C’è un mistero botanico che si ripete in migliaia di cucine ogni settimana: si compra un vaso di basilico al supermercato, verde e rigoglioso, e dopo pochi giorni lo si trova accasciato, ingiallito, morente. Non si capisce perché: ha luce, ha acqua, ha attenzioni. Eppure, muore. Come una promessa non mantenuta. Come una verità che si sfalda appena la si porta a casa.
La scena è comune. Ma ciò che essa rivela è tutto tranne che banale. Perché quel basilico non è stato coltivato per durare: è stato progettato per sembrare vivo abbastanza da essere venduto, non per radicarsi. È stato ipercompresso in un vaso troppo piccolo, nutrito a forza per diventare bello in fretta, ignorando ogni logica ecologica. Quel basilico, insomma, è una metafora.
E come tale, possiamo usarla.
Per parlare, ad esempio, di un’altra pianta artificiale: le certificazioni professionali nel mondo del Project Management. Fogli timbrati, badge digitali, attestati plastificati che si accumulano come bolli dell’auto: doverosi, costosi, ineludibili, eppure – se ci si ferma a guardare – privi di radici.
I certificati come piante da esposizione
Le certificazioni, oggi, sono spesso basilico da supermercato. Si presentano lucide, ordinate, impacchettate con cura. Offrono una promessa di freschezza, di competenza, di appartenenza. Ma durano poco. Non generano conoscenza organica, non trasformano la cultura, non migliorano i processi. Sono segnali, non sostanza. In molti casi, sono un green pass cognitivo: dimostrano che si è stati “esposti” al verbo, ma non che lo si pratichi. Dimostrano che si è “passato un test”, ma non che si sappia pensare criticamente.
Come il basilico, crescono in condizioni artificiali: bootcamp di tre giorni, domande a scelta multipla, format universali, concetti ridotti a check-list. E come il basilico, soffrono appena vengono trapiantati nel mondo reale, dove i team sono complessi, i progetti ambigui, i sistemi intrinsecamente caotici.
L’economia dell’apparenza e la tassa simbolica
Il mondo delle certificazioni funziona come un sistema fiscale implicito. Ogni tot anni, devi rinnovare il tuo “bollino”. Lo richiede il mercato. Lo richiedono i recruiter. Lo richiede LinkedIn, con il suo algoritmo delle visibilità. La certificazione non è più uno strumento di apprendimento: è una tassa simbolica sull’esistenza professionale.
Nel suo libro Liquid Modernity, Zygmunt Bauman scrive che viviamo in un’epoca in cui le identità sono liquide, sempre pronte a cambiare forma. La certificazione risponde a questa instabilità offrendo un’illusione di solidità: una medaglietta, un badge, una sigla dietro al nome. Ma questa solidità è fittizia: non certifica chi sei, ma cosa hai fatto in un momento preciso. È un’istantanea, non un processo.
E come ogni tassa, la certificazione crea burocrazia. Pagine di moduli, enti accreditati, sistemi di verifica, auditing di ore. Si crea un ecosistema autoreferenziale dove chi “certifica” diventa più importante di chi “sa fare”. L’atto del sapere viene dislocato in un formato ripetibile, standardizzabile, vendibile. Il sapere come pratica incarnata scompare.
Il sapere come coltivazione, non come acquisto
Il basilico vero, quello che dura, non si compra: si coltiva. Richiede tempo, pazienza, attenzione al contesto. Richiede il gesto quotidiano, il fallimento, l’osservazione. Così è anche per la conoscenza. Non si può “comprare” un mindset in un weekend. Non si può “ottenere” una cultura di team in un corso da remoto. Queste cose si costruiscono con la pratica continua, con l’errore, con la riflessione critica.
Peter Senge, nel suo La quinta disciplina, parla dell’organizzazione che apprende come di un organismo vivo. Un sistema capace di riflettere su se stesso, di adattarsi, di sviluppare visioni condivise. Nulla a che fare con i modelli precotti delle certificazioni. Lì, tutto è già dato: ruoli, processi, framework. Come se l’apprendimento fosse una macchina da replicare, non una pianta da far crescere.
