Il “Dio degli eserciti” e le stragi legittimate
Nel Tanakh — l’Antico Testamento cristiano — Dio appare sovente come Signore degli eserciti (YHWH Sabaoth): guida il popolo in battaglia, ordina la distruzione totale di città e nazioni. La conquista della terra di Canaan da parte di Giosuè è scandita da episodi di violenza estrema: Amaleciti, Cananei, Madianiti vengono sterminati in nome di una supposta “purificazione religiosa”. Si tratta di narrazioni, sì, ma con un peso teologico: l’obbedienza a Dio può richiedere lo sterminio dell’altro. La violenza non è incidente, ma principio.
Il messaggio di Gesù, nei Vangeli, si colloca in apparente discontinuità: amare i nemici, porgere l’altra guancia, scegliere la nonviolenza. Ma questa discontinuità è di breve durata: già nel IV secolo, con Costantino, la croce si trasforma in insegna militare. Le Crociate, l’Inquisizione, la colonizzazione in nome di Cristo non sono deviazioni marginali, ma frutti coerenti di una teologia che ha riassorbito il messaggio evangelico dentro la logica del potere. Anche qui, la guerra ritorna sacra.
Il Corano ammette la possibilità del conflitto, ma entro limiti rigorosi: solo in risposta a un’aggressione, per difendere la libertà di culto. Tuttavia, versetti come il noto 9:5 ("Uccidete gli associatori ovunque li troviate…") sono stati, in contesti storici differenti, estrapolati e manipolati per giustificare guerre espansionistiche. Il jihad spirituale — lotta interiore verso il bene — è stato frequentemente oscurato da un jihad armato, funzionale al potere politico.
Religioni di pace, testi di guerra
Il problema non risiede solo nel fatto che le religioni parlano di guerra, ma che la guerra viene sacralizzata. Quando si proclama che Dio combatte “con noi”, che uccidere può essere giusto “per la vera fede”, si apre un abisso: la violenza smette di essere un’eccezione da evitare, e diventa un dovere sacro. Ogni religione monoteista ospita al proprio interno interpretazioni che hanno giustificato il massacro come forma estrema di fedeltà.
A rendere tutto questo ancor più inquietante è il legame profondo tra la teologia della guerra e l’esclusione strutturale delle donne. Le stesse tradizioni religiose che legittimano conflitti “in nome di Dio” escludono sistematicamente le donne dai luoghi della decisione, dai ministeri, dalla costruzione dell’autorità. La guerra sacra è sempre maschile: pensata, autorizzata e narrata da uomini. Le donne, quando non sono bottino o oggetto della violenza, vengono relegate ai margini: mai comandanti, raramente profetesse, mai sacerdotesse con pieno riconoscimento istituzionale.
Nella Chiesa cattolica, le donne sono tuttora escluse dal sacerdozio e dal governo ecclesiale: non possono presiedere l’Eucaristia né partecipare al conclave. In una religione che proclama “non c’è né uomo né donna in Cristo”, metà dell’umanità resta fuori dalla rappresentanza sacramentale. Nell’Islam tradizionale, le donne non guidano la preghiera pubblica né esercitano autorità giuridica religiosa. Nell’ebraismo ortodosso, sono escluse dal rabbinato e dalla lettura pubblica della Torah. Si tratta, chiaramente, non di volontà divina, ma di costruzioni patriarcali trasfigurate in dottrina.
Il sacro come dispositivo di potere
Guerra e esclusione femminile appaiono dunque come due facce dello stesso meccanismo: il sacro come dispositivo di dominio. La guerra religiosa protegge un ordine che è teologico, sì, ma anche politico e sessuale. Le donne non solo non combattono: non decidono. Sono escluse dalla canonizzazione dei testi, dalla definizione dell’ortodossia, dalla leadership comunitaria.
L’effetto di questa esclusione è profondo: le narrazioni religiose diventano unilaterali, costruite da uomini per altri uomini, in una struttura verticale che perpetua l’obbedienza e la disuguaglianza. Le guerre di Dio sono, allora, guerre del potere contro l’alterità, contro chi chiede cambiamento, inclusione, ascolto. Un Dio evocato non come forza liberatrice, ma come garante dello status quo.
Una critica necessaria
Criticare le guerre di Dio non significa rifiutare la spiritualità, ma ricusare le giustificazioni violente che si travestono da sacro. Non basta proclamare che “Dio è misericordioso” se i testi autorizzano lo sterminio. Non è sufficiente invocare la “contestualizzazione storica” senza il coraggio di rileggere criticamente, denunciare con chiarezza, riformare con coerenza. Non si può continuare a parlare di religioni di pace se si mantiene intatta una grammatica del potere, della sottomissione, dell’esclusione.
Le religioni, per avere un futuro credibile, devono disarmare non solo le mani, ma anche le parole, i riti, i simboli. Devono riconoscere i propri fallimenti, e restituire voce e dignità a chi è stato zittito per secoli: donne, dissidenti, marginalizzati. Il sacro non può più essere sinonimo di dominio. O sarà liberazione, o semplicemente non sarà.