Una intervista di Carlo Mazzucchelli al filosofo Pietro Montani, autore di libri e Professore di Estetica presso la Sapienza Università di Roma.
Tutti sembrano concordare sul fatto che viviamo tempi interessanti, complessi e ricchi di cambiamenti. Molti associano il cambiamento alla tecnologia. Pochi riflettono su quanto in profondità la tecnologia stia trasformando il mondo, la realtà oggettiva e fattuale delle persone, nelle loro vesti di consumatori, cittadini ed elettori. Sulla velocità di fuga e volontà di potenza della tecnologia e sulla sua continua evoluzione, negli ultimi anni sono stati scritti numerosi libri che propongono nuovi strumenti concettuali e cognitivi per conoscere meglio la tecnologia e/o suggeriscono una riflessione critica utile per un utilizzo diverso e più consapevole della tecnologia e per comprenderne meglio i suoi effetti sull'evoluzione futura del genere umano.
Buongiorno Professore, può raccontarci qualcosa di lei, della sua attività attuale, del suo interesse per le nuove tecnologie e per l'elaborazione di una riflessione filosofica sull'era dell'informazione tecnologica che viviamo?
Ho insegnato Estetica, per molti anni, all’Università di Urbino, alla Sapienza, presso il Centro Sperimentale di Cinematografia e in altre Istituzioni, italiane e straniere.
Da alcuni mesi sono in pensione, nel senso che non tengo più un insegnamento ufficiale presso una Università, benché continui ad occuparmi di filosofia, e prevalentemente di filosofia della tecnica, di immaginazione e di tecno-estetica, con la stessa intensità e con la stessa continuità di prima.
Come alcuni filosofi sanno bene, le cose di cui ci si occupa non sono mai il risultato di una libera scelta: si tratta piuttosto di temi che a un certo punto si impongono al pensiero con una esclusività non negoziabile. Così è successo per me con il problema dell’immaginazione e con quello della tecnica. Né saprei dire quando e in che modo mi si sono imposti così perentoriamente: se hanno avuto a che fare, per esempio, col mio amore, assoluto e antichissimo, per il cinema oppure con la frequentazione, più recente e meno costante (anzi oggi del tutto esaurita), del pensiero di Heidegger, che sull’ontologia e la fenomenologia della tecnica ci ha aperto gli occhi una volta per tutte.
Sta di fatto che da parecchi anni a questa parte non avrebbe alcun senso per me fare filosofia in un quadro diverso.
Le opinioni esistenti sono contrastanti ma è un fatto che le tecnologie digitali stiano modificando le sinapsi del nostro cervello, cambiando gusti, comportamenti e stili di vita. A cambiare è però anche la nostra percezione della realtà, sempre più condizionata da sensori e protesi tecnologiche che raccolgono per noi i dati su cui elaboriamo un pensiero, una scelta o una decisione, e del mondo intorno a noi. Cambiano anche la sensibilità, l'immaginazione e l'interattività. Lei su questi temi ha scritto un libro, Tecnologie della sensibilità. Ci può illustrare in sintesi la sua visione sul ruolo delle tecnologie nella nostra elaborazione di senso, capacità immaginativa di tipo interattivo e di percezione della realtà?
Vorrei provare a collocare, come si dice, alcuni paletti per evitare di essere frainteso nel momento in cui dovrò pur dichiarare il mio atteggiamento del tutto privo di pregiudizi negativi nei confronti delle nuove tecnologie.
Il primo è che per l’essere umano la tecnica è stata e resta una risorsa adattativa non surrogabile. L’essere umano viene al mondo, alla lettera, tecnicamente provvisto (ovvero organicamente sprovveduto, che è lo stesso). L’immagine di un vivente umano già compiuto e decorosamente organizzato a cui, a un certo momento, si aggiungerebbero dei prolungamenti tecnici e degli artefatti che lo aiutano a vivere meglio è del tutto inadeguata. Homo sapiens non si è estinto (a differenza di diversi altri viventi molto simili a lui: le ominazioni sarebbero state almeno 5 o 6, secondo le più recenti acquisizioni paleontologiche) perché fin dall’inizio ha saputo utilizzare con sorprendente prontezza l’attitudine della sua sensibilità a prolungarsi in artefatti e la sua altrettanto sorprendente creatività nel produrre e rinnovare questi artefatti.
