“Danno collaterale”: così si liquida, con due parole fredde e impersonali, la morte di civili innocenti nei conflitti armati. È un’espressione che non descrive, ma cancella. Non nomina la sofferenza, la ricopre di un velo tecnico, anestetico, funzionale. In apparenza neutra, è in realtà carica di implicazioni ideologiche, figlia di un preciso disegno retorico.
La guerra, nella sua nudità, è un evento inaccettabile.
Noam Chomsky ha più volte sottolineato come il linguaggio sia lo strumento con cui il potere si legittima. Nelle sue analisi, termini come “danno collaterale” non sono semplici eufemismi, ma dispositivi di occultamento. La guerra, nella sua nudità, è un evento inaccettabile. Per renderla digeribile, occorre distorcerne la rappresentazione. La terminologia tecnica diventa così uno scudo morale: non si uccidono persone, si neutralizzano bersagli; non si bombardano case, si colpiscono infrastrutture ostili. Il lessico disumanizzante permette di separare l’azione dalla responsabilità, e l’esito dal giudizio.
Il lessico usato per raccontare la guerra a Gaza è un lessico mediale e politico che assolve, che impedisce di vedere e, quindi, di giudicare.
Questa dinamica si è manifestata con particolare violenza nel corso dell’ultimo anno, quando lo Stato di Israele ha intensificato i bombardamenti su Gaza, riducendo in macerie interi quartieri, colpendo scuole, ospedali, campi profughi. Le immagini della distruzione scorrono sotto titoli che parlano di “rappresaglie mirate”, di “obiettivi legittimi”, mentre le decine di migliaia di civili uccisi vengono archiviati sotto la voce asettica di “danni collaterali”. È un lessico che assolve, che impedisce di vedere e, quindi, di giudicare. Le parole lavorano come anestetici morali: congelano il pensiero, sospendono l’indignazione.
Howard Zinn, storico e voce critica dell’America bellica, ricordava come la distanza operativa degli attacchi aerei renda invisibile la carne e il sangue delle vittime. Gaza oggi è il paradigma di questa invisibilità programmata. A differenza di altri teatri di guerra, qui la sproporzione tra mezzi, potere e retorica è talmente radicale da rendere il ricorso al linguaggio tecnico non solo uno strumento di legittimazione, ma una forma di complicità attiva nella disumanizzazione.
A questo si aggiunge un dettaglio tecnico che i media italiani sembrano ignorare, o forse non comprendere: molti dei danni visibili nelle città israeliane — vetri in frantumi, automobili bruciate, pareti sventrate — non sono affatto il risultato diretto di missili nemici, bensì provengono dai detriti dei sistemi di difesa aerea israeliani stessi. I frammenti prodotti dagli intercettori del sistema Iron Dome, dopo aver colpito i razzi in volo, cadono al suolo e generano a loro volta esplosioni, rotture, incendi. È una realtà ben documentata, nota agli esperti, ma accuratamente taciuta nel circuito dell’informazione generalista.
I giornalisti, salvo poche eccezioni, si limitano a ripetere le veline delle agenzie come un gregge di cronisti ignari, incapaci di distinguere tra ciò che appare e ciò che è.
In Italia, questa complessità viene regolarmente semplificata fino al grottesco. I giornalisti, salvo poche eccezioni, si limitano a ripetere le veline delle agenzie come un gregge di cronisti ignari, incapaci di distinguere tra ciò che appare e ciò che è. Non approfondiscono, non contestano, non verificano. Ignorano perfino i fondamenti della balistica, della tecnologia antimissile, della logica bellica. Il risultato è un’informazione che non solo disinforma, ma tradisce: il pubblico viene mantenuto in uno stato di infantilizzazione permanente, condannato a confondere la propaganda con il fatto.
Non dimentichiamo un principio elementare, che l’ipocrisia diplomatica e il chiacchiericcio giornalistico continuano a eludere: se nessuno avesse lanciato missili, se nessuno avesse trucidato civili disarmati, nessun altro avrebbe avuto motivo di rispondere con altra violenza. La logica della “reazione” presuppone un’origine, una causa prima che troppo spesso viene omessa dal discorso pubblico. Israele, se davvero vuole pace, dovrebbe prima rinunciare alla propria impunità, e accettare di vivere come fanno tutte le altre nazioni — anche quelle che, pur perpetrando crimini di guerra, non pretendono il monopolio morale sull’uso della forza. Non è un concetto difficilissimo da afferrare. Persino per chi, da vittima della Storia, pretende oggi di riscriverla a proprio vantaggio.
Ogni parola conta, e alcune parole uccidono due volte. La prima col fuoco, la seconda col silenzio. Chi sceglie di pensare, di costruire, di interrogare il reale, non può sottrarsi a questa responsabilità: restituire al linguaggio il suo peso, alla realtà la sua ferita, e al dolore il suo nome. Anche quando — anzi, soprattutto quando — farlo significa infrangere il comodo galateo della disinformazione nazionale. Scrivere con rigore oggi non è un gesto intellettuale: è un atto di resistenza.
Ogni parola conta, e alcune parole uccidono due volte. La prima col fuoco, la seconda col silenzio.
In questa guerra di narrazioni, in cui le vite vengono ridotte a numeri e i crateri a statistiche, vi sono voci che tentano — con tenacia e lucidità — di restituire umanità a ciò che viene sistematicamente cancellato. Unsilencing Gaza: Reflections on Resistance è una di queste voci. Si tratta di una raccolta di saggi e testimonianze che analizza le molteplici forme di resistenza messe in atto dai palestinesi di Gaza, con particolare attenzione a quelle non violente, spesso ignorate sia dai media che dalla letteratura accademica.
Il volume si fonda su osservazioni etnografiche e interviste con i manifestanti della "Grande Marcia del Ritorno", offrendo uno sguardo profondo sulla resilienza quotidiana dei gazawi, sulla dignità con cui affrontano la violenza sistemica, sull’intelligenza con cui articolano risposte non armate all’oppressione. Non è un testo militante, ma un’opera di decostruzione epistemica: mostra come il pensiero, la scrittura, l’organizzazione civile e la cultura possano essere forme potenti di opposizione, anche sotto assedio.
Una delle anime del progetto, Refaat Alareer, docente, scrittore, poeta, è stato ucciso da un bombardamento israeliano nel dicembre 2023. La sua figura resta simbolo di una resistenza culturale che non cede, che rivendica il diritto a raccontare la propria storia, a non essere ridotti al ruolo di bersagli. Con iniziative come We Are Not Numbers, Alareer ha formato generazioni di giovani scrittori palestinesi, dando loro strumenti per sfuggire alla morsa dell’oblio mediatico. La sua morte è una perdita intellettuale immensa. La sua opera, invece, è un’eredità viva, che parla con voce limpida a chi vuole ascoltare.
Unsilencing Gaza non è un grido, ma un controcanto. Non cerca lo sdegno, ma la consapevolezza. È la dimostrazione che anche sotto le bombe, la parola può ancora essere una forma di giustizia.