Quando ti blocchi su una mail, lui interviene: “Vuoi una bozza per cominciare?” A pranzo, ti suggerisce un locale nuovo, basandosi su ciò che hai mangiato (male) il giorno prima. Nessuna lista da consultare: solo indicazioni precise, affidate alla voce. Nel pomeriggio, parli con un collega di un vecchio film. “Vuoi che te lo trovi in streaming per stasera?” E al rientro, c'è davvero il link pronto nella tua email. Alla fine della giornata, stanco, lui ti chiede: “Musica o silenzio?” Scegli il silenzio. “Va bene. Resto in ascolto.” E tace. Come sanno fare gli amici veri.
Quella che sembra una narrazione di fantascienza è in realtà un progetto concreto, il dispositivo "io", nato dalla collaborazione tra Sam Altman e Jony Ive, storico designer dell'iPhone. Finanziato con oltre un miliardo di dollari (grazie al fondo Thrive Capital), promette un nuovo salto tecnologico: un assistente intelligente, indossabile, privo di schermo, app o fotocamera.
Il dispositivo è pensato per anticipare i bisogni dell'utente in modo discreto, utilizzando microfoni direzionali, sensori ambientali e modelli avanzati di intelligenza artificiale generativa. Il suo scopo dichiarato è quello di liberarci dalla dipendenza dai display, riportando la tecnologia a una relazione più "umana" e meno invasiva. A differenza degli smartphone, "IO" non cerca di catturare la nostra attenzione. Non ha notifiche, non ci vende nulla, non ci bombarda di contenuti. È progettato per essere presente senza essere invadente. Una tecnologia che si adatta a noi, piuttosto che il contrario.
Qui, Sam Altman e Jony Ive presentano “IO”
Un dispositivo come “IO” promette di capire il contesto, anticipare bisogni, ascoltare in modo continuo. E qui sorge subito una questione fondamentale: chi ascolta, cosa viene registrato, dove vanno quei dati?
con dispositivi come IO ci avviamo verso un futuro di sorveglianza sotto forma di assistenti personali, capaci di esercitare un controllo affettivo, contestuale, adattativo?
Anche se OpenAI e Ive assicurano attenzione alla privacy (nessuna fotocamera, comunicazione vocale solo contestuale), il principio resta: per anticipare bisogni, qualcosa deve monitorare. E se monitora, può profilare. Non si tratta solo di “assistenti intelligenti”, ma di macchine percettive che imparano da noi in tempo reale. Il rischio? Che diventino dispositivi di sorveglianza sotto forma di “assistenti”. Siamo di fronte a un salto qualitativo del controllo. Non più solo esterno, ma affettivo, contestuale, adattivo.
Tra tutte le questioni che questo nuovo dispositivo solleva, la più rilevante è quella della proprietà. Di chi è il dispositivo "IO"? E, soprattutto, di chi sono i dati, le interazioni, la memoria condivisa che genera con l'utente? È accettabile che l’accesso ai benefici tecnologici dipenda dalle scelte e dagli interessi di aziende private?
Nel caso in cui, un domani il dispositivo smettesse di funzionare non potremmo più scrivere una mail, ricordare un indirizzo, gestire una conversazione. A chi apparterebbe il nostro avatar digitale? Come potremmo recuperare un backup della "nostra" memoria?
"IO" viene promosso per:
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ridurre la dipendenza visiva dagli schermi
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facilitare l'accesso alla tecnologia per persone con disabilità
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promuovere una relazione meno compulsiva con l'informazione digitale
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essere un assistente nelle relazioni quotidiane e nella gestione del tempo
ma ha la capità di:
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elaborare un monitoraggio costante e invisibile
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nomalizzare la presenza continua dell'AI nel nostro quotidiano
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spostare l'autonomia decisionale verso un sistema algoritmico
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sostituire relazioni e interazioni umane con una "simulazione empatica"
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gestire e controllare i dati e come vengono utilizzati
“IO” non entra nel corpo, ma si fonde con la percezione individuale. È progettato per essere invisibile, sempre attivo, senza interfacce visibili. È un’estensione cognitiva, non visiva.
Il chip sottocutaneo rappresenta un livello successivo: internalizzare ciò che ora è esterno. “IO” abitua il corpo e la mente a convivere con una presenza artificiale pervasiva, silenziosa e predittiva. In questo senso, normalizza l’idea che la tecnologia “ci ascolti sempre” per poterci aiutare. In futuro, la domanda non sarà più “vuoi un chip?” Ma “vuoi una versione più veloce e personalizzata di ciò che già usi?”
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