Gli aiuti umanitari, quando riescono a passare, arrivano tardi e inerti. Molti non arrivano affatto, non per caso, ma per calcolo. I valichi vengono chiusi, i camion respinti, i convogli ritardati fino al deterioramento. Quello che dovrebbe salvare viene trasformato in merce di scambio, in strumento di pressione, in decorazione diplomatica. Intanto si muore. Non solo per le bombe, ma per la fame. Per la sete. Per le infezioni lasciate senza cura. Si muore in fila, aspettando una razione di riso o una bottiglia d’acqua. E anche quando si riesce a fuggire, si arriva troppo tardi: corpi evacuati che non resistono, bambini arrivati in Italia ridotti a pelle e ossa, con organi compromessi, che non ce la fanno.
Nel frattempo, la stampa occidentale parla, ma non dice. Racconta, ma taglia. Dosa ogni parola come se scrivesse sotto dettatura. Le voci palestinesi vengono considerate “di parte”; quelle israeliane, invece, “ufficiali”. Non si spiega perché un’ambulanza venga colpita, né perché un’intera città venga rasa al suolo. Non si spiega nemmeno perché gli aiuti italiani ed europei vengano trattenuti, deviati, svuotati del loro senso. Ci si limita a riportare, come si riporta il meteo.
Ma c’è di più. Non si mostrano nemmeno gli israeliani che protestano. Non si mostrano i riservisti che si rifiutano di combattere, gli intellettuali che parlano di crimini, le famiglie che scendono in piazza a Tel Aviv. Non si sentono le voci ebraiche — in Israele, in Europa, in America — che denunciano la violenza come strategia e rifiutano l’idea che l’identità debba coincidere con l’impunità. Queste voci esistono, parlano, scrivono, ma disturbano. E quindi spariscono. Perché se anche all’interno della società israeliana si incrina la narrazione, l’intero costrutto vacilla: l’unità, la legittimità, la difesa come dogma.
Questo non è semplicemente disinformazione. È un sabotaggio del pensiero, una pedagogia dell’ignoranza. Si educa l’opinione pubblica a non capire, a non sentire, a non distinguere. E quando si riesce, il genocidio smette di esistere come fatto. Resta solo come polemica.
Ma non è questione di opinioni. Ci sono bambini senza più voce, ospedali senza luce, cimiteri che non si costruiscono più perché non c’è più terra asciutta. Chi tace su tutto questo — o, peggio, chi parla ma non nomina — partecipa. Forse non con le mani, ma con le parole. E oggi, più che mai, le parole possono uccidere. Anche quando sembrano non dire niente.
Chi volesse capire come si costruisce questa ignoranza — e perché si mantiene viva — può trovare una traccia utile in Agnotology: The Making and Unmaking of Ignorance (Stanford University Press, 2008), curato da Robert N. Proctor e Londa Schiebinger. È un libro che mostra come l’ignoranza non sia solo l’assenza di conoscenza, ma spesso il risultato di lotte culturali, economiche e politiche. Dalla negazione del cambiamento climatico alla censura scientifica, dalla sessualità alla guerra, ogni saggio documenta come il non sapere possa diventare un progetto preciso. Gaza è solo uno degli scenari in cui questo progetto è oggi in corso. E riconoscerlo è già un modo per interromperlo.