TESTI
Rendere invisibile un genocidio
Non è il silenzio che colpisce, ma la retorica che si sostituisce alla verità. Gaza viene distrutta, centimetro per centimetro, ma nei giornali, nei telegiornali, e nei comunicati delle cancellerie di stato si parla d’altro. Si parla di “conflitto”, come se ci fosse simmetria tra chi bombarda e chi fugge. Si parla di “reazione”, come se la distruzione sistematica di una popolazione potesse essere iscritta nel diritto alla difesa. Nessuno parla di genocidio. Non è un termine vietato, ma è come se lo fosse: troppo preciso, troppo compromettente. È questa la forma più moderna della menzogna: non negare i fatti, ma sbriciolarli. Isolarli. Disinnescarli. Una bomba su un ospedale diventa “un episodio”; cento bambini morti, “una tragedia”; la fame imposta, “una crisi umanitaria”. Le parole diventano prudenti, sfumate, come se avessero paura. O come se sapessero troppo.
Il nome delle cose: Gaza, il linguaggio, il crimine
Mentre Gaza viene spazzata via sotto gli occhi del mondo, il linguaggio si piega, si addomestica, si fa complice. “Danno collaterale” è l’etichetta sterile con cui si occultano massacri, dolori, crimini. Questo articolo non intende spiegare, ma smascherare: parole, retoriche, omissioni. Non parla da esperto, ma da cittadino che rifiuta l’anestesia morale. Con rigore e senza indulgenze, denuncia la disinformazione dilagante, l’ignoranza diffusa e l’ipocrisia istituzionalizzata. E richiama, con voce ferma, l’urgenza di una resistenza culturale, anche – e soprattutto – laddove il silenzio appare più comodo della verità. Perché alcune parole uccidono. Altre possono ancora salvare.