Il secondo paletto riguarda il rapporto, che è costitutivo, tra le protesi tecniche e il nostro cervello, del quale non si dovrebbe dire che viene “modificato” dalla tecnica, quanto piuttosto che ne viene plasmato. Com’è ormai ampiamente noto, infatti, non ci sono mai stati, né ce ne sono, due cervelli uguali, perché ciascun cervello ha dovuto costruire a modo suo un sistema di connessioni sinaptiche il quale, a sua volta, non smette di riorganizzarsi nel corso dell’intera vita, vigile e non.
Ora è già evidente su un piano intuitivo che le tecnologie esercitano un potente effetto su questa continua riorganizzazione. Ma questo non vuol dire che il nostro cervello, o l’intero sistema nervoso, o le nostre condotte operative, cognitive ecc., vengano “modificati” dalla tecnica. Ragionare nella prospettiva della “modifica” significa aver surrettiziamente assunto il paradigma del vivente già bello e completo prima della comparsa delle tecnologie, che ho già criticato.
Terzo paletto: la nostra percezione della realtà è sempre mediata. E questa è un’ovvietà, ma è una di quelle ovvietà che bisogna aver il coraggio di assumere radicalmente. Pensiamo al linguaggio articolato: che cos’altro è il linguaggio articolato se non il primo esempio di “Realtà aumentata”? La realtà che ciascuno di noi percepisce è, da quando abbiamo l’uso del linguaggio, una realtà linguisticamente aumentata, una realtà che il linguaggio non smette di riarticolare e ridescrivere.
Ciò detto, il problema è quello di capire in che modo, storicamente, queste diverse operazioni di rimodellaggio delle nostre attitudini cognitive e pragmatiche si relazionino con l’innovazione tecnologica. Oggi, per esempio, sta accadendo che la nostra capacità di interagire con le immagini tecniche – per esempio manipolandole direttamente nei modi più diversi – abbia raggiunto un’estensione e una capillarità sconosciute in tutte le altre epoche storiche.
La domanda che si pone, e che apre il libro a cui lei fa riferimento, è se questo commercio inedito con le immagini sia destinato a risolversi in un penoso balbettio ripetitivo, stereotipato ed eterodiretto o se non se ne prospetti un’evoluzione, verosimilmente difficile, accidentata e contrastata, verso la complessità. Io sono convinto che questa seconda alternativa è quella destinata a prevalere, ma sono altrettanto certo che ciò accadrà in forme del tutto inedite, in forme di cui non siamo ancora minimamente addestrati a cogliere l’emergenza e le potenzialità. Ebbene, sono queste forme, oggi, a esercitare su di me l’attrazione filosofica più forte. La mia filosofia, se ne ho una, consiste nel ricercare e nel chiarificare queste forme. In questo senso, come sottolineo spesso, continuo a collocarmi nella prospettiva che fu inaugurata dalla filosofia critica di Kant.
Le molteplici trasformazioni in atto obbligano tutti a riflettere sul fenomeno della pervasività e dell'uso diffuso di strumenti tecnologici ma anche sugli effetti della tecnologia. Qual è la sua visione attuale dell'era tecnologica che viviamo e che tipo di riflessione dovrebbe essere fatta, da parte dei filosofi e degli scienziati ma anche delle singole persone?
Condivido la sua esigenza di distinguere tra filosofi, scienziati e gente comune.
Io la metterei così: se ai filosofi spetta il compito di collocare gli eventi innovativi, o inquietanti, imputabili ai nuovi assetti tecnologici in una prospettiva rigorosamente “critica” (nel senso specifico del criticismo kantiano appena richiamato), agli scienziati spetta il compito – classico, ma oggi più urgente – di difendere senza compromessi la libertà della sperimentazione, massicciamente inquinata da una politica di dislocamento delle risorse sempre più orientata verso il profitto. Voglio dire che la rivendicazione della libertà di ricerca mi sembra oggi bisognosa di un robusto supplemento di esposizione etica e di progettualità politica.
Le machine al lavoro, gli umani senza lavoro felici e contenti!
Analogo, fatte le debite distinzioni e proporzioni, è il caso del singolo: le nuove tecnologie gli mettono a disposizione delle risorse straordinarie, che si tratta solo di scoprire, magari divertendosi, e di mettere alla prova produttivamente. Benché la letteratura corrente sia unilateralmente catastrofista su questo punto, a me sembra che i giovani e i giovanissimi stiano cominciando a usare la rete con una spregiudicatezza che ancora qualche anno fa sarebbe stata impensabile.