La conoscenza autentica, invece, è rizomatica. Si sviluppa in direzioni imprevedibili, si intreccia con l’esperienza, sfida le certezze. È ciò che Deleuze e Guattari chiamavano saperi nomadi. E i nomadi non collezionano patenti: apprendono attraversando.
L’illusione del “miglioramento continuo” industrializzato
Molte certificazioni vendono l’idea di “Kaizen”, di miglioramento continuo. Ma è un Kaizen decontestualizzato, ridotto a protocollo. Il vero Kaizen, come emerge dalla cultura giapponese, è un atto etico prima che tecnico. È attenzione, cura, ripetizione intelligente. Non si misura in KPI, ma in consapevolezza.
Takuan Sōhō, monaco Zen del XVII secolo, scriveva che “la vera abilità si manifesta quando l’agire diventa naturale, senza sforzo”. Questo tipo di competenza non è certificabile. È visibile nel gesto, nell’atteggiamento, nel silenzio. E come tale, sfugge alla logica della validazione industriale.
Le certificazioni, al contrario, rendono il miglioramento un prodotto. Un upgrade da acquistare. Sei PMP? Fai i PDU. Salta al livello successivo. È una gamification del sapere che produce più ansia che competenza. Un circolo di accumulazione simbolica che, come scriveva Bourdieu, serve più a distinguere che a comprendere.
Il potere come economia simbolica
Il vero valore delle certificazioni non è nelle competenze che veicolano, ma nel potere simbolico che rappresentano. Sono strumenti di distinzione sociale, marcatori di appartenenza, valute per la mobilità professionale. Come le uniformi o i titoli nobiliari, dicono: “Io sono dentro, tu sei fuori”. Danno accesso a comunità chiuse, a network esclusivi, a contratti meglio pagati.
In questo senso, le certificazioni funzionano come dispositivi foucaultiani: normalizzano, classificano, gerarchizzano. E chi non le ha, o non le rinnova, rischia l’oblio professionale. Non importa se sa fare, se ha esperienza, se ha pensiero critico. Senza bollino, non sei visibile. Sei basilico senza etichetta.
Rifiutare il vaso, coltivare il terreno
Come uscire da questa logica? Forse la risposta non è nel distruggere il sistema, ma nel disinnescarlo dall’interno. Come? Rifiutando il vaso. Rifiutando la coltivazione forzata. Accettando l’incertezza del suolo aperto, del sapere diffuso, della pratica quotidiana.
Invece di rincorrere certificazioni, possiamo costruire comunità di apprendimento. Invece di accumulare badge, possiamo scrivere, discutere, condividere errori. Invece di passare esami, possiamo coltivare domande.
Il Project Management, nella sua essenza, non è un metodo da certificare: è una sensibilità epistemologica. È una modalità di essere nel mondo, di leggere il cambiamento, di stare nella complessità. Non richiede bollini, ma consapevolezza. Non richiede silos, ma connessioni.
Conclusione: il basilico ribelle
Forse il punto non è salvare il basilico del supermercato. Forse il punto è smettere di comprarlo.
Coltivare il proprio basilico, da seme, è un atto rivoluzionario. Così come lo è imparare fuori dai circuiti standardizzati. Leggere testi obliqui, partecipare a conversazioni vere, sbagliare senza paura. È un gesto lento, silenzioso, ma trasformativo.
Le certificazioni continueranno a esistere. Come i bolli auto. Ma possiamo smettere di considerarli sacri. Possiamo vederli per ciò che sono: strumenti fiscali dell’identità professionale, non mappe del sapere.
E in questo spazio liberato, forse, può germogliare qualcosa di nuovo. Un’agilità radicale. Un apprendimento vivo. Un sapere che, come il basilico vero, profuma ancora il giorno dopo.