La 'decostruzione', peraltro, tende a limitare il ruolo attivo del critico o del lettore che intrepreta il testo: è un evento che ha luogo, e "che non aspetta la deliberazione, la coscienza o l'organizzazione del soggetto." Il testo si decostruisce, "e il 'si' di 'decostruirsi', che non è una riflessività di un io o di una coscienza, si fa carico di tutto l'enigma" (Jacques Derrida, "Pacific Deconstruction". Lettera a un amico giapponese", trad. it. in Rivista di Estetica, 17, 1984. Le tesi sono largamente argomentate in Jacques Derrida, De la grammatologie, 1967, trad. it. La grammatologia, Jaca Book, 1969; in L'écriture et la différence, 1967; trad. it. La scrittura e la differenza, Einaudi, 1971; e in numerose opere successive).
Una buona sintesi della scuola 'decostruzionista' statunitense, che ha avuto la sua grande stagione agli inizi degli anni '80, è: Jonathan Culler, Paul de Man, Nicholas Rand, Allegorie della critica. Strategie della decostruzione nella critica americana, a cura di Mario Agazzi Mancini e Fabrizio Bagatti, Liguori, 1987. (Il reading contiene: Jonathan Culler, In Pursuit of Signs, in Pursuit of Signs: Semiotics, Literature, Decostrution, Cornell University Press, 1981. Paul de Man, Semiology and Rhetoric, in Allegories of Reading, Yale University Press, 1979. Paul de Man, "The Epistemology od Metaphor", in Critical Inquiry, 5, (1978). Paul de Man, Reading (Proust), ibid. Nicholas Rand, "Vous joyeuse melodie - nourrie de crasse: a propos d'une trasposition des Fleurs du Mal par Stephan George", in Poetique, 52, (1982)).
Gli interpreti statunitensi sono espliciti debitori di Derrida: il segno grafico -oggi il codice digitale- è l'origine, la traccia che lascia tracce. Ma a quanto pare nella versione americanas la scrittura-origine è cancellazione di ogni precedente origine.
Se il testo postula una sua lettura postula anche una sua dislettura. Ma gli interpreti americani vanno oltre. De Man parla di una 'retorica della cecità' (blindness) che genera un continuo stato di sospensione nel lettore. La lettura, così intesa, non può fondarsi su precedenti interpretazioni, ma è un cammino incerto di 'disvelamenti', che avanza tra errori inevitabili ma fruttuosi, abbagli e intuizioni (Insights).
E dunque ogni interpretazione è nient'altro che una ipotesi di lettura, sempre criticabile e sostituibile. Ci si allontana così dalla visione del palinsesto che Borges ci propone, e che forse Derrida condivide.
Vale la pena ancora di notare i legami tra ciò che qui chiamo 'lettura americana di Derrida' trovi seguito nella interpretazione del testo di impostazione strutturalistico-semiotica.
Ricordiamo come Umberto Eco celebra nel Trattato di semiotica generale (1975) le virtù della decodifica aberrante. Eco parla di "guerriglia semiologica", cioè decodifica intenzionalmente divergente dalla decodifica dominante, normale.
Ma poi si ravvede e passa sul fronte opposto. Credo che questo accada perché se si lascia campo -come forse conviene fare- alla decodifica aberrante, viene meno il ruolo di 'interprete legittimato' ruolo al quale Eco non intende rinunciare. Interprete legittimato: mediatore necessario tra testo e suo 'lettore ingenuo'. Così Umberto Eco, brillante teorico della 'decodifica aberrante' negli anni '70, vent'anni dopo costruisce (e ci appare una impresa vana) una complessa impalcatura teorica per dichiarare alcune interpretazioni abusive (Umberto Eco, I limiti dell'interpretazione, Bompiani, 1990).
George Steiner e il mistero dell'alterità
Ben più radicale -e dal mio punto di vista condivisibile- la rilettura delle tesi decostruzioniste che ci viene proposta da George Steiner. Più che di rilettura, del resto, si dovrebbe parlare di superamento. Lontanissimo dalle scolastiche categorie dell'Umberto Eco dei Limiti dell'interpretazione e di Lector in fabula (Bompiani, 1979): intentio auctoris, intentio operis, intentio lectoris... Steiner si sforza di andare al di là del "primato bizantino del discorso secondario e parassitico" che letture diverse e successive incrostano attorno ad un libro, si sforza di ridare alla lettura l'immediatezza di un gesto creativo.