L’aspetto ludico assume qui un rilievo non sottovalutabile. Ma non è una novità: creatività e gioco sono uniti da sempre.
Miliardi di persone sono oggi dotate di smartphone usati come protesi tecnologiche, di display magnetici capaci di restringere la visuale dell'occhio umano rendendola falsamente aumentata, di applicazioni in grado di regalare esperienze virtuali e parallele di tipo digitale. In questa realtà ciò che manca è una riflessione su quanto la tecnologia stia cambiando la vita delle persone (High Tech High Touch di Naisbitt) ma soprattutto su quali siano gli effetti e quali possano esserne le conseguenze. Il primo effetto è che stanno cambiando i concetti stessi con cui analizziamo e cerchiamo di comprendere la realtà. La tecnologia non è più neutrale, sta riscrivendo il mondo intero e il cervello stesso delle persone. Lo sta facendo attraverso il potere dei produttori tecnologici e la tacita complicità degli utenti/consumatori. Come stanno cambiando secondo lei i concetti che usiamo per interagire e comprendere la realtà tecnologica? Ritiene anche lei che la tecnologia non sia più neutrale?
A questa domanda credo di aver già risposto, almeno in parte. Nella sua formulazione lei presenta la “Realtà aumentata” come qualcosa di pregiudizialmente “falso”, in effetti una realtà “diminuita”. Capisco la ratio di questa posizione, ma la condivido solo in parte: alla visione di una realtà impoverita dalla tecnica (per es. dal fatto che il mio Smartphone mi fornisce alcune informazioni utili sulla piazza in cui mi trovo ma al tempo stesso mi distoglie dall’osservazione diretta di ciò che vi accade in questo momento) vorrei di nuovo contrapporre l’immagine che ho prosoettato prima: pensiamo alla realtà quale viene assunta dal linguaggio. Il linguaggio è stato il primo, formidabile esempio di una “realtà aumentata”.
Aumentata e incrementabile, aggiungerei. Il linguaggio non mi restituisce mai tutto il mondo, ma solo alcuni tratti pertinenti delle cose. E tuttavia questi tratti sono riorganizzabili in qualsiasi momento in modo più fine, o più analitico o anche del tutto imprevedibile, come sanno fare i poeti. Direi lo stesso a proposito della convinzione, o del timore, che il mondo degli utenti della rete (vale a dire una fetta molto consistente e in rapida crescita del mondo tout court) sia costituito da un esercito di automi manovrati da Mark Zuckerberg, Jeff Bezos e pochi altri. È un’interpretazione molto riduttiva, che non solo non ci porta lontano nell’individuare i possibili anticorpi dell’automazione (e dio solo sa quanto siano necessari), ma rischia di impedirci di vedere il nuovo là dove più o meno timidamente sta emergendo.
Infine, da quanto ho detto fin qui (e, più ampiamente, nei miei libri) dovrebbe essere chiaro che l’interpretazione strumentale della tecnica – vale a dire l’idea che la tecnica sia un insieme di strumenti di per sé neutri – è del tutto inadeguata. La tecnica è uno dei grandi modellatori delle nostre condotte. Ma attenzione: non c’è il minimo determinismo in questo. Al contrario: il gradiente di plasticità delle condotte modellate dalla tecnica è molto elevato. Di più: esiste, da sempre, una creatività specificamente tecnica, che oggi, a mio modo di vedere, si è straordinariamente intensificata. Ecco un oggetto di enorme interesse per una tecno-estetica. Tanto più interessante proprio in quanto l’arte in senso tradizionale ristagna da decenni in una penosa condizione autoreferenziale.
Buona parte del suo libro, Tecnologie della sensibilità, è centrato sull'interattività resa possibile dai media digitali. La novità della sua riflessione, su un argomento oggetto costante di narrazioni e racconti mediatici, sta nel proporre una riflessione filosofica sui nuovi concetti che la tecnologia moderna ha fatto emergere. Più che i dati e i fenomeni sociologici lei sembra richiamare l'attenzione sui numerosi aspetti teorici che toccano concetti quali interattività, immaginazione, percezione, estetica e nel farlo ricorre a nuovi oggetti/media/strumenti come la Realtà Aumentata, le tecnologie indossabili, le immagini della Rete richiamando l'attenzione sull'uso attivo-interattivo-creativo che ne viene fatto. L'uso a cui fa riferimento non è solo quello giocoso legato al consumo e all'intrattenimento ma quello politico, legato alla collaborazione e a esperienze tecno-estetiche diverse da quelle anestetiche e livellate determinate dalla pervasività di protesi tecnologiche e mediali. Cosa è possibile fare per evitare l'atrofia della sensibilità e "il prosciugamento dei processi, cognitivi ed emotivi, che differenziano la percezione dalla sensazione, le esperienze autentiche da quelle contratte e irrigidite, la complessità e l'incertezza dalla semplificazione?"
