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Non tutto ciò che conta si conserva, ma tutto ciò che vale si coltiva. È una differenza sottile, ma decisiva. Il lavoro quotidiano, nelle sue pieghe più ordinarie, ci trasforma. Ma cosa resta, se il fare si svuota del suo senso? Questo testo è un invito a guardare di nuovo — dentro il progetto, dentro l’organizzazione, dentro di noi. Non per trovare formule, ma per ritrovare connessioni. Scrittura, visualizzazione, relazione: sono strumenti per vedere meglio, non per semplificare. Perché ogni gesto, ogni parola, ogni documento può essere un atto di cura, oppure un'occasione persa. Sta a noi decidere.


Non si conserva ciò che conta: si coltiva ciò che vale.

Ciò che facciamo ogni giorno ci cambia.

Anche quando non ce ne accorgiamo.

Un progetto, una riunione, una riga di codice, un piano che fallisce. Tutto incide. Tutto scrive.

 

Eppure, a forza di gestire, sembra che si perda il senso.

Come se il mestiere avesse divorato il mestiere.

Come se i giorni passassero solo per essere spuntati.

 

Hai imparato come fare, ma ti ricordi ancora perché?

Ti sei forse convinto che sapere basti? Che pianificare significhi comprendere?

 

Ma non basta conoscere le scadenze per sapere dove stai andando.

Non basta compilare moduli per capire le persone.

 

La conoscenza non è archiviazione. È relazione.

È movimento, non accumulo.

Il sapere non si tiene in ordine: si tiene in vita.

 

Dove manca connessione, arriva la confusione.

Dove manca fiducia, il conflitto marcisce.

E quando la distanza si fa sospetto, ogni confronto diventa scontro. 

 

Ho lavorato dentro le trasformazioni, per anni.

Ma più che guidarle, le ho ascoltate.

Un progetto non lo dirigi: lo osservi, lo accompagni. Lo lasci parlare.

 

Il metodo? Non ne ho uno, se non questo: piccoli passi, ogni giorno.

Non per arrivare prima, ma per non perdere il filo.

Ogni imperfezione è una possibilità, se hai lo sguardo giusto. 

 

Alcune applicazioni digitali mi aiutano.

Non per la loro potenza, ma per la loro capacità di farmi vedere.

Perché vedere davvero è il primo atto di cura.

 

Visualizzare un flusso, un blocco, un intreccio.

Non per fare effetto, ma per capire meglio.

Ogni volta che riesco a trasformare la complessità in chiarezza, sento di essere nel posto giusto.

 

 

 

Il problema, quasi mai, è tecnico.

È relazionale. È comunicativo.

Le persone non si parlano. O lo fanno troppo tardi.

Ognuno difende il proprio perimetro, invece di costruire uno spazio in comune.

 

Organizzazione dovrebbe significare questo: uno strumento condiviso.

Un gruppo che si unisce per fare insieme ciò che da soli non si può.

E invece spesso ci si difende dall’organizzazione, come se fosse un nemico.

 

Ma non è un “noi contro loro”: è un noi che non si riconosce più. 

 

Il conflitto fa paura. Ma non dovrebbe.

Se gestito con apertura, è una fucina.

Il calore della divergenza può fondere idee nuove.

Può smontare pregiudizi. Può fare spazio.

 

La negoziazione non è vincere. È costruire.

Non è custodire la propria ragione, ma arricchirla con quella altrui. 

 

Anche un documento può farlo.

Anche una pagina ben scritta è un ponte.

Non abbellisce: chiarisce.

Non impressiona: orienta.

 

Scrivere bene non è vezzo. È responsabilità.

 

Chi scrive male, disinforma.

Chi scrive senza pensare, confonde.

E chi copia senza capire, moltiplica l’errore. 

 

L’informazione non è neutra.

Non lo è mai stata.

Modella, orienta, guida.

Un sistema informativo povero genera decisioni sbagliate.

 

Serve chiarezza, serve lentezza.

Serve capacità di discernere.

Perché la velocità non salva, se non sai cosa stai facendo. 

 

Il lavoro, se perde il senso, logora.

E allora non è più lavoro: è una recita.

Una parte recitata male, con copioni scritti da altri.

 

Io, per non dimenticare, scrivo.

Una pagina al giorno, quando posso.

Non per spiegare, ma per vedere meglio.

 

Scrivere mi rimette davanti a me stesso.

Mi aiuta a non perdermi.

Mi fa capire dove sto andando.

Mi dice, ogni giorno, da dove vengo.

 

 

 

Forse un giorno costruiremo ambienti informativi come si costruiscono giardini: con varietà, con percorsi, con pause.

Non per contenere, ma per coltivare.

Non per conservare, ma per far vivere.

Allora non parleremo più di archiviazione, ma di presenza.

Non di dati, ma di destino condiviso.

 


 

Nota bibliografica – Intelligenza collettiva

 

Il concetto di intelligenza collettiva, qui solo evocato, nasce dal lavoro di Pierre Lévy, che dagli anni ’90 propone una visione del sapere come costruzione distribuita e dinamica.

Letture consigliate: 

  1. L’intelligenza collettiva. Per un’antropologia del cyberspazio, Feltrinelli, 1996

   [Google Books](https://books.google.com/books/about/L_intelligenza_collettiva_Per_un_antropo.html?id=-FOnDOdkk4gC

  1. The Semantic Sphere 1, 2011

   [PDF gratuito](https://pierrelevyblog.com/wp-content/uploads/2013/06/00-0-0-semantic-sphere-1.pdf)

 

 

Pubblicato il 29 maggio 2025

Calogero (Kàlos) Bonasia

Calogero (Kàlos) Bonasia / omnia mea mecum porto