È una forma di conoscenza che difficilmente si può ottenere con un'intelligenza artificiale. Per quanto sofisticata, Gemini — come il suo omologo GPT — è prigioniera della sua architettura: simula, predice, collega, ma non incontra mai. Non c'è imprevedibilità reale, né rischio, né esitazione. Tutto è costruito per convergere verso un output funzionale. L'illusione di complessità si dissolve come in quei videogiochi degli anni '80 che, una volta completati tutti i livelli, rivelavano la loro natura finita. Nessun altrove, nessuna sorpresa, solo l'eco vuota di un "game over" privo di senso.
In oltre trent'anni da sistemista Unix e Linux, tra Solaris, ambienti militari, Zope, Domino, SharePoint e Joomla, ho visto molte ondate di automazione. Alcune intelligenti, altre disastrose. Oggi, con strumenti come Gemini, l’impressione è duplice: da un lato si percepisce una potenza tecnica notevole, dall'altro si avverte la stessa chiusura funzionale di un workflow disegnato su binari rigidi. In Google Colab, ad esempio, è possibile fornire un prompt in linguaggio naturale e ottenere l'intera sequenza operativa in Python — dal caricamento dei dati fino alla loro rappresentazione visiva. Un risultato pulito, rapido, eseguibile. Ma per chi ha disegnato workflow in una dozzina di strumenti diversi, da Confluence a strumenti ITIL, è chiaro che ciò che manca non è l’efficienza, ma l’apertura alla devianza.
La meraviglia funzionale è indubbia. Gemini identifica i passaggi, li presenta all'utente, attende conferma, esegue. Il codice generato è leggibile e preciso. L'intera pipeline diventa replicabile. Ma, come accade con gli strumenti che non permettono riflessione, ogni miglioramento successivo richiede di ricominciare da capo. Nessuna capacità di dialogo, nessuna memoria del contesto operativo. Non un compagno di pensiero, ma un esecutore brillante. In questo, ricorda certi script di provisioning automatizzato: fanno tutto, finché tutto funziona. Altrimenti, si ricomincia.
Per chi già conosce la struttura profonda dei sistemi, è un acceleratore. Per chi si affaccia oggi, è un aiuto didascalico. Ma in entrambi i casi, viene a mancare il momento in cui si sbaglia davvero. E sono proprio quegli errori — la riga sbagliata in uno script bash, il loop infinito in uno scheduling — a lasciare tracce profonde nella nostra forma di conoscere.
Nel confronto tra un passaggio sul tram e un prompt in Colab si nasconde, forse, la domanda essenziale di questo tempo: dove si colloca il valore dell'umano? Se ci affidiamo alle macchine per tutto ciò che può essere fatto più rapidamente, rischiamo di dimenticare cosa si guadagna facendo più lentamente. Ogni notebook perfetto è un passo avanti nella produttività, ma ogni incontro imperfetto è un passo verso una coscienza più ampia. Come scriveva Simone Weil, "l’attenzione assoluta è una forma rara di preghiera" — e nessuna macchina, per quanto potente, può davvero prestare attenzione (1).
L’AI, dopotutto, non ci supera perché è più intelligente, ma perché è più funzionale. Noi restiamo fragili, lenti, spesso contraddittori. Ma è proprio in quella contraddizione che accade qualcosa di irriducibile: una forma di intelligenza che non si lascia scrivere da nessun algoritmo. Come ricorda Carlo Mazzucchelli, “la complessità dell'umano è refrattaria a ogni modello riduzionista” (2). E come ammoniva Umberto Eco, “i computer sono inutili: ti danno solo risposte” (3).
Note commentate
(1) Weil, S. (1999). Attente de Dieu. Paris: Éditions Fayard. Trad. it. Attesa di Dio, Milano: Adelphi, 2008. ISBN 9788845922543. Una raccolta di testi in cui la filosofa francese riflette sull’attenzione come forma di apertura spirituale e intellettuale: un modello di presenza interiore in netto contrasto con le logiche dell’efficienza automatica.
(2) Mazzucchelli, C. (2014). La solitudine del social networker. Milano: Delos Digital. ISBN 9788867752621. L'autore esplora come le tecnologie mobili e i social network abbiano modificato le nostre relazioni sociali, portando a nuove forme di isolamento e solitudine, con una riflessione critica sulla condizione umana nell’era dell’interconnessione continua.
(3) Eco, U. (1992). Il secondo diario minimo. Milano: Bompiani. ISBN 9788845222092. Una raccolta di scritti brevi e ironici in cui il semiologo italiano sottolinea, tra le altre cose, l'incapacità delle macchine di porre domande, vero cuore della conoscenza umana.
(4) Faggin, F. (2019). Silicio. Dall'invenzione del microprocessore alla nuova scienza della consapevolezza. Milano: Mondadori. ISBN 9788804712589. L’inventore del microprocessore racconta il passaggio dalla fisica al mistero della coscienza, sostenendo che la consapevolezza non potrà mai essere simulata da un algoritmo.
(5) Varanini, F. (2020). Le cinque leggi bronzee dell'era digitale. E perché conviene trasgredirle. Milano: Guerini e Associati. ISBN 9788862507684. Un saggio che invita a pensare criticamente l’automazione digitale, recuperando il ruolo creativo e critico dell’umano nel lavoro e nella conoscenza.