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Lo studio dei miti ha spesso evidenziato alcune analogie di fondo anche fra narrazioni appartenenti a culture molto diverse e lontane fra loro, con somiglianze presenti nei contenuti o con argomenti fondamentalmente simili che sovraccaricano tematiche apparentemente uniche.


Vi sono poi alcuni miti che possono essere definiti “archetipali”, come quello del diluvio che in un tempo a-storico e primordiale avrebbe inondato tutta la terra o parte di essa, che è uno dei racconti più diffusi nelle mitologie appartenenti alle culture più diverse. Se ne conoscono addirittura quattrocento versioni, alcune appartenenti agli antichi complessi di letteratura sacra dell’occidente (come quello contenuto nella Bibbia), altri a quelli dell’oriente classico (India, Cina, Tibet) o all’area del vicino oriente, come la Tavoletta XI riguardante l’epopea sumera di Gilgamesh, altre ancora derivate da tradizioni orali di più lontane aree geografiche, come quella dei nativi del continente americano o quelle di vari popoli della Polinesia e dell’Africa. Nonostante alcune indubbie “correnti di diffusione” da una cultura a un’altra vicina, il tema del diluvio sembra anzi possedere un innegabile valore di mito primordiale dell’umanità, essendo visto quasi come «battesimo e iniziazione dell’umanità» o anche come «figura di riti di rinascita della natura e di rigenerazione», come evidenzia François Berge in “La légénde de déluge” (da “Histoire générale des religions”, vol. V - Parigi, 1952).

Wilhelm Wundt nella sua monumentale opera “Psicologia dei popoli” del 1911 aveva affrontato il problema dell’origine delle religioni e dei miti, ma è sicuramente con Freud e Jung che l’analisi si dipana più in profondità coinvolgendo l’inconscio ed entrando quindi a pieno titolo fra le tematiche della psicologia. È proprio sulla base di questi studi che quindi Karl Abraham in “Psicoanalisi del mito” (trad. it. Roma, 1971) sviluppò la tesi dell’analogia fra mito e sogno evidenziando le similitudini fra le strutture simboliche di entrambi.

Nel mito, proprio come nel sogno, infatti, si può distinguere un contenuto palese, che si manifesta nel corpo della semplice narrazione, e uno latente, che si nasconde nei simboli che si annidano alle spalle della narrazione stessa, il cui significato è quello che deve essere oggetto dell’interpretazione. Ma questa dualità non è tuttavia evidente, e non lo è soprattutto ai soggetti che sono direttamente interessati al mito o che sono stati autori del sogno. Le “deformazioni” necessarie alla comprensione profonda del mito sono a loro volta incomprensibili all’interno della cultura che quel mito lo ha tramandato, perdendo traccia della sua origine, così come lo sono per il sogno che rimane incomprensibile al sognatore, ma non a chi è in grado di dare spiegazioni ai suoi contenuti al di là delle apparenze dell’allegoria che il sogno può rappresentare: lo psicoanalista nella cultura occidentale, lo sciamano in quelle che un tempo si definivano, con grande distacco e senso di superiorità, culture “primitive”.

Se quindi il sogno è stato studiato come se si trattasse di una cassaforte in cui sono rinchiusi i desideri e le angosce dell’infanzia di una persona, analogamente si è tentato di comprendere il senso dei miti come espressione dei desideri e delle angosce dell’infanzia dell’umanità, cioè di un’umanità pre-scientifica la cui comprensione della realtà naturale rimaneva incardinata appunto nella mitologia e in una cultura nel complesso a-logica. E così come i desideri e le angosce presenti nel contesto del sogno vengono rimossi dall’individuo allo stato cosciente, è come se i desideri e le angosce di un popolo presenti nella trama profonda delle proprie narrazioni mitologiche siano stati soggetti alla rimozione collettiva, trasformando così il mito in una sorta di traccia della vita psichica infantile dello stesso popolo.