Come non restare vittime del torrenziale chiacchiericcio dei critici? Stiener nota come gli 'interpreti professionisti' lungi dal cercare i poeti che parlano di una loro una 'verità', privilegiano i testi teachables, quelli che possono essere insegnati, quelli che esigono la loro mediazione critica.
Ma la poesia precede sempre il commento. La composizione precede sempre la sua decostruzione. Del resto risalire alla 'versione originaria' di un testo è talvolta impossibile. Ed è fallace, perché il libro ci parla anche attraverso una sua versione monca o tradotta. Insomma: per Steiner le razionalizzazioni della semiotica strutturalista, e della 'lettura americana' di Derrida, "mascherano un imbarazzo più radicale", "l'imbarazzo che proviamo nel dare testimonianza sul poetico, sull'ingresso nelle nostre vite del mistero dell'alterità presente nell'arte e nella musica, che è di natura metafisico-religiosa". E dunque provocatoriamente riconduce metaforicamente la lettura -la lettura delle opere autenticamente creative- all'eucarestia: il poeta è veramente, misteriosamente presente accanto a noi. (Georges Steiner, Real Presences, 1989; trad. it. Vere Presenze, Milano, Garzanti, 1992).
Credo si possa intendere il palinsesto di Borges nella luce metafisico-religiosa ricordataci da Steiner: quelle tracce tenui ma non indecifrabili della 'previa' scrittura, come "mistero dell'alterità presente nell'arte": al di là delle modalità di codifica, al di là anche del periglioso passaggio del testo attraverso il filtro di quella scatola nera scrivente o riscrivente che chiamiamo intelligenza artificiale.
Credo che ci piaccia oggi dar valore in sé alla scrittura della macchina per tenerci lontani dall''imbarazzo del poetico'. Il solo dirci che la parola può anche essere scritta da una macchina, ci permette di allontanarci dalla parola. Cerchiamo di evitare ciò che ci tocca nel profondo. Ciò che ci lega al nostro essere umani, ciò che ci chiama ad una appartenenza, ad una fedeltà, ad un impegno.
Di fronte ai doni, come lo sono sia il Chisciotte di Cervantes, sia il Chisciotte di Menard, sia la narrazione di Borges che ci racconta dei due Chisciotte, dovremmo essere grati, riconoscenti dei doni che abbiamo ricevuto, dovremmo di conseguenza assumerci responsabilità.
La macchina fa velo, ci permette di allontanare da noi le vere presenze che il testo, sia il testo di Cervantes, sia il testo di Menard, sia il testo di Borges ci invitano a vedere: il legame con gli antenati, l'appartenenza ad una cultura, ad una storia. Il nostro essere umani.
Quando Borges insiste nel dire: non sono versioni diverse, non sono riscritture, si tratta sempre dello stesso testo ci sta dicendo proprio questo: riconosciamoci nel nostro essere umani.
Troppo pesante accettare quessto invito. Troppo difficile accettare il peso del cattivo uso da noi fatto dei doni ricevuti.
Meglio scappar via autoigannandoci, raccontandoci la favola di testi scritti da agenti, indifferentemente umani o macchinici.
Wittgenstein: non Ricerche ma ricerche
Nelle sue Ricerche filosofiche, tentando una definizione del gioco, Wittgenstein invita a cercarla non pensando, ma osservando. Potremmo dire che osservare giocare un gruppo di bambini è la stessa cosa che osservare un gruppo di parlanti. E che la parola mediata dallo scrittore è pensata, mentre la parola colta in bocca al parlante è osservata. Mentre la parola pensata è una parola assoluta, viva solo nella testa dell'autore, la parola osservata, guardata ci appare come elemento di "una rete complicata di somiglianze che si sovrappongono e si incrociano a vicenda". (Ludwig Wittgenstein, Philosophische Untersuchungen, Oxford, 1953. Trad. it. Ricerche filosofiche, Einaudi, 1967; Parte prima, 66).