La questione dell’interattività va integralmente ripensata alla luce delle considerazioni che ho appena fatto sulla creatività tecnica. Anche in questo caso io non dissocerei l’aspetto della serietà degli obiettivi da quello, anche ludico, delle procedure creative grazie alle quali gli obiettivi vengono spesso raggiunti.
Il livello attuale della creatività tecnica, che è “politico” nel senso preciso di una profonda riconfigurazione dello spazio stesso della polis, risponde in pieno, mi pare, alle intuizioni di Benjamin sulla profonda affinità tra quella che lui chiamava la “seconda tecnica” e l’attività del gioco. Ci si deve divertire (anche nel senso etimologico del di-vergere, del cambiare strada, dell’interrompere gli automatismi ecc.) per riconfigurare gli obiettivi da raggiungere o addirittura per lasciarli comparire in modo improvviso e inatteso.
Secondo alcuni, tecnofobi, tecno-pessimisti e tecno-luddisti, il futuro della tecnologia sarà distopico e dominato dalle macchine, da un Matrix nel quale saranno introvabili persino le pillole rosse che hanno permesso a Neo di prendere coscienza della realtà artificiale nella quale era imprigionato. Per altri, tecnofili, tecno-entusiasti e tecno-maniaci, il futuro sarà ricco di opportunità e nuove utopie/etopie. A quali di queste categorie pensa di appartenere e qual è la sua visione del futuro tecnologico che ci aspetta? E se la posizione da assumere fosse semplicemente quelle tecno-critica o tecno-cinica? E se a contare davvero fosse solo una maggiore consapevolezza diffusa nell'utilizzo della tecnologia?
Come credo sia venuto fuori dall’intera discussione che abbiamo fatto, io appartengo alla famiglia dei tecno-critici (di nuovo in senso rigorosamente kantiano), che è del resto una famiglia molto ‘allargata’, aperta anche, perché no?, ai tecno-cinici, se con questa definizione ci riferiamo a certe tesi “autopoietiche” assunte da un filosofo come Peter Sloterdijk (v. per esempio Devi cambiare la tua vita e L’imperativo estetico, entrambi tradotti da Cortina).
Noi dobbiamo continuare a studiare con occhio critico il modo in cui si modificano le condizioni di possibilità dell’esperienza umana, sapendo che tra queste è fondamentale il ruolo delle tecnologie di volta in volta storicamente dominanti. Noi dobbiamo, inoltre, attrezzarci per guardare alle tecnologie esistenti come a un terreno di coltura incomparabile, e comunque non surrogabile, per i processi di autopoiesi e di individuazione (soggettiva e collettiva). L’addestramento, l’esercizio, la consapevolezza e l’assunzione di specifiche responsabilità tecniche (e qui basti pensare all’ambito delle biotecnologie) fanno parte di entrambi i movimenti appena indicati.
Vuole aggiungere altro, ad esempio qualche suggerimento di lettura? Vuole suggerire dei temi che potrebbero essere approfonditi in attività future?
Forse può essere utile, in conclusione, far riferimento alle due direttrici lungo le quali mi sto muovendo in questo momento e che, almeno per me, rappresentano il futuro.
La prima è l’esplorazione degli spazi sempre più diversificati nei quali il mondo online e il mondo offline si trovano sempre più spesso a incrociarsi. Io sono convinto, come ho già detto, che in questi incroci si vada via via ricostituendo in modo nuovo e imprevedibile il tessuto stesso del ‘politico’, lo spazio proprio della polis.
La seconda è l’idea di una specifica assunzione di responsabilità legata al rapporto sempre più intimo e capillare che noi umani non abbiamo smesso di stabilire con la tecnica. E penso, in particolare, a un’etica pratica delle wearable technolgies e delle tecnologie incorporate.
Su questi due terreni il lavoro è ancora quasi tutto da fare.
"Nell'incrocio tra mondo online e mondo offline si va via via ricostituendo, in modo nuovo e imprevedibile, il tessuto stesso del 'politico', lo spazio proprio della polis!