Sappiamo bene che nel corso degli anni questa interpretazione si è ampiamente evoluta, arricchendosi di ulteriori connotati e superando l’idea che in ultima analisi  l’umanità si sia sviluppata secondo una linea evolutiva unica (comune ai fatti biologici e a quelli culturali). Sull’argomento non si può non citare l’opera di Mircea Eliade e l’immensa mole di studi da lui dedicati alla fenomenologia del sacro (basti citare i fondamentali sedici volumi della sua “Enciclopedia delle religioni” o il libro “Mito e realtà” – trad. it. Torino, 1966) attraverso le sue tre manifestazioni di base (il mito, il rito, il simbolo), che riescono a esprimere concetti sull’essere e sul non essere. Ma possiamo anche citare il contributo di Erik Fromm, autore fra l’altro del volume “Il linguaggio dimenticato” (trad. it. Milano, 1982) nel quale, analizzando i rapporti esistenti fra fiaba, sogno e mito, arrivò a sostenere  che ad accomunare i tre fenomeni è la similitudine del linguaggio usato, un linguaggio che nella nostra società così votata al razionalismo è divenuto indecifrabile a causa del prevalere di altre forme di comunicazione: il linguaggio del logos, contrapposto a quello del mythos, legato in ultima istanza al tipo di sviluppo che la cultura occidentale ha avuto prima o poi in tutti i suoi ambiti.

Ma tornando al mito, non si può negare che stiamo parlando di una realtà culturale molto complessa, sia che se ne parli facendo riferimento a quello antico dei greci o dei romani, sia che invece si voglia comprendere con tale parola quell’atteggiamento culturale ancora oggi fondamentale per varie popolazioni ormai subalterne del continente africano, della Papuasia, ma anche delle riserve indiane dell’Oklaoma o del British Columbia. Può infatti avere per protagonisti esseri a vario titolo soprannaturali, ma può anche narrare di creature naturali o di antenati o semplicemente cercare di spiegare aspetti ed eventi naturali di cui non si conosce l’origine; eppure il suo quadro di riferimento ha comunque l’effetto di operare quasi una vera e propria “irruzione” del sacro (in senso lato) nel mondo, oppure di aprire una finestra che consenta un contatto fra realtà dei fenomeni naturali e realtà sacra.

Questa dimensione sacra cui facciamo riferimento non deve necessariamente essere confusa con una concezione totalizzante della vita in senso religioso, né comunque con una dimensione religiosa nel senso che ormai noi attribuiamo a questo concetto. L’esperienza religiosa può d’altronde esservi alla base e pregnarla profondamente, ma è a una visione del mondo in senso “spirituale” che la produzione, la fruizione e la conservazione dei miti devono la loro esistenza. Questo non costituisce in sé affatto una sovrastruttura ideologica che si opponga direttamente alla pertinente e “comune” struttura storica; semmai, per la portata stessa che ha sulla psicologia dei suoi fruitori, il mito, da parte integrante della realtà, finisce col rappresentare direttamente questa realtà diventandone la medesima cosa (cfr. Ernst Cassirer: “Filosofia delle forme simboliche” (3 volumi) - trad. it. Firenze, 1965).

Le ragioni di quello che agli occhi di un uomo moderno e integrato nel mondo razionale e scientifico della cultura occidentale può apparire un capovolgimento della realtà stessa sono molteplici, ma riportano comunque a una serie di problematiche fra loro intrinsecamente interconnesse: prima di tutto il mito confronta valori e li perpetua, introducendo una scala di valori che tende a essere immutabile; inoltre, nel togliere interesse alla storia, può semplicemente coprire il senso di vuoto che una natura ostile può generare; infine, nel consacrare la supremazia di una realtà sacrale su una naturale, aiuta a gestire la conservazione della cultura di un gruppo sociale o di un popolo in assenza di strumenti di conservazione validi oggettivamente (caso tipico delle culture orali).

I miti, comunque, non sono eterni, né immutabili; possono ovunque evolversi, e anche cambiare velocemente al mutare delle condizioni di utilizzo (il contatto improvviso con un’altra cultura, la scoperta di nuovi confini scientifici, lotte sociali per un ricambio dell’élite al potere, l’appropriazione all’interno di una cultura della scrittura, ecc.); ma possono talvolta, proprio in presenza di condizioni esterne di crisi e di mutamento, fungere da elementi catalizzatori della tradizione, oppure perdere la loro funzione preminente rassegnandosi a una funzione culturale accessoria. 

nella crisi di valori del mondo odierno e nella crisi dei linguaggi convenzionali, il mito sta provando a emergere dalle sue ceneri