Wittgenstein - in particolare il Wittgenstein delle ricerche filosofiche - ci appare dunque come coraggioso e solitario esploratore di quel vasto campo di ricerca che spazia dalla pragmatica della comunicazione all'interazione sociale.
Per dire della fertilità di questo campo, ci limitiamo qui a indicare due titoli. Paul Watzlawick, Janet Helmick Beavin, Don D. Jackson, Pragmatic of Human Communicatin. A Study of Interactional Patterns, Phatologies, and Paradoxes, New York, 1967; ed. it. La pragmatica della comunicazione umana, Roma, Astrolabio, 1971. Peter L. Berger - Thomas Luckmann, The Social Constructiion of Reality, Doubleday and Co., 1966; trad. it. La realtà come costruzione sociale, Bologna, Il Mulino, 1969.
La bibliografia del resto sarebbe sterminata - ma inutile: la tendenza a pensare piuttosto che ad osservare ha ridotto anche l'insegnamento di Wittgenstein ad una lezione desumibile da testi scritti, dove poi il testo a cui fare riferimento sembra essere l'ultimo testo scritto
chiusa, fatta non di sguardi sul mondo ma di rimandi a libri specialistici.
Wittgenstein, invece, non leggeva libri, ma partiva ogni volta da zero.
E quindi il monito che possiamo trarre da Wittgenstein non risiede nelle sue Ricerche, risiede invece nelle sue ricerche. Le Ricerche sono un testo che Wittgenstein lasciò inedito, e forse inconcluso; non è che una provvisoria approssimazione alla conoscenza del mondo. Ma oggi quel testo appare canonico, codificato definitivamente. Delle Ricerche può quindi ben appropriarsi quel tipo di macchina che oggi chiamiamo intelligenza artificiale.
Ma la macchina non potrà mai appropriarsi delle ricerche, dell'osservare umano, del guardare umano. Ciò che conta per noi umani non sta nelle parole che nominano il mondo, parole che possono essere mutate, variate, ed oggi possedute ed usate da una macchina. Sta nell'osservare in ogni istante il mondo e nel tentare di nominarlo.
Intravediamo così nel palinsesto, nella originaria scrittura di Derrida, il senso delle culture umane, continuamente fedeli alla tradizione e continuamente in grado di ri-leggere la tradizione alla luce del presente.
Ma Wittgenstein ci ricorda che continuamente riscriviamo su quel palinsesto.
Sono pallide copie di originali mal digeriti o creazioni dell’umano mediate da macchine?
Posso tornare così anche qui alla domanda iniziale. "Se eravamo disposti forse ad attribuire intenzionalità e significati alle parole del Chisciotte di Menard, fermi restando i grafemi identici a quelli di Cervantes, come ci dobbiamo porre rispetto a quelli non identici e anzi seducentemente o sedicentemente generativi del Claude di Anthropic? Sono i dattiloscritti di scimmie ammaestrate, pallide copie di originali mal digeriti o creazioni dell’umano mediate da macchine?"
Rispondo: possiamo ben essere disposti ad attribuire intenzionalità e significati alle parole del Chisciotte di Menard non perché queste parole sono codificate tramite gli stessi grafemi del Chisciotte di Borges, ma perché entrambe le scritture possono essere intese come inveramenti di quella "specie di palinsesto", di quella "previa scrittura" che si tramanda di generazione in generazione e continuamente torna a raccontarci chi siamo.
Ciò che è importante per noi è continuare a vedere le tracce "tenui ma non indecifrabili" di questa storia. Ora, però, pare di poter dire che abbiamo inventato queste macchine nel tentativo di nascondere a noi stessi queste tracce. Nel tentativo di non vederle più.
I testi prodotti dalla macchina, dunque, sono sì copie - ed ogni copia si sa rischia di essere pallida. Sono anche, sempre, creazioni di noi umani, perché se anche saranno rielaborazioni sempre più lontane dalla versione che l'ha preceduta, manterranno in ogni caso traccia di strati prima scritti sul palinsesto pur continuamente riscritto.
Ma temo, in misura crescente, saranno testi dei quali ci rifiutiamo di essere autori. Siamo noi a scegliere oggi di non essere più autori che scrivono insieme lo stesso testo - riscrivendo così continuamente su quel palinsesto che è la storia del mondo vista dagli umani. Siamo noi a scegliere di non essere più misteriosamente fedeli al proprio essere umani.