Ma, nella crisi di valori del mondo odierno e nella crisi dei linguaggi convenzionali che si stanno facendo sempre più rarefatti e tendenzialmente promiscui, è come se il mito stesse provando in qualche modo a riemergere da quelle che in molti ormai consideravano le sue ceneri. Ovviamente non parliamo di una rinascita del mito nell’ambito di contesti sacri, data l’ormai generale desacralizzazione della cultura contemporanea, legata a una generale mercificazione delle sue espressioni e finanche dei suoi “attori” (le persone ridotte a meri consumatori); ma parliamo di specifici segmenti di realtà, percepiti in alcuni casi secondo le logiche di una cultura mitografica che prova a decontestualizzare la realtà stessa reinterpretandola irrazionalmente o sfruttando anche inconsapevolmente alcuni paradigmi appartenuti in passato alla logica dei miti.

Perfino sull’intelligenza artificiale, argomento oggi divenuto tanto di moda e tanto multidisciplinare come probabilmente nessun altro, possiamo parlare della costruzione di un mito che si sta in un certo senso costruendo proprio sotto i nostri occhi da più parti con brandelli di filosofia, di epistemologia e di tecnologia e con pensieri in libertà che riflettono proprio quei desideri (o al contrario quelle paure inconsce) che da sempre, come abbiamo visto, i miti hanno incarnato nell’ambito delle loro narrazioni.

C’è perfino chi (Erik Larson) ha intitolato un suo recente libro “Il mito dell’intelligenza artificiale” (trad. it. Milano, 2022), analizzando il grande divario che esiste fra l’attività scientifica che sta alla base dell’I.A. e degli studi su di essa e, dall’altro lato, il sensazionalismo con cui spesso invece se ne parla in contesti che di scientifico hanno davvero ben poco, nei quali l’intelligenza artificiale appare come qualcosa di fantascientifico o, già oggi, una specie di emulazione di un qualunque modello di “Frankenstein”. In concreto Larson sostiene che il clamore che circonda il mondo dell’intelligenza artificiale non è solo cattiva scienza (e, aggiungiamo noi, banale ignoranza): la cultura scientifica prospera in un ambiente che guarda con entusiasmo all’esplorazione dell’ignoto e non in un clima di esaltazione irrazionale del futuro o, al contrario, nell’altrettanto irrazionale angoscia del male che si teme inconsciamente che prima o poi comunque si abbatterà.

Il pensiero corre anche alla creazione di “mitologie future”, come quella degli umanoidi con superpoteri e quella di nuove divinità artificiali; corre ad alimentare una narrazione che prova a esplorare su un piano irrazionale il futuro della tecnologia e della sua influenza sull’umanità, complici una narrativa fumettistica e una filmografia strettamente imparentata con videogiochi di successo fra i giovanissimi spesso frutto di barocchismi narrativi prodotti da effetti speciali creati a loro volta proprio sfruttando i sempre più innovativi strumenti digitali a cui la stessa I.A. è stata chiamata a collaborare. Da qui il mito ricorrente della “macchina pensante”, con tutti i suoi enigmi e le angosce che l’irrazionale che è in ciascuno di noi fa puntualmente emergere nell’ambito di ogni discussione legata al futuro dell’umanità e del progresso tecnologico.

Sembra quindi che il concetto di mito, che sembrava ormai moribondo se non del tutto tramontato nella cultura contemporanea, stia rinascendo proprio davanti ai nostri occhi come espressione di “mito tecnologico”, cioè come complesso di credenze (spesso del tutto irrazionali e ovviamente a-scientifiche) sul futuro delle macchine pensanti che diventeranno pervasive e incontrollabili riducendo prima o poi l’umanità in schiavitù o sopprimendola per sostituirsi a essa. Non che questa non possa essere una reale possibilità, intendiamoci, ma come ogni altro mito si tratta di una narrazione che non può essere definita dall’autenticità di qualche fatto storico realmente accaduto e poi tramandato seguendo canoni irrazionali e in qualche modo fantastici (o in questo caso dalla sua concreta possibilità di un futuro accadimento), quanto dalla sua capacità di entrare sempre più in profondità nell’immaginazione collettiva di un’epoca: la nostra.


 

 

Pubblicato il 24 novembre 2025

Maurizio Karra

Maurizio Karra / Antropologo culturale - Giornalista

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