E questo accade in conseguenza di un nostro progetto. Abbiamo scelto di progettare macchine capaci di indurci a prendere le distanze da noi stessi. Questa è l'intelligenza artificiale.
Cresce oggi il numero di coloro che hanno paura di non essere all'altezza dei compiti che ci attendono - compiti che possono essere simbolicamente riassunti nello scrivere. Borges riconosceva a Menard il grande coraggio. Coraggio che ora a noi manca.
Nel tentativo (vano) di sfuggire al compito dello scrivere, costruiamo macchine che vorremmo capaci di scrivere.
E poi arriviamo a proiettare le nostre paure in paura di questo frutto dell'umano ingegno: proiettiamo i nostri timori in inquietudine di fronte alla macchina intelligente, ormai troppo intelligente, incamminata forse verso la superintelligenza.
Ma è paura di noi stessi, paura di ciò che non vogliamo più fare, paura di ciò che abbiamo cessato di fare e che ora non vogliamo fare e che forse in futuro non sapremo più fare.
I testi prodotti dalla macchina sono creazioni di noi umani, perché se anche sono rielaborazioni, mantengono traccia dei testi scritti da noi umani. Ma sono anche testi dei quali ci rifiutiamo di essere autori. Siamo noi a scegliere oggi di non essere più autori. Siamo noi a scegliere di non essere più misteriosamente fedeli al nostro essere umani. E questo accade in conseguenza di un nostro progetto. Abbiamo scelto di progettare macchine capaci di indurci a prendere le distanze da noi stessi. Questa è l'intelligenza artificiale.
Primavoltità
La comune tendenza a valutare l'opera con il criterio della conformità ai modelli -l'opera sarà apprezzabile nella misura in cui rispecchia le fonti autorevoli, i classici e gli esempi di bello scrivere- ci spinge a muoverci nei pressi del polo opposto, ovvero a proporre un elogio di quella qualità così rara che Bobi Bazlen chiamava primavoltità.
"Tra le qualità capitali di un'opera Bazlen includeva sempre quella che lui chiamava primavoltità.
Una anche minuscola invenzione, un gesto rapido, solo per il fatto di apparire per la prima volta, acquistano un altro senso e la trasacurabile aggiunta al mondo ne muove l'ordine", scrive
Roberto Calasso nell'Introduzione agli Scritti di Bazlen. (Roberto Bazlen, Scritti, Adelphi, 1984).
Ognuno di noi può, anche con gesti minimi, muovere l'ordine del mondo. Riscrivere sul palinsesto. Perché non accettiamo questa possibilità? Non è necessariamente un peso. Può essere un gioco.
L'incapacità di esprimersi, di essere autori, è conseguenza di un quadro sociale e politico, è conseguenza di una educazione. Ma è anche frutto di censure profonde: radica nel nostro carattere, nel nostro passato.
Nascondiamo questa incapacità di scrivere in modo personale, di scrivere mettendo in campo la nostra sia pur modesta primavoltità, dietro a giustificazioni diverse: limiti della lingua; presenza di norme espressive imposte dalle convenzioni e dal mercato; bisogno di farsi lupo tra i lupi, accettando il comune modo di scrivere. E non c'è primavoltità nemmeno quando, per volontà di apparire nuovi a tutti i costi, forziamo il nostro modo di scrivere. Tutti, a ben vedere, meccanismi di difesa.
Non è vero che per far ascoltare la propria parola si deve essere sprezzanti. In luogo dell'hybris può esserci la charitas, in luogo dell'arroganza l'affetto. E in luogo delle sane e ragionevoli regole dettate da un qualsiasi esperto, di una qualsiasi autorità, la nostra libertà di esprimerci.
E dunque: possiamo seguire la via indicata da Borges guardare alla scrittura come continua riscrittura in cerca della retrostante scrittura. Per questa via arriviamo a poter notare oggi: riscrivere il Don Chisciotte in cerca del Don Chisciotte è difficile e faticoso. Come è facile ora affidare la riscrittura del Quijote a una macchina! Resta centrale oggi la rinuncia ad essere, per affidarsi alla macchina.
Purtroppo, proprio per evitare a noi la possibilità di gesti liberatori, costruiamo macchine che ci confermano impossibilità di liberarci, macchine che ci deprimono e ci giustificano nell'inazione.
Possiamo incolpare chi vogliamo della costruzione della macchina, dell'imposizione a noi della macchina. Ma è in campo comunque una nostra scelta, una nostra rinuncia a portare il nostro granello di primavolitità.
"Pensare, analizzare, inventare non sono atti anomali, sono la normale respirazione dell'intelligenza. Ogni uomo deve essere capace di ogni idea e intendo che in avvenire lo sarà" Jorge Luis Borges
Provvisoria conclusione
Giunto nei pressi di una provvisoria conclusione, mi sento di dover ricordare che forse anche la scelta dell'esempio denota forse un nostro essere ormai tanto interni alla scena digitale dal vedere ormai a fatica ciò che sta fuori, nel mondo. L'esempio di Cervantes e Menard che scrivono lo stesso testo ci avvicina ad una invarianza dell'autore: due agenti, in fondo, scrivono lo stesso testo, facile immaginare che uno o entrambi sia sostituito dalla macchina, o non troppo difficile anche arrivare a dire: entrambi sono macchine scriventi.
Borges stesso ci fornisce numerose altre suggestioni, che val la pena di tenere presenti. Ne ricordo qui una: in Otras Inquisiciones (1952) si chiede e ci chiede ¿Qué es ahora un libro clásico? Perché consideriamo il Don Quijote un classico? Borges risponde: "Classico non è un libro che possiede necessariamente questo o quell'altro merito; è un libro le le generazioni degli uomini, spinte da diverse ragioni, leggono con previo fervor e con una misteriosa lealtà".
Lascio previo fervor in spagnolo, perché è un sostantivo che torna spesso nelle pagine di Borges. Borges che potrebbe apparire freddo, ci parla di qualcosa che ci appare non solo caldo, ma bollente; qualcosa che per noi è fermento. Qualcosa che siamo noi a scegliere. Qualcosa in cui ci riconosciamo. Qualcosa che rimanda ad una nostra personale esperienza, ad un nostro giocare, come ci insegna Wittgenstein. Qualcosa in cui ci ritroviamo, perché vi cogliamo qualche segno di primavoltità.
Se parlando del Chisciotte di Menard Borges parla di previa scrittura, scrittura che c'è già prima di ogni lettura, ragionando dei libri che riteniamo classici parla di previo fervor, di una disponibilità, di una intenzione, di una fiduciosa attesa che è in noi prima della lettura. Se la scrittura è preesistente, se il testo non è di nessuno, il fervore è di ognuno di noi.
Perché poi non è vero che il decostruire i testi debba necessariamente risolversi nell'andare da un testo ad altri testi. Non è detto che si debba restare chiusi in un biblioteca. Possiamo ben intendere decostruzione come ricerca del diverso che sta dietro ogni pagina che leggiamo.
Come ci narra il Don Quijote di Cervantes (e di Menard), Don Quijote, pur senza riuscirci mai del tutto, si era sforzato di uscire dal suo mondo fatto di libri. La stessa presenza di Sancho significa l'esistenza di un mondo lontanissimo dai libri, anzi analfabeta, eppure ricchissimo dal punto di vista della creatività e dell'immaginazione. Ci sono i libri, ma c'è, nella quotidianità, lo scambio verbale, il gioco relazionale.
Una delle malattie causate in noi dalle macchine che oggi chiamiamo intelligenze artificiali consiste nell'imporci un filtro, una mediazione obbligata, indipendente da noi, nel nostro agire di ogni giorno. Ciò di cui ci parla il Don Chisciotte è propio l'umano tentativo, che resta vivo nonostante ogni insuccesso, di non arrendersi.
Tornando a gettare lo sguardo sul racconto di Borges, Pierre Menard, autor del Quijote, troviamo questa frase illuminante: "Pensare, analizzare, inventare non sono atti anomali, sono la normale respirazione dell'intelligenza". Respirazione dell'intelligenza umana.
Ancora una frase: "Ogni uomo deve essere capace di ogni idea e intendo che in avvenire lo sarà".